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Quando ho preso in mano questo romanzo
- circa 200 pagine, di cui molte, tra un capitolo e l'altro, bianche -
ho calcolato che mi avrebbe richiesto non più di tre serate, e
che presto avrei potuto affrontarne un altro dei tanti in attesa di lettura.
Mi sbagliavo: tre serate non sono bastate.
E non perché il libro mi sia risultato di ardua comprensione o
abbia preteso da me una concentrazione che mi è difficile conservare
a lungo nelle ore notturne, ma al contrario perché fin dalla prima
pagina mi ha sedotta al punto che ho fatto il possibile per centellinarmelo,
assaporarlo, trattenerlo con me per allontanarne la fine, quel momento
di tristezza che segna il distacco da una lettura amata e che si trasforma
da subito in nostalgia.
Per sapere con certezza che mi sarebbe piaciuto, mi è bastato l'incipit,
quelle prime cinque, brevi, efficacissime frasi in cui avviene con magistrale
immediatezza l'introduzione all'ambiente e al personaggio. In poche righe,
sappiamo già di trovarci in una Lisbona estiva azzurra, ventilata
e scintillante, esattamente come la immaginiamo, come ce la raffiguriamo
quando sogniamo di arrivarci da visitatori, e di avere a che fare con
un uomo dedito alla cultura e alla meditazione, ma non un intellettuale
spocchioso o un alto filosofo, bensì un animo dimesso, un abitudinario
ripiegato su se stesso e sulla piccola serenità di alcune certezze
un po' stantie, un antieroe modesto e appartato, esente da presunzioni
o ambizioni. Pereira, di cui non sarà dato di conoscere che il
cognome col quale firma i suoi articoli, è un giornalista di mezza
età, vedovo, affetto da pinguedine e dagli affanni di una lieve
cardiopatia, che vive tra il suo appartamento ordinato, l'ufficio dove
svolge il suo lavoro in solitaria - poco più di un bugigattolo
- e un piccolo locale, il Café Orquìdea, dove prende spesso
i pasti. Gli tengono compagnia pochi e semplici punti di riferimento:
il suo interesse per la letteratura, alla quale si dedica scrivendo traduzioni
di autori francesi dell'ottocento - anacronistici ma politicamente corretti
- in qualità di redattore culturale di un modesto giornale del
pomeriggio, e gli affetti per il passato, prima di tutto la moglie morta
da anni con la quale parla attraverso il vetro di un ritratto, e poi i
ricordi della sua animata gioventù universitaria di Coimbra. Queste
consuetudini quotidiane, di cui pare non avvertire l'opacità, gli
sono sufficienti per comporre giorno dopo giorno quel che resta della
sua vita, anzi gli occupano e gratificano la mente al punto di appannare
la percezione della realtà esterna, che in quei mesi (siamo nel
1938) sta prendendo, e non solo in Portogallo, aspetti sempre più
minacciosi. Ma Pereira di quanto sta avvenendo nel suo Paese e nell'Europa
intera si tiene al corrente in modo distratto, quasi volendo rimanerne
fuori, dai resoconti veloci di Manuel, il cameriere del Café Orquìdea,
che quasi ogni giorno gli serve le sue ordinazioni preferite, ancorché
poco salutari: omelettes alle erbe e bicchieroni di limonata ghiacciata,
un menu-tormentone al quale finisce per affezionarsi anche il lettore.
Pereira pare un uomo che si sia ritirato dalla vita attiva, rinunciando
a ogni analisi critica non tanto per viltà quanto per una larvata
forma di depressione, di autodifesa forse; quella che applica spesso davanti
a problemi o interrogativi cui non sa reagire, e che gli fa rinviare lo
studio delle possibili soluzioni o risposte con dei dimessi "Beh,
pazienza" oppure "Beh, vedremo".
Questa routine consolidata e rassicurante comincia a mostrare la corda
in seguito ad alcuni incontri, tutti e ciascuno determinanti, che lentamente
- quasi controvoglia - la destabilizzano, mettendo in luce il suo anacronistico
grigiore, la sua ottusità nei confronti del mondo esterno e dei
suoi rivolgimenti che, malgrado Pereira abbia scelto di restarne estraneo,
stanno prendendo una piega drammatica e cominciano a coinvolgere direttamente
anche lui.
Dapprima entra in scena un giovane studente, Francesco Monteiro Rossi,
scrittore squattrinato che si rivela oppositore del regime salazarista
e porta con sé, oltre all'alito della giovinezza, anche il vento
inquietante della rivoluzione; è lui il primo a introdurre nella
statica vita dell'anziano giornalista la presenza imbarazzante di istanze
di contestazione e ribellione, che emergono dagli articoli che scrive
e gli propone, e che Pereira trova tutti immancabilmente impubblicabili,
estranei come sono alla prudenza che di quei tempi informa la diffusione
delle idee.
