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Sampler

volte mi inghiotte, sai, ti vedo come attraversavi la stanza da una porta all'altra, e mi buttavi addosso la fretta, i capelli le mani, la voce, lasciavi le luci tutte accese, volavano i fogli di giornale, ti seguivo col mio odore di caffè e arance, le mie ciglia aggrappate alla tua schiena, inseparabile l'eco di te fulmineo, e quei fiori fatti a mano con arte e con tempo, stelle di paglia e sangue secco, quello specchio inclinato, riflessi di un divano coi cuscini rovesciati, due bicchieri vuoti, uno sul tappeto a dondolare, e vento dall'est nelle fessure del cielo.


ella, comunque bella, come puoi non ammettere che è bella e pura quella ninfea di zolfo che affiora in una pozzanghera di periferia, con fabbriche intorno, caverne odor limatura di ferro e olio di macchina, pneumatici uguali a vecchi sordi appoggiati a murales disperati, presepi di pendii in dolcezza di carbone o sabbia, teloni neri vastissimi come mari dalle onde ingessate, rifiuti ordinati impilati ottusi pazienti come mendicanti in attesa, e scintille in serie lungamente stridenti a cadere come code di cometa da un fuoco bianco, figlie di una furia, sulla soglia oscura dei fabbri.
Bella, la ruggine accesa che rosicchia le cose dal dentro come lenta malattia, accartoccia cartelli e inutili insegne, insegue ruote e pedali che vanno via, color blu polvere, sulla strada scheggiata, e due cani la attraversano sghembi uno dietro l'altro, cercando un odore di uomo, buono per scaldarsi il pelo, per scaldarsi il fiato.
Bella comunque l'aria di piombo che precipita da quel cielo comprato e si stende sulle facce di chi aspetta sotto una pensilina scoperchiata, l'anima chiusa sotto giubbotti gonfi di freddo, tenuta stretta dentro grandi mani scortecciate nelle tasche delle domande lasciate lì, che non facciano ancora più male.


ome uccelli a gridare, come ragni ad aspettare, come torrenti a dimenticare, come frutta a macerare, come germogli a faticare, come pietre a guardare, come nubi a salire, come vento a volare, come sabbia a mentire, come spighe a cantare, come tarli a ricordare, come pulviscolo a sfumare, come ombre a guatare, come fuoco a chiamare, come cenere a quietare, come acciaio a costruire e come ghiaccio a distruggere, come erba a sorridere, come legna a invecchiare, come foglie a nascere, come silenzio a imprecare, come seta a sudare, come il rosso a fuggire, come il blu a sognare, come il bianco a dormire, come il nero a cercare, come odori a impazzire, come musica a crollare.
Come vino, a svenire.
Come acqua, a bastare.


apprima c'era solo cielo, con sfilacci color frutta matura.
Da laggiù non si vedeva altro, gli occhi appesi a quel vuoto che suonava, ma inclinando un po' lo sguardo ecco il moto lento a risacca del respiro sotto il cuore.
Di me ricordo che scendevo, non so se scale o una duna di sabbia, ma in fondo c'era sempre una riga verdeblù a confinare con pagliuzze di gran sole.
Di te ricordo il fiato addosso che spingevo via dalla mia pelle arrossata, e allora ci provavi dall'altro lato del viso, cercavi l'orecchia dove soffiarmi menzogne come fanno gli insetti estivi, che ti tormentano mentre riposi.
Degli altri, il rumore. Pareva che qualcuno girasse a tutta la rotellina di una vecchia radio, e musiche e gracidìi passavano l'uno nell'altro appendendosi a pezzi di parole come panni stesi a una corda in terrazza.
Di lui, l'assenza. Ovunque pesava quell'amore come pesa il vuoto, se l'hai provato. Non ne parlavamo ma era uguale, lui c'era. A volte ci si inciampava da quanto c'era. Invisibile ma c'era. Lo sentivamo, e non bastava affacciarsi al parapetto e guardare altrove, perché lui girava attorno e si faceva ritrovare.
Di lui, la nostra vittima, perché l'abbiamo ucciso a spintoni e sassate, e con tutta la nostra giovinezza sulla fronte l'abbiamo cacciato a morte, ricordo soprattutto questo, l'incertezza.
Dopo, non ne abbiamo più saputo neanche il nome, ma ormai a chiamarlo non sarebbe tornato.


