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Acqua, fuoco, fiori, stelle

Tra i palmi una fiammella e un respiro avido.
Seduto sui gradini, ha spinto indietro la maschera di cartapesta e raso nero, e i suoi guanti appaiati uno sull'altro sono flosci a terra al suo fianco. Nella breve luce del cerino, i suoi occhi svuotati hanno un guizzo grigio-acqua, e intorno un ventaglio di rughe da viaggiatore. L'ho riconosciuto dai capelli candidi raccolti da un fiocco color porpora, la stessa porpora arabescata del panciotto che si svela tra le falde del mantello. Io e la mia gonna a rose, lui e il suo costume da teatro, sediamo fumando sigarette sottili mentre guardiamo fiorire e inabissarsi i pleniluni della Notte dei Fuochi.
Gli adoratori della luce, lontano da qui.
I palazzi delle feste, lungo un canale meno plebeo del nostro.
"Artemisia... Berenice... Coralba... - sta ricordando.
Mi muovo appena, per raccogliere le ginocchia con le braccia e ascoltare meglio le sue storie, se vorrà raccontarmele.
" Désirée... Eloïse... Francine..."
E' stanco per ricordare, e spento per raccontare.
Gli porgo l'acqua dal mio sacco di tela indiana: ne beve lungo e triste, poi se la poggia accanto per la prossima sete, che è vicina.
"Ho le caviglie a pezzi..." e se le stringe con le mani senza trovare sollievo.
Danzerà tutto il resto della notte per far belle le donne che gliel'hanno chiesto. Implorato alcune, ordinato altre. A ognuna uno sguardo in bilico tra passione e indecenza, e a ognuna una fiamma nel ventre e un abisso di vizio dietro le stecche di un ventaglio.
Un gatto e un geranio mi aspettano nell'abbaino, insieme a un lampioncino tenue di carta arancione con dentro un mozzicone di candela, in voto al Redentore di questa città di bellezza, malattia e peccato.
Due archi quasi simultanei di brace rossa volano insieme oltre la spalletta del ponte, nell'acqua buia senza più riflessi.
"Sei bella sai - mi guarda inclinando un po' il viso, o forse sta chiedendo.
"Ti xé bela, ti xé ‘na bela putèla. Te lo gà mai dito nissùn?"
Sorrido alle mie mani. Sì, altri come te, vorrei rispondere.
"Ti xé bela come ‘na stela. Vustu che andémo in spiaggia? Mi e ti soli? Eh, vustu?"
La spiaggia dopo la mezzanotte, la sabbia freddata, i pesci che emergono al quarto di luna.
(Vorìa, sì che vorìa...)
Ma i Palazzi e l'abbaino, i lampadari e la candela, le livree e il gatto. La mia gonna a rose, il suo damasco e le perle.
In cima al ponte scegliamo due discese diverse, dandoci le spalle in un addio impreparato. Prima di svoltare in fondamenta, mi giro una sola volta e lui, alto, nero, desolato, mi sta ancora guardando.
"Ma petite mère, étoile de ma nuit... ma douce fille au sourire éternel..."
La voce bisbiglia sul mio cuore. Con la mano carezzo l'ultimo palmo del parapetto di pietra come saluto, e ancora lo sento:
"Je t'adore".


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