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Torno qui dopo una ventina d'anni.
Non sono sola, accanto a me c'è un uomo che è arrivato nel frattempo
e si è seduto nella mia vita come un gatto tranquillo. Tu sei piccola
e porti lo stesso fazzoletto sui capelli (corti, con la frangetta) che mia madre
metteva a me allora. Non sei mai stanca di camminare, mi chiedo a cosa serva
quel passeggino che spingo per inerzia mentre tu vai per la nostra strada ma
appena di poco avanti a noi, guardando da sola cose che ancora non ti possono
dire niente. I tuoi passi sono caparbi e inconsapevoli della loro precarietà.
Afferri un'erba che dondola fuori da una cancellata, e tiri per prenderla. Un
coccio di vetro verde ti incuriosisce e ti accuccioli a studiarlo. Non ti diciamo
niente, ci soffermiamo ad ogni tua sosta per guardare come ti impadronisci del
mondo.
Hai diciotto mesi.
Sei un errore di Dio; quel febbraio (erano le due di un pomeriggio di mezza
neve) un bisturi degli uomini è stato più rapido della falce dei
suoi distratti sicari, e ora sei qui a dimostrare che quel Dio si può
sfidare.
Uno di questi anni sporgerà denuncia ma intanto tu e noi ci prendiamo il
lusso di ridere di lui.
"Guarda, qui c'era casa mia".
Tu ti sei fermata a toccare la coda di un cane che scivola via negandosi.
La mia vecchia casa non c'è più. Spianata con tutto il suo giardino
di magnolie e palme, e quel cancello che non chiudeva bene ma non si poteva
mai aprire. Restava sempre socchiuso, e io dall'altra parte. Non ci sono più.
Il condominio nuovo ha larghe finestre con tende da sole come in Costa Azzurra,
e terrazze che travasano cascate di tralci mediterranei scolpiti da giardinieri
prezzolati. Le irregolarità delle proporzioni, i balconi uno diverso
dall'altro, l'altana ballonzolante in cima come una zattera nel
cielo; spianate. Tutto bello dritto, architettura piana e riposante. Filodiffusione
dentro le stanze di gente annoiata, che non ha nessun diritto di tenere un mobile-bar
di radica e cristallo nell'angolo dove nascondevo le storie che inventavo quando
ero orfana. L'albero di natale stava nella stanza più fredda, in fondo,
e il suo odore pungente mi eccitava per settimane. Stava lì dove ora
nel muro piastrellato di amaranto una donna inutilmente ricca ha fatto piantare
un gancio per le sue fucsie ricadenti, e sotto ci si mette lei col suo lettino
a prendere gratis il sole della mia infanzia.
E i garages, santo dio. Questa è gente con la macchina. Questa è
gente che vive in un'isola lunga dieci chilometri e tuttavia ha la macchina,
perché così può avere anche un bel garage con serranda
telecomandata, anche quella amaranto come il bel vestito lucido della nuova
costruzione.
Noi dove ci hanno sbattuti?
Ah sì, siamo stati noi ad andarcene, che stupida. Nessuno ce l'ha chiesto.
Stavamo così bene con quelle scale di quattro piani gelate, quegli spifferi
di mare che ci attraversavano i davanzali per sfogare in laguna (e noi in mezzo...),
con quel cancello mezzo aperto e mezzo chiuso, così bene stavamo che
è stato meglio andar via.
"Guarda, la mia scuola".
Hai voluto le matite e tracci colori su un foglio appoggiata sul bordo del passeggino.
Le Suore hanno fallito come educatrici, retta troppo costosa, calo delle nascite.
In quel giardino di rose ordinate (ma tutte e solo per la madonna della cappella)
noi giocavamo a darci la mèa e io correvo più veloce di tutte
e la Superiora mi metteva le note sui quaderni perché ero brava ma troppo,
davvero troppo vivace. Mia madre non me le firmava neanche, non aveva tempo.
Firmale tu, diceva, tanto. Non mi ha mai accompagnata a scuola. Non mi è
mai venuta a riprendere. Una volta stavo poco bene, e le Suore mi hanno tenuta
a mangiare lì con quelle che si fermavano a mensa, finché una
vicina di casa, pagata, è venuta lei. Quel giorno, forse anche gli altri
giorni, c'era riso e patate, in brodo, perché le Suore mangiano solo
la roba col brodo. Anche adesso fanno tante minestre, per le riverite pensionanti
che pagano i loro posti-sdraio nel giardino dove mi avevano perfino fotografata
il giorno della Prima Comunione. Le mettono fuori la mattina, le sistemano al
posto giusto, in mezzo sole e col foulard in testa, poi la sera le riportano
dentro.
Riso e patate. Salve Regina. Giro di padelle notturne, e che vi vegli il vostro
angelo custode ché anche noi Suore siamo stanche e stufe di una vita
di minestre e scialbe certezze.
Attraversi la strada e, volendo, ci sarebbe il mare. Ma che se ne farebbero?
"Guarda, qui prendevamo il gelato la domenica".
Oddio, mica tutte le domeniche. Quando era estate e a mio padre gli girava.
Diciamo due, a farla grande tre volte l'anno. A dieci anni siamo venuti via
dal troppo bene che stavamo e fino allora avevo mangiato... forse una ventina
di gelati?
No? Meno?
Meno, allora.
Tu come lo vuoi? Io sempre crema e nocciola. Sempre. Mai avuto fantasia, per
mangiare.
Stai seduta trionfante su quella panchina e dondoli energicamente le piccole
gambe avanti e indietro, scalciando i passanti.
Il tuo gelato è tutto di cioccolato e sbrodola felice.
Che te ne frega, a te?
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