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Racconti dell'Ohio
(Sherwood Anderson)

Stupore e delizia in questo libro (raccolta di racconti che insieme fanno un romanzo) di un autore di cui si parla poco e che in effetti ho faticato a trovare: me lo ha procurato una biblioteca pubblica, poiché in tre importanti librerie non risultava nemmeno in catalogo. Eppure è considerato l'opera più emblematica di questo Sherwood Anderson, che difficilmente avrei conosciuto se non me lo avesse presentato un comune amico, Charles Bukowski, sì, il vecchio Hank, il quale ne parla come di un Maestro di scrittura e lo raccomanda con grande autorevolezza.
Così dice tra l'altro: "Credo che Sherwood Anderson sia stato fra i più bravi a giocare con le parole come fossero pietre, o pezzi di roba da mangiare. Lui DIPINGEVA le parole sulla carta. Ed erano così semplici che si sentivano flussi di luce, porte che si aprivano, pareti che luccicavano. Si vedevano tappeti, scarpe e dita. Lui aveva le parole. Delizioso. Eppure, erano anche come proiettili. Sapevano buttarti giù. Sherwood Anderson sapeva qualcosa, aveva l'istinto".
Quando ho letto questa dichiarazione, non ho potuto fare a meno di interessarmi immediatamente alla sua scrittura, incuriosita anche di capire i legami tra due autori appartenuti a epoche diverse, a due diversi modi di vivere. Bukowski il beat degli eccessi e dell'amoralità, Anderson figlio e testimone di una società più basata sull'etica delle tradizioni.
Il trait-d'union, credo, sta nell'osservazione della realtà e nella sua traduzione così com'è, ossia così come entrambi dai rispettivi punti di vista caratteriali la coglievano: quello di Bukowski - soprattutto prima maniera - tende a deformarla in senso peggiorativo e disperante, mentre Anderson ha la caratteristica di saperla riferire con animo molto più distaccato, da scrittore di levatura superiore.
I racconti contenuti in questo libro sono in realtà tutti collegati da un filo conduttore, e formano nell'insieme un affresco di vita ambientato nella provincia americana all'inizio del secolo scorso. E il filo conduttore è proprio la realtà complessiva di una collettività, qui descritta come quella ristretta di un piccolo borgo di provincia ma a simboleggiare più largamente l'interezza complessa e variegata di tutta l'umanità, a prescindere dalla collocazione temporale o geografica, poiché le storie e i caratteri, tratteggiando desideri e sconfitte che sono di tutti, hanno valore universalmente condivisibile. Osservatore e quasi gestore di questo insieme di confessioni e memorie è il giovane cronista del giornale locale, George Willard, anch'egli sognatore di qualcosa come i suoi concittadini, e con in più la dote inconsapevole di saper leggere e interiorizzare le loro storie. E' attorno a lui che esse si snodano e si riannodano, quasi a infondergli inquietudine e insieme vitalità, fino al compiersi del suo destino che lo porta necessariamente a lasciare il paese per tentare il futuro altrove, in città, nel grande mondo, salendo di prima mattina sul treno che spesso compare nel libro come segnale di rinnovamento oppure metafora di un addio.
Più che di racconti, si tratta quindi di flash, di ritratti di singole persone, membri di una piccola comunità ancora rurale tra i quali esistono vincoli di parentela o di conoscenza, di affinità o di contrasti. Alcuni personaggi compaiono in più d'una di queste sequenze, rafforzando il senso dei legami e di un comune destino. A ciascuno, Anderson dedica descrizioni e riflessioni venate di partecipazione (l'ispirazione risale al borgo dove aveva vissuto la giovinezza), raccontandone fatti, avventure, dolori con un tono che evita molti degli scogli più prevedibili quali la didascalia o il sentimentalismo. Lo stile è scarno e privo di moralismi, ma tuttavia non freddamente cronachistico: i sentimenti sono espressi con incisività e al tempo stesso con rigore, senza indulgere nel facile e nell'edificante, al contrario spogliandoli per renderli più trasparenti, più umani. Molti dei piccoli avvenimenti narrati sembrano non avere un vero capo e una vera coda, quasi a riprodurre al meglio la realtà quotidiana che spesso si mostra inconclusa o perlomeno inafferrabile. Ma non è il finale che conta, in Anderson, quanto piuttosto lo svolgimento, la fissazione di momenti di vita, l'evidenziazione di scelte, errori, speranze, disillusioni, consuetudini, ribellioni, crisi, segreti, tutto ciò che, come a tessere, compone il mosaico delle vite.
Alcune associazioni mentali si sono formate subito: con la galleria di ritratti di Spoon River e con il dramma teatrale La piccola città di Thornton Wilder, ma anche con lo stile, la poetica e le strutture di John Steinbeck, soprattutto in Vicolo Cannery, Furore o Uomini e topi. In tutte queste opere, che in buona misura sono debitrici all'antecedente Anderson, al centro c'è appunto la ricostruzione di un microcosmo attraverso le microstorie delle persone comuni che lo popolano. Questo tipo di struttura letteraria, che ho sempre molto apprezzato, consente grande libertà d'azione allo scrittore e al tempo stesso fornisce al lettore tutti i dati necessari a ricomporre un quadro d'insieme di bella suggestione.
La scrittura di Anderson, che come dicevo è lineare e senza affettazioni, accompagna le sue evocazioni con un sottofondo di limpida poesia che resta impresso, che rende vicini e struggenti i personaggi anche se ci arrivano da un passato storico e ambientale non nostro, ma nemmeno troppo straniero.


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