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Stupore e delizia in questo libro (raccolta
di racconti che insieme fanno un romanzo) di un autore di cui si parla
poco e che in effetti ho faticato a trovare: me lo ha procurato una biblioteca
pubblica, poiché in tre importanti librerie non risultava nemmeno
in catalogo. Eppure è considerato l'opera più emblematica
di questo Sherwood Anderson, che difficilmente avrei conosciuto se non
me lo avesse presentato un comune amico, Charles Bukowski, sì,
il vecchio Hank, il quale ne parla come di un Maestro di scrittura e lo
raccomanda con grande autorevolezza.
Così dice tra l'altro: "Credo che Sherwood Anderson sia
stato fra i più bravi a giocare con le parole come fossero pietre,
o pezzi di roba da mangiare. Lui DIPINGEVA le parole sulla carta. Ed erano
così semplici che si sentivano flussi di luce, porte che si aprivano,
pareti che luccicavano. Si vedevano tappeti, scarpe e dita. Lui aveva
le parole. Delizioso. Eppure, erano anche come proiettili. Sapevano buttarti
giù. Sherwood Anderson sapeva qualcosa, aveva l'istinto".
Quando ho letto questa dichiarazione, non ho potuto fare a meno di interessarmi
immediatamente alla sua scrittura, incuriosita anche di capire i legami
tra due autori appartenuti a epoche diverse, a due diversi modi di vivere.
Bukowski il beat degli eccessi e dell'amoralità, Anderson figlio
e testimone di una società più basata sull'etica delle tradizioni.
Il trait-d'union, credo, sta nell'osservazione della realtà e nella
sua traduzione così com'è, ossia così come entrambi
dai rispettivi punti di vista caratteriali la coglievano: quello di Bukowski
- soprattutto prima maniera - tende a deformarla in senso peggiorativo
e disperante, mentre Anderson ha la caratteristica di saperla riferire
con animo molto più distaccato, da scrittore di levatura superiore.
I racconti contenuti in questo libro sono in realtà tutti collegati
da un filo conduttore, e formano nell'insieme un affresco di vita ambientato
nella provincia americana all'inizio del secolo scorso. E il filo conduttore
è proprio la realtà complessiva di una collettività,
qui descritta come quella ristretta di un piccolo borgo di provincia ma
a simboleggiare più largamente l'interezza complessa e variegata
di tutta l'umanità, a prescindere dalla collocazione temporale
o geografica, poiché le storie e i caratteri, tratteggiando desideri
e sconfitte che sono di tutti, hanno valore universalmente condivisibile.
Osservatore e quasi gestore di questo insieme di confessioni
e memorie è il giovane cronista del giornale locale, George Willard,
anch'egli sognatore di qualcosa come i suoi concittadini, e con in più
la dote inconsapevole di saper leggere e interiorizzare le loro storie.
E' attorno a lui che esse si snodano e si riannodano, quasi a infondergli
inquietudine e insieme vitalità, fino al compiersi del suo destino
che lo porta necessariamente a lasciare il paese per tentare il futuro
altrove, in città, nel grande mondo, salendo di prima mattina sul
treno che spesso compare nel libro come segnale di rinnovamento oppure
metafora di un addio.
Più che di racconti, si tratta quindi di flash, di ritratti di
singole persone, membri di una piccola comunità ancora rurale tra
i quali esistono vincoli di parentela o di conoscenza, di affinità
o di contrasti. Alcuni personaggi compaiono in più d'una di queste
sequenze, rafforzando il senso dei legami e di un comune destino. A ciascuno,
Anderson dedica descrizioni e riflessioni venate di partecipazione (l'ispirazione
risale al borgo dove aveva vissuto la giovinezza), raccontandone fatti,
avventure, dolori con un tono che evita molti degli scogli più
prevedibili quali la didascalia o il sentimentalismo. Lo stile è
scarno e privo di moralismi, ma tuttavia non freddamente cronachistico:
i sentimenti sono espressi con incisività e al tempo stesso con
rigore, senza indulgere nel facile e nell'edificante, al contrario spogliandoli
per renderli più trasparenti, più umani. Molti dei piccoli
avvenimenti narrati sembrano non avere un vero capo e una vera coda, quasi
a riprodurre al meglio la realtà quotidiana che spesso si mostra
inconclusa o perlomeno inafferrabile. Ma non è il finale che conta,
in Anderson, quanto piuttosto lo svolgimento, la fissazione di momenti
di vita, l'evidenziazione di scelte, errori, speranze, disillusioni, consuetudini,
ribellioni, crisi, segreti, tutto ciò che, come a tessere, compone
il mosaico delle vite.
Alcune associazioni mentali si sono formate subito: con la galleria di
ritratti di Spoon River e con il dramma teatrale La piccola
città di Thornton Wilder, ma anche con lo stile, la poetica
e le strutture di John Steinbeck, soprattutto in Vicolo Cannery, Furore
o Uomini e topi. In tutte queste opere, che in buona misura sono
debitrici all'antecedente Anderson, al centro c'è appunto la ricostruzione
di un microcosmo attraverso le microstorie delle persone comuni che lo
popolano. Questo tipo di struttura letteraria, che ho sempre molto apprezzato,
consente grande libertà d'azione allo scrittore e al tempo stesso
fornisce al lettore tutti i dati necessari a ricomporre un quadro d'insieme
di bella suggestione.
La scrittura di Anderson, che come dicevo è lineare e senza affettazioni,
accompagna le sue evocazioni con un sottofondo di limpida poesia che resta
impresso, che rende vicini e struggenti i personaggi anche se ci arrivano
da un passato storico e ambientale non nostro, ma nemmeno troppo straniero.
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