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Sto andando a pezzi, e nell'ultima frazione di istante prima della fine
rivedo in un flash tutta la mia vita.
All'inizio ero sabbia e fuoco. Elementi primordiali, carichi di presagi.
Il soffio e le mani di un uomo sapiente, in un antro buio e ingombro
di strumenti che parevano di tortura, mi diedero la vita e la forma con
gesti di vertiginosa velocità e precisissima calibratura. Il ferro
mi plasmò in un'armonia priva di incertezze, guidato da
occhi che avevano appreso da generazioni a creare la bellezza e la lievità.
Divenni vaso di vetro, vetro sottile e musicale, con un ventre appena
sagomato per garantirmi l'equilibrio e un collo slanciato che finiva
con ondulate sfrangiature a corolla, come di fiore nell'atto – ancora
incompiuto – di sbocciare. Altri fiori mi nacquero sui fianchi
dalle mani delicate di una pittrice che si consumava la vista in un retrobottega,
fra boccette luminescenti e pennellini di precisione. Mi inghirlandò di
tralci di rose antiche dalle sfumature fanées, come se le mani
di quella donna silenziosa e assorta ne avessero accarezzato i petali
fino a farli appassire come succede agli amori tristi.
Nella vetrina di una botteguccia intima e di ottimo gusto condivisi qualche
settimana di attesa con altri oggetti di costosissima bellezza e inutilità.
Quando uno di noi se ne andava, avvolto in carta velina e affidato alle
mani di un esigente collezionista, noi rimasti ci chiedevamo quale sarebbe
stato il suo destino e quale il nostro. Il mio sembrò compiersi
un pomeriggio d'inverno quando mi volle per sé una signora piena
di grazia e di soldi, il viso luminoso di bella donna invecchiata con
stile. Ricorderò per sempre il suo leggerissimo profumo e la sua
classe. Negli anni che passammo insieme, io riuscii ad esprimere tutta
la mia vocazione alla bellezza, perché ne ero circondato. Posato
su un tavolino da tè, osservavo tutt'intorno oggetti squisiti
che riflettevano l'amore per l'arte, dai quadri riposanti alla pareti
alla piccola collezione di argenti inglesi al delizioso scrittoio Luigi
Filippo e a mille altri particolari studiati e amati e ricchi di memorie.
Assistevo estasiato ai gentili rituali dell'ospitalità quando
vecchie amiche venivano in visita portando minuscoli pacchetti
di dolci oppure fiori destinati a me. La sera ricambiavo i bagliori di
una lampada d'ottone nel cui cono di luce la mia cara compagna si intratteneva
a leggere, mentre una pendola, in un altro punto della casa, batteva
sommessa un ritmo rallentato apposta per dilatare quel nostro tempo intimo
e felice.
Poi vennero anni bui. La notte dalle imposte non filtrava più la
luce del lampione, ma il selciato a volte rimandava echi minacciosi di
passi marziali. In casa cominciarono a sparire oggetti, i più preziosi
e forse meno amati, e a diminuire le visite così come il tè,
i pasticcini, i miei fiori freschi e i sorrisi delle signore impellicciate.
Sparirono le pellicce, sostituite da pastrani grezzi e scarpe scadenti.
Il cielo certe notti rombava, ma non erano tuoni bensì bombardieri.
La mia cara compagna era diventata più fragile di me, e da tempo
si copriva di scialli il petto e le spalle smagrite. Tossiva. Cercava
il respiro e lo trovava solo a letto, in un riposo forzato ogni giorno
sempre più inutile. Una sera si addormentò sulla poltrona,
e io lì accanto fui l'ultimo a farle compagnia e il primo, alle
luci dell'alba, a sapere che era morta.
Fu in una valigia piena di stracci e altri oggetti depredati che giunsi
nella baracca in mezzo al bosco dove i ladri e gli sciacalli di guerra nascondevano
i loro bottini in attesa di tempi migliori. Finii sotto uno strato di
paglia ammuffita insieme a cornici dorate, cucchiaini d'argento, orologi
fermi, anelli di fidanzamento, stole di volpe, statuine di Sèvres,
spille con brillanti, perfino un paio di incunaboli, forse contraffatti.
Per mesi non successe niente; il cielo sopra di noi era fuori dalle rotte
dei bombardieri, oppure la guerra era finita ed erano morti tutti, ma
noi non potevamo saperlo. Una tabacchiera cesellata non smise un solo
giorno di gemere per le sue ammaccature; l'icona di una madonna nera
rubata in una chiesa, invece, non si degnò mai di scambiare con
gli altri nemmeno qualche osservazione sul tempo o sulla giustizia divina,
che a tutto avrebbe posto rimedio. Io ero taciturno perché non
mi era ancora riuscito di metabolizzare il mio lutto.
