|
Da bambini ci piaceva farci raccontare le storie della guerra. I pomeriggi erano
più lunghi di adesso. La mamma ritagliava le figurine dal Corriere dei
Piccoli e noi stavamo seduti attorno col mento sul tavolo.
A Venezia non c'erano rifugi. Restavano in casa, scendevano ai piani bassi
e sentivano gli aerei che andavano a sganciare su Treviso. Ma noi non sapevamo
come erano fatti gli aerei né le bombe e neanche i morti. A noi piacevano
quei racconti perché ci facevano un po' paura. Ci piaceva aver paura di
una cosa già successa, già finita, e che non ci avrebbe fatto paura
mai più.
Mia mamma poi però ci intristiva con storie più brutte, quelle dei
suoi professori e di certe sue compagne delle Magistrali che erano stati messi
fuori dalla scuola perché erano ebrei. Ci spiegava cos'è il
Ghetto di Venezia, un posto bellissimo dove ogni volta che vado anche adesso respiro
sacro. Parlava dei cadaveri che un giorno aveva visto per terra andando al lavoro,
e che nessuno doveva toccare perché erano un buon esempio.
Questa era una delle cose che noi non capivamo del tutto. Io per esempio preferivo
sentire di quella volta che una bomba finì incastrata nel muro di San Giovanni
Crisostomo, e infatti si vede ancora.
Poi che altro. I sacchetti di sabbia, la fame, le palle di carta pressata da bruciare
dentro le stufe. I vestiti che mia nonna tagliava nella tela da sacco e poi ricamava
con fili tirati pazientemente dagli orli di vecchi stracci. Il più bello
era per andare a messa, ma una domenica che pioveva si rovinò irrimediabilmente.
Un altro problema erano le calze. Per non sciuparle, mia mamma le infilava solo
prima di entrare in ufficio, in una calle lì di fianco, e la sua amica
controllava che non passasse nessuno; poi si davano il cambio. Le rammendavano
con i capelli, le calze smagliate.
Dopo l'8 settembre, mio papà che era ancora solo un fidanzato si
imboscò nella soffitta di mia mamma e ci passò due mesi nascosto,
ma non lo cercarono neanche così dopo un po' tornò a lavorare
in banca che gli piaceva tanto. Si dimenticò di suo fratello affondato
in un sommergibile, e anche di quell'altro che si era preso la tbc in un
campo di prigionia.
Venezia in quella guerra lì si salvò, insomma se la cavò
abbastanza bene, perché sia i cattivi che i buoni non volevano rovinarla:
anche senza pozzi di petrolio era pur sempre un gran bel bottino.
Per chiunque avesse vinto.
torna a Del verbo essere
|