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L'avvoltoio

Da qualche tempo, aprendo la finestra di prima mattina, lo vedo lì, appollaiato in cima al palo della luce. Più che appollaiato, aggrappato ben solido al cemento sui suoi ferrei artigli: un avvoltoio.
Se ne sta fermo e stabile nonostante la mole, tutto stretto in sé, appena curvo in avanti ad assecondare al meglio il suo baricentro. Le penne lunghe che ricadono ai fianchi come uno strascico nero hanno l'aspetto di un mantello usato, la testa piccola si gira a destra e a sinistra con scatti brevi facendo saettare uno sguardo puntuto, ora vicino, ora all'infinito. Di tanto in tanto, guarda dritto verso di me, ma per poco; poi si distoglie e riprende la sua osservazione, sempre arcigna, sempre penetrante, alle cose intorno, ma mi lascia addosso la sensazione di essere tenuto d'occhio comunque, e non solo con la vista bensì con un sesto senso che lo tiene costantemente informato dei miei movimenti, forse anche dei miei pensieri.
Fin dal primo giorno, ho capito che è lì per me soltanto, che sono io il solo oggetto del suo interesse. A quell'ora, poco dopo l'alba, in tutta la strada ancora avvolta nel sonno sono il primo e l'unico a essere sveglio A quell'ora, siamo soli e di fronte uno all'altro, io e il mio avvoltoio.
Non c'è spiegazione alla sua comparsa; ma qualcuno deve avergli assegnato un compito odioso, quello di farsi mio guardiano mediante la sola presenza e quel suo sguardo accusatore che sembra sapersi fare beffe delle mie difese. I miei schermi mentali da animale di specie superiore non hanno potere contro la precisione dei suoi occhi né contro la ferocia della sua analisi.
E sembra averla proprio con me, dato che ha scelto quel lampione giusto davanti alla mia finestra, e non un altro, più giù lungo la strada. Perché? Cosa ho fatto, proprio io, per essere oggetto del suo controllo?
La mia vita è regolata e molto sobria, non ricordo di aver fatto del male a nessuno né si può dire che in alcun modo il mio stile di vita possa arrecare disturbo a chicchessia: passo le giornate al mio tavolo da lavoro, un lavoro silenzioso e riservato, dal momento che sono uno scrittore. Sfido chiunque a lamentarsi per lo strepito della mia penna sui fogli o per i clamori della mia mente che immagina. Quotidianamente, al contrario, ho le prove che la mia presenza passa del tutto inosservata, e che molti degli stessi inquilini del mio palazzo ignorano chi io sia. La portinaia non ha mai avuto occasione di salire da me per consegnarmi la posta, dato che non ne ricevo, né per offrirmi servigi domestici, dato che non ne abbisogno. I vicini di pianerottolo si comportano come se la porta del mio appartamento non esistesse neppure, o fosse quella di un locale sfitto. Quando mi capita, raramente, di dover uscire, prima mi assicuro che le scale siano sgombre, e scivolo fuori in fretta, col bavero rialzato, nel tentativo di rendermi invisibile. Detesto anche solo l'idea di passare da importuno. Sfrutto al meglio le ore notturne, quando i rumori svaniscono e il mio lavoro può procedere in silenzio e nella tranquillità; di giorno, mi arrabatto come posso, chiudendomi dentro la stanza più interna dell'appartamento, la più lontana dal pianerottolo, e mi isolo mediante tappi di ovatta nelle orecchie. Quando sento il bisogno di una boccata d'aria, socchiudo l'imposta e spio fuori da dietro la tenda appena scostata, badando a evitare che lo sguardo mi cada dentro le finestre di fronte e invada la vita privata di qualcuno.
Forse l'avvoltoio non è qui per me. Forse è qui per qualcun altro, più interessante o più colpevole. A guardar bene, ci sarebbe il generale in pensione Bloom del terzo piano, che tutti sanno essere avvezzo a picchiare la lamentosa moglie; oppure la vedova Altermann del pianoterra, che non sarebbe così ricca, col suo negozietto di stoffe, se da dietro la cassa non praticasse prestiti a usura; e che dire della signorina Corinne, che da quando si fa mantenere da un Consigliere di Corte d'Appello si alza a mezzogiorno e strapazza la sua cameriera solo per sentirsi importante? Se l'avvoltoio è qui per giudicare, per richiamare la coscienza di qualcuno, non dovrebbe occuparsi di queste persone, che di colpe riconosciute ne hanno più di me?
Ma alle cinque del mattino quella gente dorme, solo io sono sveglio. Solo per me l'avvoltoio è puntualmente al suo posto di osservazione. Che sappia, nessun altro lo ha mai visto, o ha dato a vedere di essersi accorto di lui. Avrebbe destato scalpore la vista di un avvoltoio su un lampione in un viale cittadino; scalpore e allarme, tanto da chiamare la polizia e la stampa, e chiedere l'urgente intervento dei vigili del fuoco o dei custodi del giardino zoologico. E questo è uno degli aspetti inquietanti della faccenda, che mi fa ritenere di essere io e nessun altro l'obiettivo di queste visite mattutine: il fatto che nessuno, mai, lo abbia notato.
Non rimane lì tutto il giorno, no. A una certa ora della mattina, sul tardi, mi accorgo che non c'è più, senza mai tuttavia essere riuscito a cogliere il momento e l'orario in cui si scuote e vola via. Ho tentato di nascondermi dietro la finestra ad aspettare, ma ogni volta è successo qualcosa che mi ha distratto, oppure un'ispirazione improvvisa ha reso necessario che tornassi a sedermi alla scrivania, e ho fallito il mio appostamento. So solo, per certo, che dopo mezzogiorno non l'ho mai visto, l'avvoltoio sul palo della luce. Il suo orario è esclusivamente mattutino, anzi mattiniero. Mi precede nell'alzarmi e si sofferma qualche ora, a volte di più a volte di meno. Non c'è senso nella sua scelta, non vedo un nesso con nulla.
Quello che forse ho capito è che è lì per controllarmi. Il motivo non mi è ancora chiaro, forse riguarda il mio lavoro, la qualità di quello che scrivo oppure l'impegno con cui lo faccio, il tempo che gli dedico. Forse non lo ritiene adeguato, e con la sua presenza giudicatrice mi mette in guardia. Forse mi vuole diffidare. Forse, senza mezzi termini, mi minaccia. Non sono ancora riuscito a identificare i termini di questo suo imperioso avvertimento, non so figurarmi le conseguenze cui vado incontro disattendendo alle sue aspettative. Ogni giorno mi sforzo di stabilire una qualche forma di comunicazione con lui che chiarisca la mia situazione e mi permetta di discolparmi. Ma per ora non succede niente: ci guardiamo, ci studiamo, e non ci diciamo nulla.

