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Il capitano è fuori a pranzo
(Charles Bukowski)

Quando scrive questo diario a ruota libera, Bukowski ha da poco passato i settant'anni, gran parte dei quali spesi in un disordine morale e fisico che lo ha messo quasi quotidianamente a confronto con l'autodistruzione. E ora che ad esso si sono aggiunti legittimi motivi anagrafici, è più che pronto a dialogare con la propria morte che suppone non lontana - e che in effetti lo raggiungerà, dopo una sfida lunga una vita, entro pochi mesi.
Così ne scrive:
So che sto per morire e mi sembra molto strano. Sono un egoista, mi piacerebbe che il mio culo continuasse a scrivere altre parole. Mi mette il fuoco dentro, mi proietta nell'aria dorata. Ma in realtà, quanto posso andare avanti? Non è giusto andare avanti. Che diavolo, la morte comunque è la benzina nel serbatoio. Ne abbiamo bisogno. Ne ho bisogno. Ne avete bisogno. Se si resta troppo a lungo in un posto, lo si riduce a un immondezzaio.
E più avanti è struggente quando riflette:
L'altro giorno pensavo al mondo senza di me. Il mondo va avanti a fare quello che deve. E io non ci sono. Davvero strano. Il camion della spazzatura viene a tirar su l'immondizia e io non ci sono. Oppure il giornale è sul vialetto e io non sono lì a raccoglierlo. Impossibile.
Tuttavia non è la morte, seppure sempre presente in queste pagine, il rovello che le ispira, ma semmai la consapevolezza raggiunta che ogni rivoluzione, anche personale, ha un suo ciclo e una sua misura, e che l'avanzare dell'età e l'accumularsi di esperienza indicano modi sempre più efficaci per esprimerla. Modi non più legati a gesti esplosivi ma alla potenza implacabile e indelebile delle parole scritte, e prima ancora pensate, pesate, dosate, sotto il segno di una maturità che non implica fatalismo e accettazione ma, al contrario, la capacità di una visione d'insieme più solida e realista.
Nel 1991, Bukowski da alcuni anni ha accanto una compagna che ha messo finalmente un limite e un ordine ai suoi celebri eccessi, senza con questo causare un esaurimento della sua vena di scrittore, che è rimasta vivace, prolifica e ancor maggiormente incisiva che in passato.
Riporto una ammissione illuminante:
Per essere uno scrittore istintivamente fai ciò che nutre te e le parole, che ti protegge contro la morte in vita [NdR: come non essere d'accordo? Alla morte non c'è verso di opporsi, ma diavolo, che almeno ci colga da vivi, e con la penna in mano!]. Per ognuno è una cosa diversa. E per ognuno è una cosa che cambia. Per me una volta significava bere tantissimo, bere fino a uscire pazzo. Mi affilava le parole, le portava fuori. E avevo bisogno di pericolo. Avevo bisogno di mettermi in situazioni pericolose. Con gli uomini. Con le donne. Con le automobili. Con il gioco. Con la fame. Con qualsiasi cosa. Nutriva le parole. Per decenni è stato così. Ora è cambiato. Ora ho bisogno di qualcosa di più sottile, di più invisibile. E' una sensazione nell'aria. Parole dette, parole sentite. Cose viste. Qualche bicchiere mi serve sempre. Ma ora cerco le sfumature e le ombre. Le parole mi vengono da cose di cui sono quasi inconsapevole.
Non solo. Nella vita di Bukowski sono entrati altri compagni di viaggio: nove (nove!) gatti, dalla cui presenza oltremodo rasserenante sembra assorbire parte della sua nuova capacità di osservare con saggezza meditativa i problemi per i quali si è dilaniato per tanto tempo, quasi subendoli e senza risolverli.
