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Del verbo essere 4

E.Degas - La famiglia Belleli, 1862

Il Tempo va di fretta.
Ho riempito molti quaderni e svuotato molti libri mentre la mia grafia cambiava diventando più aguzza.
Estati sul terrazzino, tra me e il mare c'era quella villa in rosso veneziano, due pioppi musicali e un'altana di panni al sole.
Piedi gelati sul marmo della Messa delle 9, e 'custodiat animam tuam', e malgrado ciò - malgrado Dio - la nonna buona che muore piano nel mio letto mentre io dormo dabbasso e finalmente tengo accesa la luce fino a tardi.
Un vento che mi rovescia dentro e mi fa donna e inquieta in fondo a un molo, e dicono - quelli che non mi conoscono - dicono di me "Questa bambina non mangia e dorme poco e ha uno sguardo da febbre. Sarà la tiroide". Ma quella bambina ha 15 anni e gli occhi accesi da poesie nottambule e da baci, i primi, in un sottoscala che sa di salmastro.
Un'autostrada piatta in mezzo a pianure gialle e afa che stringe alla gola il laccio della nostalgia, poi senza voltarsi mi precipita nelle foschie di strade di città che sfociano in altre strade di città senza più un mare in fondo, ma solo tutti i toni del grigio.
Corre il Tempo inseguito dall'affanno di una grafia ora più scattosa e scarna, che non ha dimenticato le anse del suo fiume ma non può più soffermarsi su quelle sponde; solo correre anch'essa sull'argine tra i soli e le notti, lasciando la sua firma accanto alle malattie, alla morte, a qualche guarigione.
La sua firma, su un libro profilato in oro, e su un anello d'oro anch'esso che balla al dito di quella bambina con la febbre.
Mattine presto e sere tardi, luci azzurre di televisori e verdi di monitor, un neon come un sole atomico che esplode senza poter nemmeno gridare, insieme a metà di me; una veglia malata che mi suda addosso per anni prima che torni mattina.
La neve di febbraio, le piume di marzo, la pelle si fa rosea ad aprile, a maggio è già tardi e il Tempo corre ancora.
Corre anche un'auto cieca rasentando il guard-rail a mezzanotte, e da allora è sempre mezzanotte per anni ancora, mentre i figli crescono - tutti tranne me che non ho tempo - e le mamme imbiancano sì ma le notti, le notti e le lenzuola dove cominciano a morire un pezzo alla volta.
Iris viola e gazanie arancio dentro un dicembre che non vuol farsi natale ma poi il Tempo come sempre lo afferra, e in quella stessa navata lo riveste a nuovo con stelle di stagnola su un presepe.
La terra indurisce e si chiude sopra un altro inverno.
La mia penna ora scrive balorda, le righe si inclinano sempre più verso l'alto, neanche occhiali in fondo al naso raddrizzano la sua pendenza sballata. Scrivo per disequilibrio, sotto gli occhi del compatimento che si sprecano in diagnosi di comodo.
Che mi cambia? Intanto scrivo.
Ho traslocato in soffitta biberon e giocattoli, le voglie di viaggi e i viaggi delle voglie; tutte tranne una, sempre quella, sempre la stessa che è l'unica a tenere il passo del Tempo.
Il Tempo corre, ma ho corso anch'io, sul tartan e sul linoleum, su qualche sentiero e qualche battigia, su molte scale a volte perfino musicali, ma non troppo perché in Musica il Tempo è un padrone che non perdona chi non ne ha, come me.
Ancora corro, e ancora corro forte; mi capita di tagliare le curve e di rimbalzare sui cordoli, come sempre ho fatto per arrivare almeno seconda, sconfitta solo da lui.
E ancora sono qua, sullo spigolo di una sedia come sui blocchi di partenza, e ancora faccio correre la mia penna dietro una grafia sempre più strana e più mia, e ancora e ancora e ancora no che non mi so fermare.
Cercavo solo un abbraccio forte e senza fine.
Solo un abbraccio cercavo, senza Tempo.


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