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Il corrimano |
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Sono qui - sostenuto in obliquo da tre supporti d'ottone brunito distanziati il giusto, io di legno scuro di noce e i miei due pomoli torniti che mi delimitano - sono qui con la mia vocazione alla solidità per un incarico di fiducia: fare il corrimano. Passo molto del mio tempo a osservare, forse un po' ottusamente, la parete di fronte. E' bianca. Dal soffitto pendono tre faretti collocati con giudizio. Illuminano i gradini e accendono il seppia e l'avorio di quattro stampe antiche, incorniciate di scuro, in salita verso il pianerottolo. Una calligrafia arcaica, inclinata, compiaciuta, indica, fra molte iniziali superfluamente maiuscole, i rispettabili nomi delle chiese rinascimentali che abitano quei quadri, e personaggi mantellati e piumati che percorrono i sagrati come attori su un palcoscenico inciampano i loro scarpini appuntiti (con le fibbie, eh, con belle fibbie in evidenza) sulle più alte fra le lettere di sotto. Sulle elle e le ti e soprattutto le emme, più maiuscole di tutte, delle M adonne e delle Marie. Santa Maria Formosa, Madonna della Salute, Madonna dell'Orto. La gi di San Giacomo in Orio si impiglia nello strascico di una donna con un cesto fra le braccia. I tratteggi sulle facciate sembrano pioggia invernale, e anche i cieli sono ondosi di nuvoloni possenti. Severi segnali della Divinità, direi. Sul pavimento, marmo amaranto e antracite, sono rimasti conficcati due
anelli d'ottone per ciascun gradino, da quando - ai bei tempi - erano
percorsi da una passatoia di velluto rosso brillante. Poi sono arrivati
i bambini della casa, tre uno dopo l'altro, e sotto i miei occhi troppo
spesso li vedevo inciampare con le loro pantofoline irrequiete. Allora
i grandi l'hanno tolta. Dicevano, oltretutto, che ora si macchiava troppo
facilmente. Fango del giardino, capite, e schizzi di aranciata. Un marmocchio,
disperato per i fatti suoi, una volta ci è rimasto seduto a strepitare
un capriccio per così tanto tempo che gli è scappata la
pipì e l'ha fatta proprio qua, davanti a me, sul velluto della
corsia di famiglia. Epperbacco. Di giorno c'è più luce e viavai: vedo gente entrare dal portoncino e attraversare l'ingresso, per passare in altre stanze la cui visuale è fuori dalla mia portata. In una di quelle ci deve essere un pianoforte, che ogni tanto sento suonare; del resto, ricordo di averlo visto arrivare in casa molti anni fa, proprio nei giorni in cui stavano fissando le viti che mi sostengono e i pavimenti erano invasi di casse e cartoni da cui continuavano a uscire (e a essere trasportati in giro, di qua e di là, senza mai fine) oggetti di ogni peso e dimensione che si lasciavano dietro, per terra, cartacce, spaghi e imballi. Una donna li raccoglieva inutilmente e li spostava altrove, poi ricominciava scoraggiata e tirando su col naso; la stessa donna, ancora raffreddata e brontolona, che anche oggi mi spolvera e mi lucida con forza esagerata tre mattine la settimana. Mi spruzza con una cera acquosetta dall'odore stucchevole e la stende con un panno sulle ditate dei miei protetti. Con un piumino blu e rosso risistema anche le nuvole e i finestroni ciechi delle antiche chiese, liscia le sottane delle devote popolane e spazza i gatti e i piccioni dai sagrati; poi, stirando un braccio fino a sentirsi in diritto di gemere, carpisce con le piume estreme una ragnatela a triangolo tra due faretti. Per fortuna a mezzogiorno, tutti i mezzogiorni, se ne va. E' così deprimente.
Di notte, un po' di luna (un filo sotto l'uscio, oppure è il lampione).
Giorni e notti e stagioni e i passi e le voci della mia gente delimitano
la mia immobile quiete, la mia vita di legno, come il legno tiepida e
rassicurante, amica fedele delle loro mani. torna a Mestieri |