  dirti che.
No, non ti dirò niente che non sia, non giocherò con le dita e gli anelli, non sbriciolando biscotti vecchi e sigarette rinsecchite.
E che mi mancherà ancora il fosso dei nostri pensieri, riempito dei sassi mal riusciti e delle bucce di merende assorte, l'estate delle cicale e delle geometrie dei campi di girasoli di fiordalisi e prima ancora papaveri e prima ancora, prima.
E che parto lo stesso perché è così che si fa quando si sta male, quel male sai? che non ti uccide ma ti perfora come stimmate e sguardi di pena, colmi di grigiore urlato sottovoce.
E che tornerò sempre ad ogni ora che batte in cima a quel costone, il campanile storto sulle mura rossastre, sui viottoli che cadono a gradini di selce, precipizio di passi incontro agli stagni verso sera.
E che lascerò ogni volta un pezzo di carta col mio nome oppure col tuo nome nelle fessure di tutti i muri dove appoggerò mantelli da viandante, bisacce e bastoni, mentre la fontana dilava il ricordo di me almeno fino a domani.
E che ti segnerò, quel domani, come un segno di fortuna nel libro delle profezie e delle venture, tanto è lì che starai, sempre, da ieri, da mai, da quando, da me.
E che la voglia che mi cambia non affonda, la guardo galleggiare a cerchi incerti attorno al centro della vita, o un po' più in là.


iniscimi qui dentro questa fine, a un passo da quel bordo dove abbiamo amato, e finiscimi con baci e parole sulle bocche perché si soffochino i singhiozzi rinviati a domani. Non farmi tornare indietro, non farmi riguardare dentro, potrei ritrovarmi e rivederti, potrei batterti sul tuo terreno con un fucile a salve. Feriscimi di più, invece, da parte a parte, da ogni parte siano rimaste in piedi macerie delle promesse fatte a forma di croci. Non darmi più da dividere il peso di quell'inganno, tu l'hai già rinnegato sbadatamente, ora non è più al tuo fianco, ora è sulla mia schiena come zaino di un pellegrinaggio stralunato, ma io non lo sopporto. Non lo voglio. Sono arrivata, alla fine. L'avevo vista prima io, è mia, questa fine.
Furia della mia vita, fuoco dei miei polmoni, fretta dei miei occhi, febbre che sei stato.
Fuori lascio che piova e che si asciughi, fuori andrò anch'io ma col sole, viaggio all'indietro e bendata, solo mi concederò il calore sulla nuca fino a sera, e poi al primo blu della notte mi avvolgerò nella fine del giorno per nascondermi alla codardia. Non illuderti che le darò il tuo amato nome, se sarà la fragilità a piegarmi le ginocchia davanti a un lago di erba d'aprile. Non le darò altro nome che quello che merita, e potrebbe essere fame, o ferita, o forse fuga.
Fammi forza, io finisco qua.


randinava a momenti, durava poco ma rabbioso e in mezzo tutto impazziva, l'alto e il basso rigirati non esistevano più. Mi eccitava in crescendo quel tuono che si appressava e all'apice esplodeva in energia primitiva tracimando una cascata di pietre vetrose dal gran cielo agostano, e poi in pochi istanti il delirio di vento che spezzava i pioppi si estingueva in un soffio profondo di animale preistorico e finiva, in un sospiro di foglie esauste. Allora tra i cannicci divelti rivedevo sorpresa le forme cambiate, e gemme a sciogliersi in scintillii fra gli stracci volati sui fili della luce, e dappertutto frammenti di nuovi soli come vetrini trafitti da un raggio obliquo, spada del pomeriggio infilzata in mezzo alla ghiaia. Finiva in un rivolo il tintinnio di gocce dai rami e tornava, da dietro la siepe e le altre siepi di tutto il resto del mondo nuovo, lontano e incerto un rauco raspare di rastrelli nell'erba. Raccoglievano i temporali.


