torna a  Libri letti


La promessa
(Friedrich Dürrenmatt)

La promessa del titolo - l’assicurazione che il colpevole sarà individuato e punito - è quella che il protagonista, un poliziotto noto e stimato per le sue eccellenti capacità investigative, rivolge ai genitori della piccola vittima di un odioso crimine a sfondo sessuale, ma prima ancora è un giuramento ferreo che egli fa a se stesso, e che si trasformerà in una vera e propria ossessione. E più che una promessa di giustizia è un impegno di vendetta, quasi che la caccia al colpevole fosse vissuta dall’investigatore come un corpo a corpo personale a distanza. La brutalità del crimine e le sue sordide motivazioni contagiano a poco a poco l’adamantino poliziotto, riducendolo a un cacciatore spietato e abbrutito che fa suoi, nella sua cieca ricerca, i metodi vili e immorali del suo inafferrabile antagonista, giungendo a sfruttare una bambina ignara per usarla come esca, a rischio della vita. È come se le ragioni iniziali – compassione per le vittime, senso di giustizia, amor proprio di un investigatore che non si rassegna davanti a un caso insoluto o alla sbrigativa soluzione caldeggiata dai suoi superiori e da lui giudicata non convincente – confluissero in un unico impegno verso se stesso, un impegno dai caratteri sempre più maniacali e disumani, lungo la strada di quella pazzia che uno psichiatra, nelle prime fasi della vicenda aveva discretamente ma inequivocabilmente prospettato.
Tuttavia la lunga attesa di mettere le mani sul colpevole si rivelerà vana, e la soluzione del caso verrà raggiunta del tutto casualmente, dimostrando così l’assunto iniziale di Dürrenmatt che è contenuto nel sottotitolo “Un requiem per il romanzo giallo”, e che denuncia l’inverosimiglianza delle trame inventate dagli autori di romanzi polizieschi indicando come la realtà delle indagini sia ben diversa, più aleatoria e imprevedibile, e non possa sottostare a semplicistici protocolli. Teoria che al giorno d’oggi è probabilmente smantellata dall’introduzione di tecniche di indagine affidate a riscontri e ad analisi inconfutabili, come anche ad archivi elettronici di dati personali e biologici, a dispositivi di controllo del territorio tramite telecamere e molto altro. Ma negli anni in cui Dürrenmatt ha scritto La promessa erano ancora doti individuali come il talento, il fiuto e la pazienza i principali strumenti di un’indagine, ed era attorno ad essi che gli autori di gialli costruivano i loro personaggi più popolari.

Non avevo mai letto niente di Dürrenmatt e non avrei neanche letto questo libro, senza un input convincente. Però quando, un po’ svogliatamente, l’ho aperto e ho letto l’incipit, che nella maggior parte dei casi risulta di grande aiuto per capire al volo se un’opera può interessare o meno, ne sono rimasta colpita subito e non ho potuto fare a meno di leggerlo e finirlo in due o tre sere. Fermo restando che il mio interesse, comunque, non è stato mai per la vicenda in sé, ho applicato a questa lettura la formula che adotto ormai da anni, e che consiste nello studio, più che dell’intreccio, dello stile dell’autore. Questa modalità di lettura, che punta l’attenzione prevalentemente alla forma, alla tecnica scrittoria, ha spesso come risultato il fatto che di un libro non ricordi la storia, i fatti, i nomi dei personaggi, ma mi rimanga impressa indelebilmente la sensazione che mi ha procurato il modo con cui storia e fatti e personaggi sono stati esposti dall’autore. Sono dell’idea che, se è vero che un libro è costituito da forma + contenuto, il valore delle due componenti sia pari, anzi arrivo a dire che personalmente attribuisco più valore alla forma che al contenuto, perché penso sia attraverso la forma – ossia lo stile personale e le tecniche dimostrate dall’autore – che si arrivi a valutare meglio la sensibilità, la personalità e le capacità di uno scrittore. In fondo i contenuti, per quanto numerosi e vari, raramente dicono qualcosa di veramente nuovo, siano i messaggi di natura sociale o politica o ideologica oppure di semplice evasione narrativa, mentre viceversa quello che è – o che può e soprattutto dovrebbe essere – unico, originale, è lo stile con cui vengono trasmessi, l’impronta che ci rende l’autore sempre riconoscibile. Vorrei citare a proposito di questo argomento due testi arcinoti e significativi: Esercizi di Stile, di Raymond Queneau, che in modo divertito ma tuttavia serissimo suggerisce domande e risposte circa le infinite possibilità interpretative di un concetto, e le splendide Lezioni americane di Calvino, che illustrano al lettore i retroscena e l’impegno di uno scrittore serio che tenda a raggiungere la migliore espressività attraverso l’uso dei molti e delicati strumenti della tecnica dello scrivere. L’ideale dunque sarebbe vedere in un’opera l’armonizzazione tra il contenuto e lo stile, entrambi curati dall’autore con coerenza e originalità.
Questo mi è parso senz’altro il caso di Dürrenmatt e della sua Promessa, un romanzo in cui lo stile è perfettamente funzionale non solo alla storia – una storia cruda, una storia di degradazione morale e di violenza – ma anche al messaggio, che è a sua volta un messaggio amaro, o meglio desolato, disilluso, negativo (l’impossibilità di arrivare al giusto giudizio e al perseguimento del vero colpevole) che poteva essere espresso solo da un linguaggio e da una sintassi altrettanto amari, o per meglio dire taglienti, cinici. Una prosa asciuttissima con rare incursioni, asciutte anche quelle, nel descrittivo, eppure estremamente efficace nell’evocare sia ambientazioni che atmosfere. Già le prime tre frasi dell’incipit

