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Ammaniti che fa?
Prende questo borgo al centro della provincia italiana, lo spoglia di tutte quelle
trite e asfissianti icone della tradizione che prevedono Madonne, gerani ai balconi,
princìpi genuini, favole della nonna, cancella via ogni prevedibile poesia
dei tramonti sul mare e delle sere nebbiose sotto portici dalle luci fioche, scansa
la tentazione di cadere nell'amarcord dei tipi e degli stereotipi di paese,
e lo reinventa paesotto burino, miope, anonimo e cialtrone.
Come giocando a costruire un plastico, ci mette la casa dei ricchi e puliti e
quella della famiglia del pastore stolido e manesco, le strade con un disordine
di macchine, motorini, botteghe, la scuola presidiata da un manipolo di insegnanti
arroganti e miopi, i quartieri così così, né carne né
pesce, il bar-trattoria dove si mangia tanto e male e pesante e senza allegria,
la periferia dove corre un traffico sgangherato di Tir e le altrettanto sgangherate
puttane battono sul ciglio, tutti rappresentati come oggetti d'arredo necessari
e nulla più, senza il tocco di alcun compiacimento o tenerezza, senza l'affetto
che trapela spesso quando è di un paese di provincia e del suo microcosmo
che si narra.
Poi, sul plastico, Ammaniti ci mette anche gli omini e le donnine e i bambini
di Lego, e li fa muovere dentro vicende incastrate fra loro quasi con gusto logorroico,
con l'incalzare di aneddoti inventati lì per lì a ruota libera,
col senso gioioso della creatività e del divertimento fine a se stesso.
I personaggi (sembrano i fratellini cattivi di Marcovaldo, stralunati e avventurosi
ma privi di innocenza) si intersecano quasi senza vedersi, ma ciascuno se ne tira
in scia un altro, oppure ne origina di nuovi a sua volta, in un gioco di replicazioni,
di specchi distorti. E tutto questo materiale messo sul tavolo un po' per
volta si incammina chi di qua chi di là, seguendo logiche approssimative
e infantili, e così facendo mette in moto un meccanismo di cause ed effetti
imprevedibili e spesso impropri, con un effetto domino che, procedendo, si fa
più caotico e rovinoso. Le piccole azioni banali di piccoli personaggi
sventati, all'inizio slegate e con il peso di storielline da cabaret presentate
con spirito scanzonato, si sommano sorprendentemente a costruire una catena di
conseguenze e collegamenti inquietanti: un castello di carte apparentemente messe
a casaccio che finisce col travolgere, uno per uno, gli sciroccati protagonisti.
La vicenda centrale è quella di un ragazzino coinvolto suo malgrado in
una serie di atti violenti che finiranno col violentare la sua stessa vita; attorno
a lui, altre figure di ragazzi senza sicurezze e soprattutto di adulti senza responsabilità,
tutti allo stesso tempo colpevoli e vittime di un vuoto di valori.
Questa è la sintesi, ma non certo il senso voluto della narrazione: Ammaniti
in realtà si limita a descrivere con mano veloce e fantasiosa (molto simpatica
da leggere, va detto) dei fatti nudi e crudi, sui quali non si sofferma con indulgenza
per assolvere o indignazione per condannare. Non si avverte alcun intento moralistico,
nel racconto, ma solo il piacere di descrivere una moltitudine vorticosa di quadri
grotteschi o esilaranti o teneri o tragici, connotati da un linguaggio chiaramente
volto a ricostruire e rendere riconoscibili al pubblico dei lettori giovani i
modi, i miti e gli ambienti del mondo in cui (bene o male) crescono.
Uno stile secco ma coinvolgente, una definizione dei caratteri attraverso i gesti
più che l'introspezione e un'osservazione fatalista -
e talora in odore di superficiale compiacimento - degli errori e degli
orrori cui la vita di oggi ci sta abituando.
Una storia di provincia senza poesia ma non del tutto senza profondità.
Tuttavia, non un romanzo, a mio parere.
Non un romanzo, ma un furbo esercizio
di scrittura sulla scia di quel filone pulp che sta facendo tendenza, ma che ha
in se stesso dei limiti pesanti: quelli del sotto-genere, che origina cloni tutti
simili e mai originali, imbrigliati da una regola ripetitiva che viene presto
a noia, e comunque mortifica, quando c'è come in questo caso, il
reale talento narrativo dell'autore. Un peccato, quindi, che Ammaniti (di
cui ho successivamente letto con un interesse già in calando e viceversa
un senso di fastidio in crescendo la raccolta Fango), resti legato allo stereotipo
che lo ha reso popolare e non cerchi oltre una consacrazione più duratura,
attraverso intrecci di più largo e variegato respiro e di più cristallina
qualità.
Il senso che vorrei tanto poter trarre da questo libro, ma che il testo pare non
liberare nel suo svolgersi, è tutto in quella frase finale che è
anche il titolo: "Ti prendo e ti porto via". A cose fatte, a vicenda
consumata, a libro chiuso, potrebbe essere letto, secondo me, come il proposito
di uscire da quel buco dove il Male è banalizzato al punto da non saperlo
più distinguere, e salvarsi dal vuoto dell'uniformità da qualche
parte dove si possa ricominciare.
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