a gli occhi di stagno fuso, fil di ferro nelle vene, labbra di cartone increspato. Ha sulle mani la mia voglia, sul petto le mie mani, sulla sua voglia il sipario. Ha l'abisso. Lo tiene a bada con palate rabbiose di detriti, rocce e terra scavate via alle fondamenta della mia unica casa, lo teme come i bambini il buio e lo domina con fiabe di menzogne. Ha schiena muta, muro contro muro, gelosa dei miei segreti avuti a nessun prezzo, respinti maldestramente, alla fine rubati per un pelo all'ultimissima occasione, dopo sarebbe stato troppo tardi, e per loro, per quei segreti, il tardi era già venuto, ma lui non se n'è curato. Ha troppo di tutto, e niente. Ha l'impossibile e lo sfugge, per vanità. Lui, vuole essere l'impossibile, l'unico impossibile possibile. Non accetta antagonisti, o migliori. Perfezione nel nulla, nel far male a casaccio con l'unica certezza di rientrare fra i bersagli. Ha perduto il suo tempo per sempre dentro un pomeriggio non troppo ben disegnato, uscito così, come un'ora di sereno di un giorno annuvolato, poi subito richiuso su se stesso. Ha quel passo d'addio ovunque vada, soprattutto se si avvicina, e già si riallontana risucchiato nella sua vita strana, a gradini, bruciata in gola come fumo acre e polvere che asciuga il sapore aspro della rinuncia.
Ha tutto di me, ha me, che ho solo un angolo di cuore malato dove tenerlo a sopravvivere.
E respira piano.


n fondo che ne so di me se ogni giorno mi chiedo a cosa appartengo, a questi muri bianchi orlati di fuliggine o a quei paraventi verde acqua dietro cui si agitano figure in atto di cambiar costume. La prossima scena sarà un interno di casa medio-borghese, preparate presto le sedie e il tavolo tondo coi fiori in mezzo, trascinate in bella vista l'indispensabile pianoforte, e che dalla finestra entri l'aria da giardino beneamato e ben frequentato, profumo di detersivi al pino e ciclamino, tutto pulito e vergine per ricominciare al via. Mi insegnavano i passi e i ritmi, come seguire un copione con tanto di musica già scritta e suonata in sottofondo. Tutto era nelle mani del suggeritore, un tomo pesantissimo dalle orecchie rigirate, e nulla si poteva improvvisare. Pena l'esilio, niente imprevisti. Così oggi ancora scelgo di alzarmi ogni mattina dallo stesso lato del letto, e per non sbagliare l'ho fatto accostare al muro, e scendo da lì, attraverso quel muro che ho messo apposta, e timbro il cartellino con l'obliteratrice di mia madre, eredità sommersa da tasse e ipoteche private che poco per volta pagherò io.


anciatore di coltelli, lame dall'ottima vista, non sbagliano colpo, segano l'aria. Velocità di luce, bagliori di orrore, sollievo di vuoto. Un viaggio solo, uno per volta, futuro incerto come per noi, ma val la pena contentarsi di uno se puoi averne mille di istanti così, perfetti nel male, legati dal caso a un polso che trema, invecchiato.


acchia di colore, che perfezione sei, esplosa sull'impiantito dal pennello di un artigiano distratto. Passava una donna, era bella d'amore, cantava l'aria intorno ai suoi gesti, al filo del suo profilo che fendeva il giorno con sorrisi completi, fronte di luce, zigomi indifesi. Lui ne avvertì l'aroma di sottobosco dopo una pioggia, lo attirò il sentore di muschio e brividi - erano capelli, erano gambe - ma nel voltarsi a carpirlo la sua arte perse la via e ogni volontà, e questa goccia che con rumore di baci si lasciò andare sconfitta per terra dipinge laggiù il capolavoro della sua scarsa vita.


on c'è un'ombra in tutta la spiaggia, semicerchio d'avorio attorno all'immenso. Le tracce sprofondano in strati di ossa calcinate e frantumate sotto un'inondazione di gran luce, non ha un centro preciso il cielo, è una cupola altissima invasa tutta dalla stessa intensità di sole, cancellate tutte le tracce e appiattita ogni possibilità di nascondiglio, non c'è neanche una tana per le lucertole esauste. Passaggio fra sabbia e acqua, non provoca alterazioni, ugualmente spesse e pesanti scivolano attorno alla pelle come un corpo inafferrabile, consistenza indefinibile, odore di tanti odori. Respira il calore mentre cresce da terra all'insù, esalato dai fossili dissepolti fra stenti cardi grigiastri di sete, nessun riparo fino alla prossima civiltà, qualche chilometro più avanti, dove ignari fanno musica e bevono sotto freschi tendoni di acrilico.
Non c'è neanche il minimo indispensabile per morire di sete di fame di caldo, se per morire basta sentirsi così soli e dimenticati che neppure un dio, uno qualunque, si è girato ad accorgersi che si era perso te.


ramai tra di noi solo un passo
io vorrei
non vorrei
ma se vuoi
...

