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Questo libro è in casa mia da decenni,
sopra uno scaffale fuori mano e insieme a decine di altri che appartengono
al periodo in cui - io bambina o al più ragazzina - mio padre ne
portava a casa con una certa regolarità (diciamo tre o quattro
la settimana, se ci si metteva), seppure con un certo disordine nelle
scelte. Io mi ci precipitavo sopra, ma il più delle volte mi imbattevo
in testi inadatti alla mia età ancora acerba o lontani dai miei
gusti. Questo, ricordo che inizialmente mi fu precluso dalla prudente
censura materna; più avanti, lo scartai io stessa, ritenendo che
il contenuto, che sapevo essere grosso modo poliziesco, non rientrasse
nei miei interessi.
Qualche tempo fa, leggendo qualcosa di Daniel Pennac - che invece mi interessa
e mi piace molto - ho fatto la sorprendente scoperta che questo autore
considera Gadda con infinita ammirazione e lo pone tra i suoi maggiori
modelli. La cosa mi ha incuriosita troppo: ho cominciato a chiedermi quanto
genio universale dovesse possedere questo scrittore italiano che si esprimeva
in gran parte in forme linguistiche inconsuete e sfruttava spesso il dialetto,
per essere così amato e tenuto da Maestro da uno scrittore francese.
E anche mi sono trovata riflettere una volta di più sul valore
di una buona traduzione, che deve saper rendere in una lingua diversa
lo stesso spirito dell'originale. A meno che, si intende, il bravo Pennac
non abbia una conoscenza dell'italiano (e del romanesco) tale da avergli
permesso di leggere l'opera in originale e di averla anche - e soprattutto
- puntualmente compresa.
In conclusione, ho accolto il suggerimento indiretto e mi sono finalmente
accostata a questo romanzo, peraltro molto popolare e ampiamente lodato,
soprattutto per sciogliere la mia perplessità circa il feeling
possibile tra lo stile modernissimo e originale di Pennac e quello più
letterario e più datato di Gadda.
Come è andata?
Mah, così e così. All'inizio, ci ho messo tutta la mia attenzione,
ben decisa a carpire tutto quello che potevo, o meglio a farmi carpire,
che è ciò che chiedo a ogni mia lettura. Ho affrontato le
prime difficoltà stilistiche con curiosità, quasi come un
oggetto di studio, anche se il tempo di lettura si allungava e il piacere
stentava a emergere, inceppato dallo sforzo di concentrazione necessario
a tenere sotto controllo i fili e i nodi del discorso. Sera dopo sera,
mi sono familiarizzata con lo stile e i suoi ritmi, pur continuando a
trovare poco fluidi entrambi; ma ormai c'ero, e soprattutto c'era un intreccio,
che in qualche modo, riacchiappandolo per i capelli quando si disperde
e si avvita, si faceva seguire. Però nel frattempo la mia chiave
di lettura si andava modificando, passando dal piano che mi è abituale
- e cioè la decifrazione della forma come tramite di sensazioni
e quindi di coinvolgimento - a quello di una sempre meno motivata ricerca
di evasione puntata soprattutto sul contenuto, sulla trama, sull'attesa
della soluzione finale. In pratica, mi sono adattata a un piacere subalterno,
perché per il mio modo di intendere la letteratura il contenuto
di un testo ha un valore secondario rispetto allo stile: è lo stile
che evoca, che suscita coinvolgimento, che crea le immagini, che suggerisce
le atmosfere, e senza una forma capace di affascinarmi il contenuto non
mi basta, non mi soddisfa, resta un elemento di superficie che non lascia
segni.
E qui, in Gadda, è proprio lo stile, personale, inconfondibile,
innovativo o così dicono, che non mi è piaciuto, anzi francamente
mi ha dapprima vagamente irritata e poi decisamente annoiata, e pertanto
allontanata. Non c'è stato coinvolgimento né punto di incontro.
Ho avvertito un gusto per la forzatura, che per me è un difetto
pesante. Il suo modo di forgiare le frasi, i periodi, le descrizioni,
le riflessioni, l'ho trovato contorto; l'uso della lingua è pervaso
da qualcosa di nevrotico che lo spinge a complessità strabordanti,
il cui effetto dovrebbe essere di aumentare l'incisività ma che
non mi ha raggiunta, al contrario mi ha innervosita. Questo suo neolinguaggio
spesso rischia di sopraffare, di affogare ambienti e atmosfere che peraltro
in molti passaggi illuminati si intravedono con improvvisa chiarezza,
colore, autenticità.
Nella prefazione di Pietro Gelli, che ho notato essere scritta in uno
stile anch'esso particolarmente e pedantemente ricercato, vengono sottolineate
con ammirazione la "sapienza della costruzione", la "tecnica
sperimentale", "l'oltranza stilistica" e altri ingredienti
cui il Gadda avrebbe fatto ricorso (cito) "nell'intento di afferrare
una realtà sempre polimorfa e polisensa", per descrivere la
quale la lingua letteraria e la lingua d'uso avrebbero dimostrato la propria
insufficienza e inadeguatezza.
Non sono d'accordo. Ritengo che la lingua italiana sia fornita per sua
antica e ricca natura di una duttilità più che sufficiente
a rendere qualsiasi aspetto della realtà - ovviamente se in possesso
di padronanza stilistica e sicurezza del contenuto - anche con innovazioni
e invenzioni (ben vengano), ma senza che per ciò sia necessario
disgregarla fino al futile azzardo. Ritengo anche, se non di avere una
preparazione di alto livello, almeno di avere letto molti libri e autori
i più disparati, apprezzando stili differenti o provenienti da
paesi e epoche diversi e lontani e godendo spesso di mezzi espressivi
stravaganti, che connotano piacevolmente l'originalità di un artista.
Tuttavia in questo caso gli strumenti usati mi suonano irrimediabilmente
retorici, e per la mia sensibilità di lettrice non c'è di
peggio.
In conclusione, questo libro non mi è piaciuto, e per dirlo sarebbero
bastate due parole, due righe, due frasi, o nessuna recensione del tutto.
Ma dato che si tratta di un'opera assai valutata (alla fine, ammetto di
essermi forzata a leggerla anche io quasi per un "dovere culturale"),
preferisco esporre in tutta sincerità le mie impressioni personali
e fondarle su motivazioni che credo di aver ponderato quanto potevo, o
sapevo.
Sul comodino mi aspetta ora un altro Gadda, "La cognizione del dolore",
sul quale ho intenzione di confrontarmi prossimamente per sottoporre queste
mie critiche a eventuale, e in quel caso umilissima, revisione.
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