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Delphine

G.Seurat - Tour Eiffel, 1887

Ormai la vedo da qualche mattina, alla stessa ora, sulla banchina della Porte de Montreuil. La carrozza sibila l'apertura delle porte e lei entra con il moto continuo e fluido dell'altra gente, cappotti e giacconi scuri, le sciarpe luccicanti delle donne di colore, i tonfi degli zaini dei ragazzi, i cigolii dei carrelli delle vecchie. Sto in piedi, piantato fra due porte, il dorso appoggiato alla sbarra verticale e un libro aperto da leggere, come sempre, col pollice a bloccarne le pagine.
Da tre giorni leggo sempre la stessa pagina: lei, la ragazza col gatto. Si siede sull'ultimo posto d'angolo, appoggia il cesto tra le caviglie che le sporgono dalla gonna un po' lunga, si aggiusta i capelli neri e lisci dietro le orecchie e poi resta lì assorta, uno zainetto di nylon blu afflosciato in grembo, il profilo girato verso il vuoto dei finestrini in corsa, in quel tunnel buio dove a tratti ci sparano addosso una mitragliata di luci gialle prima del fischio dei freni.
Ormai ho capito che la sto aspettando. Sì, la aspetto da dove salgo io, che è il capolinea, a quando sale lei, due fermate dopo. Vado al lavoro, anche lei va al suo. Si porta dietro un gatto in un cesto e ogni tanto si distoglie dal buio dei vetri e si china come una ballerina (quel torso flessibile... è impossibile non immaginarlo come un ramo di robinia che si flette anche se è infagottato in quel cappottino grigio maltrattato) e passa una mano sulla grata di vimini mentre piccole parole incomprensibili nel cantilenare del suo francese rassicurano il suo invisibile compagno.
Il viaggio è lungo e ritmato da sibili, scalpiccii, dondolare di teste che si lasciano trasportare passivamente nel ventre afoso e serpeggiante del sottosuolo, rasentando il fiume poi allontanandosene con larghe e stolte curve.
Vorrei sapere dove va. Un ragazzo rasta si è seduto di sghembo accanto a lei, e senza farle caso la schiaccia quasi col suo zaino e intanto si curva a sputare sul pavimento cartacce e gomme masticate. La guardo stringersi più addosso i lembi del paltò e controllare automaticamente la cesta tra le caviglie, ma su quel viso sottile e medievale non si annuvola alcun fastidio. Pensa? Sta riordinando le cose in programma? Va verso la sua solita giornata senza domande, senza attese? Vorrei saperlo.

Oggi ho saputo dove scende. Ho aspettato che passasse la mia fermata e l'ho seguita qualche minuto dopo.
Scende a Chaussée d'Antin-La Fayette, e le sono andato dietro col mio libro ormai sepolto in tasca, e con uno strano senso di liberazione per quell'odore di croissants e cuoio che mi aspetta altrove, nell'ufficio col parquet che cigola accanto a place de la République. Quel posto sto cominciando a odiarlo. Per attirarmici ogni mattina mi mettono iris freschi e caffè bollente sulla scrivania, e copie di tutti i quotidiani più importanti di tre o quattro paesi in bella e odorosa pila, invitante e anzi coinvolgente per uno come me. Uno scrittore italiano all'estero. Il sogno della mia carriera. Il loro sogno per la mia carriera.
Lei cammina avanti agile e dritta, passi piccoli e piedi un po' allargati come le ballerine cui mi fa sempre pensare. Scarpe piatte e sottili. Il freddo del marciapiede di sicuro la morde di sotto, ma lei è veloce, sembra saltellare, volare, danzare, e il cesto non la sbilancia, si muove insieme a lei come spontaneamente legato al moto del suo braccio, del suo fianco. Quando la folla infittisce momentaneamente o c'è un attraversamento, lo prende fra le due mani e se lo stringe al petto, e così insieme essi - lei e il suo misterioso compagno - superano il pericolo. Poi di nuovo riprendono il loro passo affiatato.
Dopo la farmacia un androne stretto con molte placche d'ottone. Lei scivola dentro con un unico ondeggiare di cappotto, gambe e capelli, e non la vedo più.
Leggo tutto e la trovo, credo: una di quelle cliniche veterinarie con annessa toelettatura. Sono sicuro che ci va per lavoro. Sono sicuro che il suo gatto non è malato. Sono anche sicuro, e non so perché, che non è lei il veterinario.
Guardo gli orari, poi torno indietro. A République.