Oramai contro quello scoglio altro che il mare, gli oceani e le galassie sono naufragati in quell'attimo, a un passo da. E non c'è stato sforzo né voltaschiena, è venuto facile come un rettile che si ritira in un sospiro dentro un foro nella terra, e con la vibrazione degli ultimi anelli della coda raccoglie e ammucchia gli stecchi e la foglia di faggio che nasconderanno l'accesso. E poi più nulla, rimane nulla, non una traccia a tatuare il marciapiede, a consumare le piante dei piedi fuori rotta, a contundere i pensieri ammonticchiati e bloccati dentro un bidone di latta, una tanica vuota, un barile di alcool da marinai perduti. E dire che c'era bonaccia, calma di vento, cielo liscio senza graffi. Ma l'onda lunga, ma la barriera dei coralli sotto il pelo dell'acqua, ma. La chiglia fu tagliata di netto come fa la carta sulle dita, e non sanguina ma. Ma non si richiude, ed entra il sale. Brucia, disinfetta, fa lacrimare, poi guarisce con cicatrice di mercurio e silicio.
Poi ricomincia, contro un altro scoglio, per quanto segnalato da un faro distratto.


asso un panno antistatico e tutto vi resta appeso, la polvere della noia si magnetizza e miracolosamente aggrappata non rischia più di allagare il letto con ricami di capelli lunghi, i miei, strappati per amore durante l'amore. Ciò che per te è urgenza momentanea è adesso la mia più blanda vergogna, la deriva accecata e lo svogliato abbandono delle sere perse. Più dimentico più mi allontano dalla mortificazione, dalla coscienza del furto che mi dedico. E' solo un po' di quel tempo che non ho salvato con un altro nome, e nient'altro. Solo un po' di tramonti pervinca o aurore forse pervinca anch'esse, lontano da dove. Provavo a resistermi ma senza convinzione, fingevo già pur indagandomi in faccia, davanti a me stessa spogliata dallo specchio. Profondi segreti da custodire con rispetto, con poco ma tenace pudore. Possa continuare questa menzogna ispida come lana, ruvida come corteccia, soave come morfina. Prendo irresistibile possesso del mio inferno in discesa e lo adorno di trofei. Parte di me trasforma ogni suo istante in pulviscolo cosmico, pronto a prendere un posto qualunque nel moto browniano dell'effimero infinito.


uelli come noi dipingono madonne rosa e azzurre sui selciati, soffiano chiavi di sol come bolle di sapone da violini agli angoli di strada, appendono catene di parole a rami di caprifoglio, scavano pozzi e camini in castelli di sabbia. Dai coppi dei fienili traguardano il passo degli uccelli, e rotolano giù sulla paglia e si infarinano gli stracci. Dal torrente con le mani cavano pesci di metallo vibratile e li rilanciano come saette a ritorcersi verso il mare. Lungo i fossi rigirano a sussurri storie mai udite dai rapaci notturni e dai miti topi dei campi, cauti a non farsi ingoiare nel buio che cade giù dai muri e ruba il fisso diamante di una luna alonata. Pozzi di limpide innominate dolcezze custodiscono con armi di temeraria fedeltà, quelli come noi che non soffrono la veglia. Quelli che amano difendere la lievità ma anche il peso roccioso delle cose vere, le paure dei semplici smentite dai saggi e dagli ipocriti. Noi, quelli che sorridendo fanno la guardia mentre i ricchi e i felici ballano in costumi a prestito sotto lampadari di cristallo scheggiato, e intanto mimiamo le danze alla luce rosata di un tappeto di morsi di candela, uno sbaffo di fumo e carbone sul naso, gli occhi a scintillare nella nostra invidiabile penombra che ci cancella l'età.