Poco dopo, è la volta del dottor Cardoso, un medico dalle idee
aperte e dalla filosofia pacata, che apre gli occhi a Pereira sugli aspetti
della libertà di coscienza, pur senza forzare la mano o fare opera
di proselitismo, al contrario proponendosi come ascoltatore, confidente,
interlocutore sereno e saggio, portatore di alcune di quelle risposte
che a Pereira mancano da tempo.
Da ultimo, un episodio che occupa solo pochi (e splendidi) paragrafi ma
che ha il suo peso: la conversazione casuale, su un treno, con una certa
signora Delgado, una donna ebrea che racconta brevemente la sua esperienza
di perseguitata e insinua in Pereira l'inquietudine per il futuro che
aspetta tutti, suggerendogli perfino di esercitare gli strumenti della
sua professione per mobilitare le coscienze.
Da questi incontri, il mite giornalista ricava un senso di turbamento
che lo spinge a ripensare alla sua vita e alle sue motivazioni, scoprendole
insufficienti e addirittura ingannatorie. Prende nebulosamente consapevolezza
delle storture della società che lo circonda e in cui finora si
era sentito avvolto come in un guscio, e inizia a rendersi conto dell'impostura
salazarista che si è già insinuata fino al nucleo centrale
del suo stesso lavoro, condizionando le scelte editoriali, ormai da tempo
soggette a una censura politica più o meno esplicitamente espressa.
La narrazione assume il profilo del romanzo civile, e segue fino all'epilogo
tragico la vicenda del giovane rivoluzionario nella quale resta gradualmente
e sempre più pericolosamente coinvolto un Pereira già oscuro
e fatalista e che ora sta compiendo quasi senza saperlo un percorso di
svecchiamento e autoconsapevolezza, un rinnovamento interiore prima impensabile
e portatore di una nuova carica di energie mentali, di dignità
e di coraggio. Passando attraverso l'esperienza della violenza, della
sopraffazione e dell'omicidio di polizia, Pereira si libera del suo vecchio
abito miope e rinunciatario e riprende possesso della sua vita, progettando
per sé - come ultimo gesto - un futuro ancora non esattamente definito
ma certamente assai diverso.
Al di là del significato della storia e delle sue implicazioni,
quello che per me è il pregio maggiore di questo grande romanzo
è il registro equilibrato che lo accompagna dall'inizio alla fine
e che non scade mai, nemmeno nelle pagine di più dichiarato valore
morale e politico, né nella propaganda né nella celebrazione
né nel comizio censorio, ma conserva con finissimo equilibrio una
costante pacatezza di tono. Lo stile è blando, non ornato, quasi
casuale, ma si intuisce la mano esperta dell'Autore nel mantenerlo uniformemente
controllato su un registro medio-basso che pare scelto apposta per seguire
e sottolineare il ritmo lento e un po' incespicante delle giornate di
Pereira, dei suoi passi faticosi per l'afa e la fiacchezza del cuore,
delle ore di solitudine e opaca meditazione, ma soprattutto il ritmo sonnolento
della sua stessa coscienza.
Di questo libro, uscito nel 1994, si disse e si dice che contiene una
ferma condanna all'imbavagliamento della stampa da parte dei regimi totalitari,
tanto che fu usato come manifesto dall'opposizione di sinistra nei confronti
del monopolio berlusconiano dell'informazione, ma a me pare evidente che
il messaggio di Tabucchi vada ben oltre queste contingenze nostrane, indicando
un valore superiore e universale quale quello, più ampio, del risveglio
della coscienza e della fiducia in ogni e qualsiasi redenzione. E trovo
assolutamente ammirevole la capacità tecnica dimostrata da Tabucchi
nel trasmetterlo senza cadere nell'uso di effetti convenzionali o di sermoni
edificanti; il suo linguaggio sobrio, senza impennate, senza ammiccamenti,
è il mezzo migliore per affrontare temi così fondamentali
partendo però dal basso, dalla dimensione umana, dall'individuo
e dal suo microcosmo, invece che porsi in cattedra predicando verità
scontate e convenzionali. Un linguaggio che si sublima nella chiusa, un
piccolo capolavoro nel suo genere, in cui si condensa il senso stesso
dell'esistenza umana e delle sue risorse e in cui si indica un futuro
la cui maggiore ricchezza è proprio l'indeterminatezza che ne fa
territorio di conquista per chi ne auspica uno comunque migliore.
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