Nel marzo scorso dovevo tenere a Coira, presso la Società Andreas Dahinden, una conferenza sull’arte di scrivere romanzi polizieschi. Vi arrivai in treno che già annottava - nuvole basse e un nevischio deprimente, e gelo dappertutto. La conferenza si tenne nella sala dell’Unione Commercianti. Il pubblico era piuttosto scarso, dato che quella stessa sera Emil Staiger parlava nell’Aula magna del Liceo sull’ultimo Goethe. Non ero in vena quella sera – neanche gli spettatori lo erano del resto - e parecchi del luogo lasciarono la sala prima che la conferenza fosse finita.

nella loro brevità e quasi impersonalità introducono a un tono generale che non è mai sereno, rilassato, ma al contrario distaccato, quasi insofferente per non dire cupo. Così come certe laconiche descrizioni ambientali

La notte senza tempo, spettrale. Aveva smesso di nevicare fuori, tutto era immoto, le luci dei lampioni non oscillavano più, neppure un colpo di vento, un passante, un animale, niente, solo una volta dalla stazione venne un suono, sembrò lontanissimo.
[...]
La città era incassata tra montagne che non avevano più niente di maestoso sembravano piuttosto grandi mucchi di terra, quasi avessero scavato una gigantesca tomba.

che ci restituiscono uno sfondo plumbeo e minaccioso, ben lontano da quei paesaggi da cartolina con i quali tradizionalmente ci raffiguriamo un paese verde, ricco e ordinato come la Svizzera. Anzi la raffigurazione della Svizzera attraverso una storia così tetra e pervasa dal Male, questa specie di denuncia di un ambiente morboso, mi ha ricordato l’astio e il totale rifiuto di ogni misericordia di un altro scrittore, Thomas Bernhard, l’autore fra l’altro de Il soccombente, Perturbamento e La fornace, nei confronti del suo Paese natale, stavolta non la Svizzera ma l’Austria, anch’esso comunque generalmente considerato un paese ordinato e civile al punto che in passato si parlava di Austria felix.

La lettura della Promessa di Dürrenmatt lascia aperte alcune domande: si tratta veramente di un romanzo realistico, oppure la tesi iniziale ha forzato la mano all’autore spingendolo a escogitare una soluzione su misura? Al giorno d’oggi parrebbe di poterne dubitare, e tuttavia anche la cronaca nera più attuale e di casa nostra ci propone dei casi che sembrano destinati a restare insoluti o comunque segnati da pesanti dubbi per l’impossibilità di accertare i fatti in modo inconfutabile. E poi ancora: il protagonista, Matthäi, è un eroe positivo oppure negativo, ma soprattutto è o non è un eroe? Ci viene presentato in più tratti diversi e quasi opposti, dal suo sconvolgimento davanti al dolore dei genitori della piccola vittima alla spietatezza dei suoi metodi di ricerca, e tuttavia ciò che nel tempo rimane intatto in lui anche nel progressivo imbarbarimento dell’animo è quella smania di rigore, quell’accanimento della volontà, che malauguratamente – e, come si dimostrerà, del tutto inutilmente – hanno perduto ogni valore etico e tengono duro quasi solo per cieca e insensata tenacia.
E da ultimo, una considerazione personale: se Matthäi, invece di lasciarsi travolgere da tanta alienante cocciutaggine al punto da auto esiliarsi e rinunciare a ogni sano contatto con i suoi simili, con la realtà e con la sua stessa vita, avesse continuato la sua ricerca seguendo metodi scientifici (la sua caccia, in effetti, diventa solo una lunga e incattivita attesa fermo sul posto, l’attesa che la preda passi per la sua strada e si faccia riconoscere: “Aspetto, io aspetto, verrà, verrà.”) e malgrado ciò non avesse dato frutti, forse la tesi dell’Autore ne sarebbe uscita più avvalorata, fornendo la conferma che anche i migliori sforzi dell’Uomo devono spesso fare i conti con il Caso.

Malgrado certi aspetti tetri e a tratti brutali, questo libro non rappresenta una lettura deprimente né angosciante, ma al contrario si mantiene su un piano di coerenza e razionalità che appaga il lettore e ne stimola l’analisi, grazie proprio ad un magistrale controllo della prosa e dei suoi strumenti.


torna a  Libri letti