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Regine

digitalis purpurea

Un inverno di gelo ma senza neve arrivò la regina degli zingari.
Era tempo che non la vedevo, aveva viaggiato tutte le strade sconquassate del mondo prima di far ritorno qui.
Me la trovai in un letto un mattino di nebbia lattescente, e la mia piccola suora dalle gote indignate era scombussolata nel darmi la notizia.
Le donne dalle gonne a fiori e a balze erano tutte lì in quella camera, panni vistosi e lunghe frange appese alle testiere e sui pali delle flebo, un plaid a rose marroni sopra il largo termosifone, e quel loro andirivieni bovino e inconcludente con una bacinella di poca acqua e schiuma grigia e uno scrignetto incrostato di conchiglie per i gioielli della regina.
La conoscevo bene.
Per anni era capitata da noi tutte le primavere, a farsi seccare la tosse complicata e echeggiante del lungo inverno di carovana. Si fermava poco. Appena ritrovava un pertugio per farsi entrare nei polmoni il fumo delle sue mai contate sigarette, si tirava su con i suoi lussuriosi stracci rosso e oro e se ne andava col suo corteo di stoffe danzanti e pendagli d'ottone come turiboli pagani senza ascoltare.
Adesso a stremarla c'era la febbre, troppo imperiosa su quel corpo di legno bruno prosciugato da un'incommensurabile vecchiezza. I rami secchi delle braccia erano roventi al tatto. Tutte le crepe del viso austero erano più profonde e, pur nella prostrazione, minacciose come il presagio di una morte.
Giù nel parcheggio avevano accampato a casaccio grosse auto da magnaccia con fodere di pelouche, guardate da bambini alteri e cani distratti. Lungo le scale, come comparse di coro greco stavano drappelli di sudditi in mesti abiti da udienza, ma non ancora degni di essere ammessi. La mattina, le sue donne volevano accudirla, cambiarle gli abiti regali con altri anch'essi stantii e sudati, aggiungere scialli e nastri di porpore e ori tarmati, e riedificare l'acconciatura delle alghe grigie e lanose che sulla sua testa si adornavano di diademi da strapazzo.
Il pomeriggio venivano gli uomini, in doppiopetto e con stomaci sporgenti, a esibire il luccichio di anelli d'oro pesante alle dita e a renderle rispetto mentre teneva faticosamente severa corte di giustizia per la tribù.

Non potevamo accettarlo. Io, non potevo accettarlo.
Potevo ammirarla e inviarle il mio silenzioso e solidale omaggio di donna, riverire da lontano la sua forza inflessibile e quel potere che le sibilava inappellabile dal cupo degli sguardi brevi ma taglienti. Mi inchinavo al suo passato di matriarca, di ape-regina, fondatrice di clan, madre unica di tutti quegli orgogliosi nomadi ricchi di lussi e sbrindelli.
Era nata regina e non temeva nulla.
Quindi, io non dovevo permettere che non avesse rispetto per me. Era la mia unica arma, e me ne servivo per il suo bene.
E poi non me lo avrebbe perdonato, dato che era stata proprio lei a cercarmi, a guidare i carrozzoni verso queste parti dove in altre stagioni ancora io la avevo accolta nelle rassicuranti comodità di un ospedale di campagna, in quegli ultimi anni in cui anche la vecchia immortale aveva cominciato ad arrendersi alla prolungata tortura dell'asfissia.

Entrai nella stanza con il mio passo secco, dritto e invincibile, il bianco addosso che distingueva me regina da lei regina, e le mie piccole mani nude ma sapienti, capaci - lei le conosceva già bene - capaci di trovarle il male dentro e domarlo.
Di fronte a lei tra le ali dei suoi pretoriani, delle ancelle ottuse, nell'odore rancido di stranieri in perenne esodo, impugnai la stanga di metallo a piè del letto come un segno di comando e ci guardammo negli occhi con la sfida di due alla pari.

Scelse me.

Uscirono tutti, e io non sono certa di avere visto il cenno con cui li congedò.
Un attimo dopo, eravamo sole, io e lei.
Silenzio di pace e rantoli di liberazione. La sua malattia nuda e miserabile esposta tristemente, una richiesta sottintesa di mutua collaborazione, purché discreta, nascosta, protetta dagli sguardi gelosi dei suoi adoranti guardiani e aguzzini insieme. Libera di soffrire come le altre malate.
La suora rinfrancata entrò seguita da due infermiere che ridacchiavano e spingevano il carrello cromato, quello delle diagnosi e delle prognosi, della vita e della morte.
Chiudemmo la porta, e mi occupai di lei

Le davo sempre del tu, e sempre lei mi chiamò "Bella bambina".
"Bella bambina, qui dentro non ci ho mai fumato, e lo sa Nostro Signore se è vero. Ma lì fuori c'è freddo, e il fumo mi scalda ".

Prima di sparire (e lo fecero come i fuggiaschi che sempre erano), lasciarono fasci di fiori alla madonna della cappellina, e gettoni e biglietti omaggio per le giostre a tutti i dipendenti, perfino a mia figlia che - ma io non lo sapevo ancora - mi era appena cominciata a vivere nella pancia, e finalmente venne la neve.


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