Ecco, sui gatti:
Ho imboccato il vialetto. I gatti erano stravaccati qua e là, spossati. Nella prossima vita voglio essere un gatto. Dormire venti ore al giorno e aspettare che ti diano da mangiare. Starsene seduti a leccarsi il culo. Gli umani sono dei poveretti, rabbiosi e fissati.
e ancora:
[...] il tempo è fatto per essere sprecato. Che ci vuoi fare? Non sempre si può andare a tutta birra. Ci si ferma e si riparte. Tocchi la vetta e poi sprofondi in un buco nero. Avete un gatto? O dei gatti? [NdR: gatti? Diavolo, Hank, con me sfondi una porta aperta. Gatti, gatti!] Quelli dormono, ragazzi. Possono dormire venti ore al giorno e hanno un aspetto meraviglioso. Loro lo sanno che non c'è niente per cui agitarsi. Il prossimo pasto. E qualcosina da uccidere qua e là. Quando mi sento lacerato dentro, mi basta guardare uno o più dei miei gatti. Sono nove. Mi basta guardarne uno mentre dorme o sonnecchia per rilassarmi. Per me la scrittura è come un gatto [NdR: ottimo paragone, qua la mano vecchio mio, gattaro perso come me!]. Mi consente di affrontare tutto il resto. Mi fa sbollire. Almeno per un po'. Poi mi si imbrogliano i fili e devo ricominciare tutto daccapo. Non capisco quegli scrittori che decidono di smettere di scrivere. Come fanno a sbollire?
Particolare non secondario, B. ha ormai dalla sua anche la tranquillità economica dopo una vita di oggettiva precarietà, e tutti questi cambiamenti esistenziali lo pongono nella condizione migliore per passare senza perdere vigore espressivo a un tono narrativo più convincente, meno urlato. La rivolta non è rinnegata, ma assume accenti più maturi e analitici anche attraverso il filtro di un'ironia che ha il senso di una redenzione. Il vecchio ex-sporcaccione, appagato e acciaccato, può ora permettersi un nuovo taccuino, in cui osserva criticamente e un po' più benevolmente la società e i suoi mali, dai quali continua a dissociarsi ma con uno spirito sornione e satirico ben lontano da quello acceso e fuori misura con il quale aveva spesso proclamato una ribellione fatta di eccessi e vuota violenza.
Può permettersi, ora, di parlare della vita con gattesca assennatezza:
Nella nostra vita, tutti finiamo per farci prendere e dilaniare da varie trappole. Nessuno sfugge. Alcuni addirittura ci convivono. Il trucco è rendersi conto che una trappola è una trappola. Se ci caschi dentro e non te ne accorgi sei finito. Credo di aver individuato quasi tutte le mie trappole e di averle descritte. Scrivere, naturalmente, non vuol dire parlare sempre e comunque di trappole. C'è dell'altro. Eppure, si potrebbe dire che la vita è una trappola.
E poiché in lui vita e scrittura coincidono, sono l'una funzionale all'altra, aggiunge:
Scrivere può essere una trappola. Certi scrittori tendono a riproporre quello che in passato è piaciuto ai lettori. Allora sono finiti. Lo slancio creativo di tanti autori è breve. Ascoltano le lodi sperticate e ci credono. C'è solo un giudice ultimo della scrittura ed è lo scrittore [NdR: parole sante, vecchio mio, parole sante!].Quando diventa preda di critici, redattori, editori e lettori è finito. E naturalmente quando diventa preda della fama e della gloria potete buttarlo a mare insieme agli stronzi [NdR: vai, vai così!].
Ma poi la scrittura, la scrittura. L'amore più fedele, il credo più sentito, il senso e il collante, il tormento e l'estasi di tutta la sua vita, che gli fa scrivere confessioni come questa:
Il mondo è un grande sacco di merda pieno da scoppiare. Io non posso salvarlo. Però ho ricevuto un sacco di lettere di persone che dicono che i miei libri gli hanno salvato il culo. Ma io non li ho scritti per quello, li ho scritti per salvare il mio, di culo.
