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La Marcia di Radetzky
(Joseph Roth)

Il mio incontro con Joseph Roth è stato colpevolmente tardivo ma tuttavia casualmente fortunato, perché questo romanzo, il primo suo che ho scelto, è considerato il suo capolavoro, e in effetti la sua lettura risulta esaustiva per conoscere stile e tematiche di un Autore che si colloca - e fra i Grandi - nel solco dei romanzieri di razza del primo novecento. Narratore robusto ma delicato poeta, Roth ritrae con toni soffusi di nostalgia la decadenza di un'epoca fastosa e spensierata che si va dissolvendo sotto la minaccia della tragedia (delle tragedie) incombente sull'Europa con l'avvento di tempi nuovi, necessari quanto feroci. Impossibile non riandare ad altri autori di cultura mitteleuropea (penso al Mann de I Buddenbrock e Morte a Venezia, al Singer de La famiglia Moskat), che sono stati osservatori e testimoni di questo trapasso secolare.
Di questo libro, e di tutto Roth, malinconia è la parola-chiave, il tema dominante.
Malinconia mediata da una scrittura sobria e ordinata, che non indulge al retorico e che addolcisce il tragico, riportandolo a una dimensione intimista quasi trasognata, indubbiamente colma di umanità. E' con pietoso affetto che vengono delineati i tre personaggi co-protagonisti e le loro storie solo apparentemente diverse ma, nel nucleo, parallele quanto a fallimento: una linea di discendenza maschile nell'ambito di una famiglia devota alle tradizioni, che si trova a fare i conti con l'inesorabile mutamento dei costumi, dei valori, degli obiettivi del mondo in cui è tenacemente incastonata. Lo spazio più rilevante è dedicato all'ultimo discendente, Carl Joseph, il figlio cresciuto senza madre e nell'ombra austera e repressiva del padre Franz, a sua volta dominato dal mito orgoglioso e patetico del nonno Joseph, temporaneamente consegnato alla Storia da un atto di coraggio militare casuale che ne aveva fatto - viene da pensare a scopo di ingenua propaganda - un Eroe Nazionale. L'ultimo dei Von Trotta, caratterialmente inadatto a raccogliere l'eredità morale dei suoi predecessori, incarna le inquietudini e le debolezze di tutta un'epoca in cui si vanno aprendo le crepe del disfacimento: non sarà mai il degno successore dell'avo eroico né dell'integerrimo padre, e i lampi della sua sciabola di ufficiale imperiale saranno gli ultimi di un esercito fiero e colorato di gentiluomini guantati prima che sul suo civilissimo ed elegante paese (l'Austria Felix allo stremo) e sull'Europa intera si stendano le nubi plumbee di altre guerre, altre armi, altri più disumani destini. Morirà giovane e incompiuto di una morte inutile su un inutile campo di battaglia, precedendo di poco la scomparsa del padre, sopravvissuto a se stesso in virtù del suo ferreo ruolo di custode dell'orgoglio e dell'onore e sconfitto alla fine, più che dal lutto per il figlio, dalla desolazione per la scomparsa del suo venerato Imperatore, al cui culto aveva improntato la vita.
A tutto ciò, al declino stinto, agli ultimi sospiri di un'età anacronistica, assiste severo ma già libero il capostipite Joseph dalla penombra di un ritratto appeso alla parete della vecchia casa di famiglia, sempre più deserta e silenziosa: esso incombe come un sempre più debole richiamo della coscienza mentre si va oscurando nella polvere e nelle ragnatele come un affresco, quello di un'intera epoca, che al sole smarrisce inesorabilmente i suoi colori.
Personaggi di passaggio, abbozzati e tutto sommato maltrattati, alcune (poche) figure femminili rappresentate come civette da operetta o sirene apportatrici di disordine; viceversa molti altri caratteri maschili minori sono definiti in modo compiuto e convincente. Su di essi, tutti, in un'ottica complessiva prettamente virile, l'Autore stende la propria solidarietà, una sorta di pietosa, struggente fratellanza che stempera e perdona.


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