oma, mi ricordo Roma un settembre, i primi, afoso e polveroso. Cantieri per le strade. Castel Sant'Angelo, fresco dentro, e su in cima tanta aria che gli girava intorno e una gran luce circolare e colli con gli alberi a cintarli, come disegnati. Mi ricordo il calore della terra sotto il secco giallastro delle erbacce alle terme di Caracalla, dove distesa ho inseguito schegge di delfini su frammenti di muri silenziosi che si scontravano solo con fulminei stridii di rondini. Passi assorti e occhi che bruciavano lungo le strade a naso in su, e le gambe andavano da sole, e mani sudate a dondolare la bottiglia dell'acqua cui bere spesso e distrattamente. Ruggiti di auto agli incroci, lampioni sbiancati di guano, e la sera quei gradini ripidi da scendere a trastevere, poi lì sotto poca luce ma odore di fumo e spezie. Acciottolati sonori quando si attraversava la notte deserta per tornare ai damaschi azzurro e oro in quella stanza alta sopra i rumori notturni.
Non mi ricordo la luna.
Il primo autobus alle cinque ; la prima riga di sole attraverso il letto.
Roma.

L'ultima volta era autunno inoltrato, c'era vento che faceva volare le cartacce e i ricordi. Non l'ho vista, ma mi ha vista lei, Roma. Gente che parlava, luci gialle. Braci dopo le quattro del mattino e fino al canto dell'allodola. Poi una corsa in macchina e lei, Roma, che mi correva a fianco sconosciuta, e io ferma dentro un attimo mio e in una scatola di latta e in un viaggio virtuale; Roma che mi conosce e ogni volta mi chiede qualcosa di me.
Un biglietto di sola andata. O di solo ritorno.
Potessi scegliere.


e fossi un colore sarei blu sincero di mare d'inverno in un giorno di sole lucido e bora tesa,
glauco azzurro di mare quieto e la risacca che dorme di una baia rotonda di settembre e di grecia,
viola e nero di mare iracondo per tempesta di palme stroncate e procellarie sciancate alle antille,
celeste vetrato di mare di foche e orche ai confini del ghiaccio scolpito a cattedrali al profondo nord,
verde stagno di mare di città imprigionato tra dighe foranee e darsene insaccate di barche in disuso,
grigio piombo di mare silente sotto pioggia fine di costa di cemento e asfalto e strade senza uscita,
giallastro fangoso e faticoso di mare in piena su spiagge risucchiate da onde anomale di atolli,
indaco di mare pulito e selvatico di pesci di zaffiro e smeraldo che danzano a pelo dell'acqua,
cobalto di mare di notte acceso ma con neanche una luna ad allagare la sabbia fredda
dove non si distinguono più le tracce dei nostri nudi abbracci.
Se fossi colore sarei mare, in tutte le stagioni, soprattutto se tu, se tu con me.


roppi amori fanno male alla salute. Soprattutto l'alcool e il fumo. Lo so, certo che lo so. Troppo di tutto fa male, anche più del niente di tutto. Ma ci si abitua. E' un vaccino a vita. Ci si vaccina contro la vita. E' il mio trucco per batterla, la malattia di vivere. Le vado incontro a mani aperte come in segno di pace e invece è la prima mossa per afferrarla ai fianchi e farla mia in tutti i suoi vizi, le pieghe del disordine e del superfluo. La rodo con le dita avide e tenaci, la frugo con insistente consapevolezza del rischio, ma attraverso quel rischio la esploro fino al suo sottofondo, i nascondigli della paura e delle incertezze. E' l'unico modo per non sprofondarci. Al contrario, mi immergo ad occhi aperti sfidandone la salinità, e con tutte le parti di me percorro le pareti ingannevoli dei suoi crepacci, e ogni tanto fiori di roccia mi si aggrappano alla pelle, mi ingarbugliano i capelli. Come alghe, come ortiche, come vischio. Un tuffo verso l'alto, un lungo tiro di fumo (era cicuta secca arrotolata in una foglia di loto) e un sorso aspro di succo inacidito, che fanno ronzare insetti impazziti nel labirinto della mente, e con un po' di fortuna la addormentano senza spasimo sul ciglio del prossimo abisso.