* * *

Da due giorni non lo vedo più. Strano, non era mai mancato una volta, finora. Non è mancato in pieno inverno, quando si stagliava funereo contro il cielo livido, né all'inizio della primavera, controluce a dare le spalle al sole delle albe rosate. Mi è stato testimone per mesi mentre arrancavo su un tomo irto di difficoltà e di dubbi, soffiandomi sul collo perché lo portassi a termine malgrado lo scoraggiamento e le frequenti crisi di ispirazione. Ora che ho finito, deve avere concluso il suo compito. Questo, almeno, è quello che spero. Ma ho anche un altro sospetto che striscia negli angoli del mio studiolo come un insetto molesto: che la sua partenza sia il segno di una delusione, di una disapprovazione, di un disgusto, che preluda a qualcosa di ben diverso e più inquietante, a una punizione che ho meritato e che arriverà, sotto forme per ora inimmaginabili, da un momento all'altro. E' possibile che non gli sia piaciuto il mio lavoro. Forse ne è rimasto scontento e giudica inutile il tempo che ha dedicato a farmi la guardia, a pungolarmi. Forse ha concluso che con me non c'è speranza, ed è volato altrove a occuparsi di qualcuno che gli dia maggiori soddisfazioni.
La sua assenza mi manca e mi mortifica. Mi sento abbandonato, e ne faccio una colpa a me stesso.
Da due giorni non lo vedo più, e non so se tornerà. Non lo credo.
Per questo, oggi, scrivo di lui.


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