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Di sabato pomeriggio, se non ci sono rogne, mi metto a riordinare carte.
I miei schiavetti lasciano sempre le cartelle a metà, tipo manca l'esame
obiettivo, tutto o più spesso quello neurologico che non lo sanno proprio
fare, e poi santodio non c'è verso che scrivano una riga di diario.
Il diario è IMPORTANTE. Faglielo capire.
La cartella clinica è un atto d'ufficio, se succede un casino deve essere
in ordine, altrimenti li hai tutti addosso.
Per fortuna ho ancora memoria e anche la competenza per riempire le righe vuote
risalendo ai fatti da quanto trovo scritto sulla grafica e nel registro del rapporto.
E poi conosco i miei polli, anzi le mie pollastre, a menadito.
Però 'sti pivelli.
Un giorno me ne prendo uno per il gomito e gli dico vieni un po' qua.
Lo porto in corsia, al letto della Marta, le scopro l'addome flaccido e glielo
indico.
"Questo cos'è? Questo sbrego?"
Un solco pallido e dentellato da sotto lo sterno alle mutande, che per superfluità
non le abbasso.
Il pivello suda sotto gli occhiali.
"Una... laparotomia?"
"Bravo. Del '72, vero Marta?"
"Eh ciò, gò fato peretonite, de bòto morivo".
Appoggio la cartella su quell'addome indifferente e la apro alla pagina dell'esame
obiettivo.
"Qui c'è scritto: addome piano, trattabile, non dolente in tutti i
quadranti. OK?"
Raccolgo i fogli e glieli schiaffo in mano.
"Va' a sistemare. E scusa, Marta".
"De cossa, profesoressa".
Alle mie vecchie do del tu, e loro mi chiamano profesoressa, siamo pari. In compenso
ci adoriamo.
Il mio studio è lungo e stretto, con la finestra in fondo. Mi rimetto
a scrivere e un attimo dopo si affaccia il Primario, con altre cartelle in mano.
"Cos'hai portato?"
"La Nona, ti va?"
Si siede accanto, sull'altra sedia, e io accendo.
Lui ha uno studio più grande e comodo, ma il mangiacassette è
mio.
Parte la musica e partono le sigarette e le penne.
Lavoriamo in silenzio dentro la Nona di Beethoven, la nostra consolazione.
Dopo un bel po' entra senza bussare un'inserviente ed esclama:
"Madòna quanto fumo 'sti dotori!"
Va a spalancare i vetri sul freddo del Brenta, e lui senza girare la testa le
ordina immediatamente:
"Taci donna, e portaci un caffè".
"Un altro".
"E chiudi la finestra. E la prossima volta chiedi permesso".
L'inserviente obbedisce svelta, tutta compiaciuta di essere stata chiamata "donna"
dal suo primario, che ha fama di vecchio puttaniere.
Riprendiamo a scrivere nel fumo e nella musica, poi anche nel caffè e
poi altro fumo.
Verso le sette, estenuati dallo schiacciante finale dell'Inno alla Gioia, lasciamo
il lavoro ormai sistemato come piace a entrambi e ci prepariamo ad andarcene.
Mi tolgo il camice e mi sfilo la maglietta bianca, restando in reggiseno davanti
all'armadietto aperto mentre ne estraggo il maglione.
Lui torna già in cappotto e fa in tempo a vedermi spogliata.
Finisco di vestirmi, salutiamo le infermiere e scendiamo le scale.
Sul primo pianerottolo lui mi incantona e mi pianta un dito in mezzo allo sterno,
con un sorriso a occhi appuntiti.
"Tu- mi dice
"Io cosa?- gli sorrido di rimando.
Toglie il dito e mi ricorda: "Noi due non abbiamo ancora consumato".
Poi, dopo un attimo di sguardi complici riprende a scendere, e io dietro a lui.
Bei tempi.
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