e come questa:
[...] mi sono seduto davanti al computer per vedere se ne usciva qualcosa. Sono rimasto seduto lì. Dev'essere questo, ho pensato, che si prova quando ti abbandona. E non puoi farci niente. A settantadue anni era possibilissimo che mi avesse abbandonato. La capacità di scrivere. E' un timore. E non è per la fama. O per i soldi. E' per me. Mi sentivo spogliato. Avevo bisogno dello sfogo, del divertimento, della valvola della scrittura. La sicurezza della scrittura. Di quel dannato lavoro. Tutto il passato non significa niente. La reputazione non significa niente. L'unica cosa che conta è la riga successiva. E se la riga successiva non arriva, sono morto, anche se, tecnicamente, sono ancora vivo.
oppure verità abbaglianti come queste altre:
Scrivendo bisogna scivolare via. Le parole magari saranno monche e smozzicate, ma se scivolano via, allora c'è un piacere che rischiara tutto quanto. La scrittura accurata è una scrittura mortale. Credo che Sherwood Anderson sia stato fra i più bravi a giocare con le parole come fossero pietre, o pezzi di roba da mangiare [NdR: ehi, ma non è magnifico? Pezzi di roba da mangiare!]. Lui DIPINGEVA le parole sulla carta. Ed erano così semplici che si sentivano flussi di luce, porte che si aprivano, pareti che luccicavano. Si vedevano tappeti, scarpe e dita. Lui aveva le parole. Delizioso. Eppure, erano anche come proiettili. Sapevano buttarti giù. Sherwood Anderson sapeva qualcosa, aveva l'istinto. Hemingway ce la metteva tutta. Nella sua scrittura si sente la fatica. Erano blocchi massicci messi insieme. Anderson sapeva ridere mentre ti diceva qualcosa di serio. Hemingway non sapeva ridere. Uno che scrive alzandosi alle sei del mattino non può avere alcun senso dell'umorismo. Vuole sconfiggere qualche cosa. [NdR: alleluia! Su Hemingway, d'accordo su tutta la linea. Quanto a questo Anderson, grazie per la dritta: adesso me lo vado i m m e d i a t a m e n t e a cercare].
[...] tutto quello che leggo mi sembra così... artefatto... come uno stile studiato diligentemente. Forse ho letto troppo, forse leggo da troppo tempo. Eppure, dopo decenni e decenni passati a scrivere (e ho scritto una carrettata di roba), quando leggo un altro autore sono convinto di poter dire esattamente quando sta bluffando, la menzogna salta fuori, la patina di vernice si scrosta... posso indovinare la frase successiva, il paragrafo successivo... Nessun lampo, nessuno slancio, nessun rischio. E' un lavoro che hanno imparato a fare, come aggiustare un rubinetto che perde [NdR: farà male, ma è la sacrosanta verità...].

Su Bukowski avevo messo una pietra sopra anni fa, dopo un'overdose di suoi romanzi sull'abbrutimento dei quali avevo finito per confondere i titoli ma conservavo un'impressione generale di ripetitività, di compiaciuta apologia della distruzione e dell'autodistruzione: grandi quantità di bottiglie scolate, scopate alla cieca, rissosità gratuita, esibiti come simboli di una ribellione i cui motivi avrebbero meritato altri gesti e iniziative, più concreti e producenti. L'artiste maudit è uno stereotipo che viene a noia abbastanza presto a un lettore appena smaliziato.
Solo pochi giorni fa, una persona che mi conosce molto bene mi ha messo fra le mani questo libricino che non conoscevo, con l'invito a scoprire la resurrezione di un autore che, nel bene e nel male, è guardato come un modello da almeno un paio di generazioni, a cominciare dalla mia che per anagrafe è cresciuta più vicina al movimento beat e ne ha condiviso, con le debite distanze, umori e inquietudini, ma anche rivoluzione e poesia, spesso con la P maiuscola.
Questo libro, l'ho bevuto. Parla anche di me.
Grazie al rissoso, irascibile, carissimo, vecchio Hank che lo ha scritto e lo ha lasciato in testamento.


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