La mattina che vennero a riprenderci, erano in due, le facce scure e
indurite dalla voglia di litigare. Infatti litigarono aspramente mentre
si spartivano ciò che era rimasto delle loro ladrerie, e un messale
antico con la rilegatura incrostata di gemme si squartò fra le
loro mani che se lo contendevano. Io, avvolto in una vecchia sciarpa
puzzolente, finii in un sacco insieme ad altri oggetti oltraggiati e
più morti che vivi, e rividi la luce solo il giorno dopo, nel
retrobottega di un rigattiere che mi spolverò alla meglio e mi
mise con malagrazia su uno scaffale straripante di cianfrusaglie in fondo
alla sua botteguccia buia.
Da quello squallore mi salvarono, ma dopo interminabile attesa, le mani
pallide e artritiche di due vecchie suore alla ricerca di qualche arredo
di poco prezzo per la loro cappella semidistrutta dalla guerra. Con monacale
pazienza e perfezionismo mi ripulirono fino a farmi tornare un sorriso
mesto ma luminoso, e con trepidazione mi dedicarono all'altarino di una
madonna dolente che per gli spostamenti d'aria aveva avuto un braccio
spezzato e poi riattaccato con industriosi tasselli di legno. I bimbi
dell'asilo mi portavano fiori e le nonne con i loro fazzoletti neri in
testa sgranavano rosari e requiem in ginocchio davanti a me e alla mia
nuova Signora. Ora potevo dirmi in pace e al sicuro, ma i bei ricordi
e quelli brutti mi dolevano ancora, e le fiammelle delle candele, la
notte, mi davano i brividi.
Un inverno venne un freddo così forte e persistente che l'acqua
gelò nei tubi, i tubi si spaccarono e la casa delle suore rimase
senza riscaldamento, né i soldi per le riparazioni, ché già c'erano
troppi debiti e troppo poche offerte. Le religiose furono evacuate e
l'asilo fu chiuso in attesa di finanziamenti. Il vescovo fece mettere
all'asta il poco che si poteva, ma non si presentò nessuno. Giusto
il parroco si aggiudicò un Cristo per la sacrestia, ma a prezzo
simbolico, e io lo vidi staccare da sopra l'altare e trasportare fuori
come un ferito, un malato, o un morto. Invece stupì tutti il vecchio
professore di Latino e Greco, in pensione da tempi immemorabili, che
dopo essere stato un mangiapreti per tutta la vita si stava ora verosimilmente
preparando l'anima al giudizio finale e offrì una cifra non indifferente
per il restauro in cambio di una blanda assicurazione per l'aldilà.
In omaggio per la sua inattesa generosità, accettò un piccolo
dono, e quel dono fui io.
Mi portò a casa sua e mi fece posto fra i suoi libri, in uno studiolo
stipato di ricordi e odoroso di sigaro. Ci passava molte ore, leggendo
e scrivendo; a tratti si assopiva con il mento fra le mani, poi si risvegliava
e si affrettava a ripulire gli occhiali con un enorme fazzoletto. Dalla
finestra vedevo gli alberi di un vecchio giardino e udivo tubare tortore.
Il professore era un uomo sereno ma la sua compagnia non valeva molto.
Non mi guardava mai. Non comunicava. Mi aveva semplicemente e distrattamente
aggiunto alla sua collezione di ricordi e di regali, e forse mi usava
per riempire uno spazio vuoto che gli avrebbe trasmesso un senso di incompiutezza
e di disarmonia. Mi affezionai ugualmente al sentore di sigaro e ai ritmi
della casa. Due volte la settimana una signora anziana in evidenti legami
di parentela con il professore provvedeva alla spesa e al bucato. Il
venerdì sera, dopo aver chiuso l'ambulatorio, passava il medico
per misurargli la pressione e fare due chiacchiere prima di cena. Tutte
le mattine il professore usciva in passeggiata e tornava con il giornale;
a volte parlava da solo a voce alta commentando gli incontri che aveva
fatto per strada, con il sindaco, con il geometra, con la vedova di un
collega. Era tutto sommato un galantuomo, purtroppo però molto
in là con gli anni, e io sbirciando le sue caviglie gonfie e il
colore scuro delle sue labbra temevo che presto mi avrebbe lasciato anche
lui.
Invece adesso so che andrà diversamente. So che non gli sopravvivrò.
Io che sono sopravvissuto ai bombardamenti, alla perdita della mia amata
Gentildonna, allo squallore di una tana di ladri, alla promiscuità con
le carabattole di un rigattiere ignorante, al gelo di una madonna senz'anima,
vedo chiaramente la mia fine inevitabile riflessa negli occhi pieni di
malignità di un gatto, un gatto entrato non so spiegarmi come
in questo tranquillo studiolo proprio nell'ora della passeggiata del
professore. Un gatto sgusciato da una porta lasciata aperta per distrazione
e deciso a esplorare il nuovo territorio e a riportarne un trofeo.
Mi ha già puntato, e la sua mente ha già eseguito tutti
i calcoli per effettuare con successo e in sicurezza il balzo silenzioso
che gli farà raggiungere il mio scaffale. L'istante della decisione
glielo leggerò negli occhi, nell'impercettibile fremito delle
sue vibrisse. Non ho scampo. Di me non resteranno che i coc
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