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In quella casa che ora dicono vittima di un incantesimo avevano vissuto
due persone speciali, e c’è chi sostiene che ci abitino ancora
i loro spiriti. Erano arrivati come fuggiaschi – lui un gentiluomo
come mai ne ho conosciuti, lei una dama di diafana bellezza con timidi occhi
di smeraldo – per vivere in discrezione la loro passione adultera.
L’esilio cui li aveva condannati la buona società si era trasformato
in una bolla di paradiso che li proteggeva dalle maldicenze e dall’incomprensione.
Vivevano l’uno per l’altra; non ricevevano visite e non ne facevano.
Bastavano a se stessi, rinunciando a porsi termini nel futuro perché la
loro condizione colpevole concedeva solo un fragile presente. Ed essi lo
riempivano di tutte le cose che amavano e che potevano permettersi; facevano
colazione sul tavolino di pietra del giardino, circondati da fiori selvatici
su cui ronzavano le api, poi lui apriva il cavalletto e dipingeva lei che,
seduta sulla panchina, ricamava cuscini di seta, oppure dondolava sull’altalena
trattenendosi il fiocco delicato del cappello di paglia. A volte uscivano
in macchina con un cesto di vivande – lui con guanti di capretto,
lei con sciarpa di voile intorno al collo – per un déjeuner
sur l’herbe in qualche loro posto segreto, un prato di papaveri o
una valletta lungo il fiume. Nei pomeriggi uggiosi d’autunno, dalle
finestre del salotto venivano le note di un pianoforte e una voce d’angelo
che intonava romanze. Nelle notti più limpide d’estate lui
puntava un telescopio dalla torretta e insieme, abbracciati, scrutavano
le stelle in impercettibile movimento verso il loro tramonto. Gli uccelli
abitavano le fronde del grande tiglio, e il laghetto sereno ospitava gioiosi
pesci rossi e placide ninfee, dalle stesse pallide sfumature degli abiti
di lei, che amava il lilla, il glicine, la lavanda.
Poi un giorno l’incidente. Fu forse l’improvvisa puntura di
un insetto, oppure il guizzo di una innocua biscia di fosso che gli attraversò il
sentiero, a far imbizzarrire il cavallo, e l’amazzone cadde. Il suo
debole grido di sorpresa fu l’ultima sua voce che egli avrebbe udito.
Il dottore, con volto grave, pronunciò una formula misericordiosa: “Se
passa la notte, vivrà”.
E quella notte la luce nella stanza al primo piano rimase sempre accesa,
mentre egli aspettava il verdetto della profezia che gli avrebbe portato
l’alba con il canto della prima allodola. Il sole sfiorava i muri
della casa quando gli occhi di smeraldo si riaprirono, ma non si risvegliò il
suo corpo, inerte e insensibile sopra un letto che ora sembrava troppo maestoso
per confortare tutta quella fragilità. Nessuna scintilla animò le
braccia, le gambe, il volto dolente, né quel giorno né i successivi.
Il dottore tornò, strinse le labbra, e i due uomini si guardarono
senza dir niente.
Io fui chiamata da una lettera, una grafia malgrado tutto elegante e
un tono malgrado tutto sobrio. Avevo da poco lasciato la casa del barone
M., dopo averlo assistito fino alla morte, e la vedova mi aveva raccomandata
in qualità di – così ebbe la bontà di definirmi – “infermiera
competente, zelante e discreta”. Vidi subito che avrei avuto ben poco
da fare, perché a tutto pensava lui. Non la lasciava un istante.
Il suo posto era stabilmente in quella stanza, dove gli servivo i pasti
e assistevo mentre lui cercava di imboccare la sua amata. La pettinava lungamente,
le profumava i polsi, mi indicava quale camicia farle indossare, ogni giorno
nuova, le leggeva libri dalla pila che aveva accumulato accanto alla poltrona,
le raccontava l’avanzare della stagione e i colori del giardino. Le
parlava ininterrottamente d’amore. Lei era solo quegli occhi di smeraldo,
che battevano le ciglia solo ogni tanto e diventavano sempre più simili
a pallidi laghi asfissiati. Per ore e ore affidava a lui i suoi arti inerti,
le sue mani da madonna stremata, e lui accarezzava e massaggiava senza sosta,
per comunicare vita e calore a quei nervi e muscoli e articolazioni insensibili,
per allontanare il più possibile il momento in cui avrebbero cominciato
inesorabilmente a rattrappirsi. Io riuscivo a dargli il cambio solo quando,
dopo avergli messo di nascosto qualcosa nel tè, lo vedevo assopirsi
in brevi e inutili riposi.
Il tempo si fermò, la bolla di paradiso si era offuscata e non lasciava
più passare i raggi del sole. Il mondo era tutto lì, una
goccia d’acqua che si andava seccando fra le loro mani strette e quegli
sguardi senza risposta.
Finché un mattino, scendendo dalla mia cameretta sotto il tetto,
scoprii che se ne erano andati. Il letto era rifatto, la stanza era in ordine,
dagli armadi non mancava nulla, ma mancavano loro. Spariti senza far rumore
né lasciare biglietti o altre tracce. Li cercai ovunque, anche in
giardino; un giardino ancora immerso nel buio della notte appena trascorsa
benché il cielo fosse azzurro e chiaro fra le nuvole e il mio orologio
segnasse le nove in punto. L’acqua del laghetto era ferma, e rifletteva
le finestre chiuse, tranne quelle due al primo piano, dove ancora era accesa
la luce, così come ancora splendeva silenzioso il lampioncino esterno,
forse in attesa che tornassero. Ma non tornarono.
Da vecchia infermiera consumata e realista, mi convinsi che erano partiti
per un convalescenziario, magari sul Baltico, dove lunghe cure riabilitative
avrebbero ottenuto il miracolo. Ma sapevo di mentire a me stessa. Non era
lì che erano andati. Erano molto più vicini, non si erano
mai allontanati. Si erano solo trasformati in qualcos’altro, qualcosa
di solido e tenace come quell’amore che voleva sopravvivere alla malattia.
Forse erano dolcemente annegati nell’antico specchio sopra il caminetto,
o si erano confusi tra i personaggi della quadreria degli avi nello studio
o fra le pagine dei libri della biblioteca; o magari si erano metamorfosati in
una statuetta di Venere avvinghiata dall’edera.
Oppure si erano semplicemente sublimati nel fulgore di quel lampadario
e di quel lampione, che continuano a segnare la notte di una casa dove nessuno
suonerà più il pianoforte per due amanti tragicamente belli
e innamorati.
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