nico fra tanti uomini, il mio è difficile. Non lo sopporterei diverso, accondiscendente, intuibile. No, deve essere difficile perché io metta alla prova la mia dote più cara, l'intelligenza, e il mio più costoso difetto, il coraggio. Azzarderò con lui, il rischio è una vertigine affascinante, malìa che non sfuggirò, l'ho sempre cercata, la so riconoscere, la ambisco e la merito, è su misura per la mia presunzione. E' difficile e aspro, come ardua è la mia volontà e tenace la mia convinzione. Non mi accontenterò di un dono, dovrò averlo come trofeo. A mia volta sarò impegnativa e fortificata, le mie difese non cadranno mai del tutto, sempre guarderò le mura e il fossato che mi riparano. Sempre, fino a quando sulla mia torre, da dove osservo giù la piana selvatica di erica e lavanda, isserò con le mie mani la sua bandiera, vessillo del suo amore, segno della sua conquista.
Resa alla pari, onore ai contendenti, pace ora, e che si sgretolino contro il Tempo i merli del mio castello.


orrei la tua felpa quella vecchia con su scritto columbia university, azzurra stinta le maniche diventate corte i bordi slabbrati, poi vorrei i guanti che metti in macchina d'inverno per guidare quelli che li lasci sempre dentro il cassettino e che sarebbe ora di comprarne di nuovi perché sono scuciti sull'indice destro; la matita 2B col gommino in fondo masticata accorciata con la punta perfetta che ti incastri dietro l'orecchia ; il cuscino coi pupazzetti tirolesi rossi e neri anche se schiacciato ma lo trovi comodo quando guardi la tv steso sul pavimento le mani intrecciate sul petto le ginocchia su ; la tua tazzona del caffelatte gialla con il dentro bianco senza manico senza piattino con un orletto marrone dove l'orzo ha lasciato il segno ; una bottiglietta del tuo dopobarba, vuota ; il portachiavi da cintura di pelle tutto rovinato da buttar via ; il bicchierino per la grappa di vetro spesso con la decalcomania di Misurina e una bolla d'aria sul fondo ; il quaderno degli appunti con tutti gli appunti dentro ; il tuo viso che si affaccia per dirmi guarda che sono sveglio, vieni dentro a bere un caffè con me ; il guinzaglio per portare a spasso il cane e il cane da attaccarci ; l'ombrello nero grande con una stecca spezzata che usi quando vai fuori nel buio a fumarti l'ultima sigaretta passeggiando adagio lungo il margine del campo; il rumore andato via dell'acqua della tua doccia quando già ti aspetto, triste di me, sul bordo del letto guardandomi le caviglie bianche ; quel graffio che non ti guarisce mai sul dorso della mano sinistra fatto con un attrezzo in garage mentre spostavi delle cose ; qualcuna, a caso, anche di quelle cose che hai toccato per spostarle.

Vorrei che tu, raggiungibile, esistessi, e sapere dove.


itto, balza sulla finestra e dal davanzale ancora indugia, occhieggiando verso il basso. Due metri è un salto da poco per lui. Le sue zampe hanno tendini e muscoli necessari per farlo. La sua vista è acuta e ben orientata, sa prendere la misura, sa calcolare la spinta. Dietro lascia il tepore odoroso della cucina e i miei piccoli rumori di stoviglie e cassetti. Per un attimo si distrae a puntare un coleottero che attraversa ronzando il suo spazio visivo e va oltre, forse a posarsi sulla pergola che sta sbocciando di passiflora. Uno di quei calici stellati lo inghiottirà per farsi suggere la dolcezza. E' volato via, invisibile ora nel folto delle piccole foglie cui assomiglia. Cosa aspetti? Cosa aspetta un gatto libero, libero di entrare e uscire, sicuro della mia fedeltà, della mia comprensione? Sa che una volta fuori dovrà rientrare da un'altra apertura, dalla porta ; ma sa anche che io sentirò il suo richiamo e non lo farò attendere. Eppure indugia ancora. Ora sono le rondini che dal nido sotto il tetto di fronte lo mettono in allerta : il muso si alza a fissarne l'affollamento stridente, poi si sciolgono di botto e tornano a voli solitari, ghirigori rapidissimi. Si riabbassa la tensione, l'attenzione va di nuovo al basso, al selciato dove ho sbattuto le briciole della tovaglia. Forse in mezzo c'è rimasto un tesoro, lo attira, il suo naso, triangolo perfetto color mattone umido, lo riconosce.
Non si volta nemmeno un istante, un attimo fa era proteso sul bordo e ora già non lo vedo più.
Il mio gatto è saltato, va in giardino a giocare.
Tornerà per cena, come al solito.


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