"Quasi pensavo che fossi andato oggi a Fontainebleau, con questo bel tempo. Sei in ritardo, come mai?"
"Già, Fontainebleau, ci andrò in settimana. Oggi non mi andava. A me non pareva tutto questo bel tempo".
"Caffè?"
"Grazie, caffè".
"Croissants?".
"Grazie, croissants no. C'è tanta posta?".
"Ah, non so, non ho guardato il computer. Però - e sospira avvicinandomeli - ci sono i giornali".
Lui è quello che mi farà avere un bel po' di soldi per la serie di articoli che ho firmato di firmare. Articoli... ne farò degli appunti di viaggio, ma con un taglio fantastico. Rivisitare i luoghi della mia adolescenza a distanza di quasi trent'anni, dopo che sulle strade a pavé e quei viottoli di campagna sono passate per l'ultima volta le vite di quelli che mi sono morti.

La casa cantoniera dei nonni faceva angolo con un lunghissimo viottolo che scavalcava dossi di papaveri e segala. Mia madre non ci veniva quasi mai, mio padre mai del tutto. Non si sapeva dove fosse, in quegli anni. Non ci spettava saperlo, così come a lui non spettava provvedere a noi. Non era poi così sicuro che io fossi suo figlio, e neanche mia madre ci avrebbe giurato. Per questo strano motivo io stavo un po' scomodo a tutti, e preferivano lasciarmi crescere da una parte.
Peccato che adesso siano finiti altrove, le campagne giù di là sono piene di piccoli camposanti con le cappelline a tetti aguzzi. Alcune hanno una coperta di paglia in cima, poi il vento la scivola giù come capelli che si staccano da un teschio, ma è il vento dell'Atlantico, e la gente che attraversa le piazzette dei paesi se lo beve nella faccia e non gli dà fastidio.
Devo raccontare storie che facciano pensare alla vecchia provincia francese. Devo, per contratto. Tipo i vinai, i carbonai, quelli che tirano (che tiravano...) le chiatte, le monache con le ali delle cuffie a incolonnare file di ragazzette dalle ginocchia arrossate verso il sagrato. Devo scrivere un libro di memorie, memorie di non so chi ma francesi, e siccome io sono mezzo francese ecco l'idea. Scommetto che mia nonna e mio nonno, sotto terra, quando ci pensano si girano di fianco a guardarsi e ne parlottano a lungo tra loro come di un'assurdità, e chissà come si mascherano il vuoto dei denti con gli sbrindelli di tendini e falangi per non farsi sentire dai conigli che saltellano sopra l'erba.

"Come si chiama?"
Di solito si fa così. Una ragazza ti interessa. Vedi che non è fidanzata, o che il suo uomo non è abitualmente nei paraggi ; vedi che si accompagna di regola a un gatto, e i gatti incuriosiscono, specialmente in métro. Allora lo scrittore italiano, pagato e bene (cuoi, iris, croissants, ripassatine fuori contratto sulla nuca ogni volta chequella mi gira attorno, kyr a Saint Michel, garçonnière a Montreuil) lo scrittore e per di più italiano non può rinunciare ed esibisce la morbida zampata.
"Che bel gattino, come si chiama ?"
"Gatta. E' una gatta, non vede i tre colori? Solo le femmine possono essere di tre colori : bianco, nero e rosso".
Non lo sapevo. Sarà una cosa cromosomica.
La gatta si chiama Delphine. Sta con lei da quattro anni, non la lascia mai. Se la porta al lavoro, e dappertutto.
"A casa disturba, va a dormire sul divano. Gli altri non vogliono. E a me non va di tenerla chiusa sempre in camera".
Adesso devo andare avanti. Le chiedo dove la porta, e, come immaginava anche lo stupido scrittore italiano, è al lavoro che la porta, la tiene con sé mentre lava i cani delle signore ricche e li asciuga col phon. E' abituata, non si inquieta. Dormicchia, si lecca il pelo bellissimo, ogni tanto la accarezza qualcuno che passa. Sa stare al suo posto.
"Come si chiama?".
Sulla soglia dove si sta infilando col solito passo rapido e sfuggente si gira ancora un istante:
"Delphine".
Ma era il suo, di nome, che le avevo chiesto.
Forse non dovevo.
A place de la République, svogliato.

Sono stato a Fontainebleau. Non c'è più niente di quello che cercavo. Non so più cosa scriverò, eppure so che lo inventerò. Mi pagano, è il mestiere che mi sono scelto. Inventare vuol dire creare e far sognare qualcuno. Non ho mai immaginato un mestiere più bello. Adesso il mio nome è quello di un inventore di storie, e alcuni ci credono, e le fanno loro.
Continuo a vederla, la ragazza del métro, anche mentre guardo fuori dal vetro del bistrot e un pullman scarica un mondo di sconosciuti davanti alla reggia. Sono tornato qui, è l'unica cosa che mi trattiene ancora in questo posto dove i miei ricordi di ragazzo sono rimasti in mani sbagliate. Hanno preso e spostato tutto, non trovo neanche la strada del loro cimitero. Non chiedo, non mi importa più. Non ho più nessuno. Mi hanno risparmiato la loro indifferenza, il poco amore si è stemperato negli anni lontani, e qui neanche l'ombra dei platani ha più la stessa inclinazione di quando percorrevo i nostri viottoli sulla stanga di una vecchia bici.
Devo rientrare, ora il mio lavoro non ha più senso. Potrei finirlo ovunque, anche a casa mia, fra isolati e quartieri simili a quelli che hanno sostituito l'aia dei nonni, la canonica, l'argine dove pescare.
I turisti per fortuna non sono entrati qui. Lascio a metà, finisco di bere.
Chiedo un caffè.
Delphine.
Oggi è domenica, ho scelto apposta il giorno per non perdere nemmeno una volta l'occasione di rivederla. Non mi ha detto il suo nome, né le ho più riparlato, ma è così che la chiamo. Le sta bene,
quel nome. Vien voglia di ravviarle i capelli per liberarle tutta la fronte, limpida e inerme. Non lo farò mai, non la vedrò più. Domani, il primo volo, e in un'ora sarò in Italia.

Fa buio tardi, precipita giù piano dal cielo vasto sopra l'aeroporto. Si accendono molte luci, sibila l'aria condizionata, c'è già chi, seduto, dispiega un giornale e si estrania dai preparativi. Il libro del métro, non l'ho mai finito. Ora è tempo di farlo.

[[["Parti? Oggi?"
"Sì. Avrei preso il notturno ma volevo salutarti. Dirtelo, che parto".
"Non puoi partire subito, c'è ancora una cosa".
Non immagino che sta per invitarmi su da lei, non ho capito che vuole darmi un ricordo di questa città che non è né la sua né la mia ma che amiamo entrambi.
"Non andare, resta qui stanotte. Ho una stanza solo per me, nessuno fa caso a come vivono gli altri".
Studenti, randagi. Dividono uno spazio ma non le loro vite. Lei invece vuole inaspettatamente dividere un istante della sua con me.
"Perché? Vorrei saperlo, prima. Io non ti ho chiesto niente".
"Perché te lo chiedo io. Se vuoi, puoi restare stanotte, e partirai domani".
Un giorno in più, l'ultimo.]]]

Ma sono già sull'aereo, non sono più passato per quella stazione del métro.
La storia non scritta sta vivendo nella scia delle luci del decollo, e questo è il destino di uno che scrive per mestiere, non distinguere più se la sua vita è quella camminata per le strade oppure lasciata andare dentro i giorni che ingannano.

Non ho aspettato.
Delphine.


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