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Sampler |
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volte mi inghiotte, sai, ti vedo come attraversavi la stanza da una porta all'altra, e mi buttavi addosso la fretta, i capelli le mani, la voce, lasciavi le luci tutte accese, volavano i fogli di giornale, ti seguivo col mio odore di caffè e arance, le mie ciglia aggrappate alla tua schiena, inseparabile l'eco di te fulmineo, e quei fiori fatti a mano con arte e con tempo, stelle di paglia e sangue secco, quello specchio inclinato, riflessi di un divano coi cuscini rovesciati, due bicchieri vuoti, uno sul tappeto a dondolare, e vento dall'est nelle fessure del cielo. | |
ella, comunque bella, come puoi non ammettere che è bella e pura quella
ninfea di zolfo che affiora in una pozzanghera di periferia, con fabbriche intorno,
caverne odor limatura di ferro e olio di macchina, pneumatici uguali a vecchi
sordi appoggiati a murales disperati, presepi di pendii in dolcezza di carbone
o sabbia, teloni neri vastissimi come mari dalle onde ingessate, rifiuti ordinati
impilati ottusi pazienti come mendicanti in attesa, e scintille in serie lungamente
stridenti a cadere come code di cometa da un fuoco bianco, figlie di una furia,
sulla soglia oscura dei fabbri. |
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ome uccelli a gridare, come ragni ad aspettare, come torrenti a dimenticare,
come frutta a macerare, come germogli a faticare, come pietre a guardare, come
nubi a salire, come vento a volare, come sabbia a mentire, come spighe a cantare,
come tarli a ricordare, come pulviscolo a sfumare, come ombre a guatare, come
fuoco a chiamare, come cenere a quietare, come acciaio a costruire e come ghiaccio
a distruggere, come erba a sorridere, come legna a invecchiare, come foglie a
nascere, come silenzio a imprecare, come seta a sudare, come il rosso a fuggire,
come il blu a sognare, come il bianco a dormire, come il nero a cercare, come
odori a impazzire, come musica a crollare. | |
apprima c'era solo cielo, con sfilacci color frutta matura. | |
dirti che. | |
iniscimi qui dentro questa fine, a un passo da quel bordo dove abbiamo amato,
e finiscimi con baci e parole sulle bocche perché si soffochino i singhiozzi
rinviati a domani. Non farmi tornare indietro, non farmi riguardare dentro, potrei
ritrovarmi e rivederti, potrei batterti sul tuo terreno con un fucile a salve.
Feriscimi di più, invece, da parte a parte, da ogni parte siano rimaste
in piedi macerie delle promesse fatte a forma di croci. Non darmi più da
dividere il peso di quell'inganno, tu l'hai già rinnegato sbadatamente,
ora non è più al tuo fianco, ora è sulla mia schiena come
zaino di un pellegrinaggio stralunato, ma io non lo sopporto. Non lo voglio. Sono
arrivata, alla fine. L'avevo vista prima io, è mia, questa fine.
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randinava a momenti, durava poco ma rabbioso e in mezzo tutto impazziva, l'alto e il basso rigirati non esistevano più. Mi eccitava in crescendo quel tuono che si appressava e all'apice esplodeva in energia primitiva tracimando una cascata di pietre vetrose dal gran cielo agostano, e poi in pochi istanti il delirio di vento che spezzava i pioppi si estingueva in un soffio profondo di animale preistorico e finiva, in un sospiro di foglie esauste. Allora tra i cannicci divelti rivedevo sorpresa le forme cambiate, e gemme a sciogliersi in scintillii fra gli stracci volati sui fili della luce, e dappertutto frammenti di nuovi soli come vetrini trafitti da un raggio obliquo, spada del pomeriggio infilzata in mezzo alla ghiaia. Finiva in un rivolo il tintinnio di gocce dai rami e tornava, da dietro la siepe e le altre siepi di tutto il resto del mondo nuovo, lontano e incerto un rauco raspare di rastrelli nell'erba. Raccoglievano i temporali. | |
a gli occhi di stagno fuso, fil di ferro nelle vene, labbra
di cartone increspato. Ha sulle mani la mia voglia, sul petto le mie mani,
sulla sua voglia il sipario. Ha l'abisso. Lo tiene a bada con palate
rabbiose di detriti, rocce e terra scavate via alle fondamenta della mia
unica casa, lo teme come i bambini il buio e lo domina con fiabe di menzogne.
Ha schiena muta, muro contro muro, gelosa dei miei segreti avuti a nessun
prezzo, respinti maldestramente, alla fine rubati per un pelo all'ultimissima
occasione, dopo sarebbe stato troppo tardi, e per loro, per quei segreti,
il tardi era già venuto, ma lui non se n'è curato.
Ha troppo di tutto, e niente. Ha l'impossibile e lo sfugge, per
vanità. Lui, vuole essere l'impossibile, l'unico impossibile
possibile. Non accetta antagonisti, o migliori. Perfezione nel nulla,
nel far male a casaccio con l'unica certezza di rientrare fra i
bersagli. Ha perduto il suo tempo per sempre dentro un pomeriggio non
troppo ben disegnato, uscito così, come un'ora di sereno
di un giorno annuvolato, poi subito richiuso su se stesso. Ha quel passo
d'addio ovunque vada, soprattutto se si avvicina, e già si
riallontana risucchiato nella sua vita strana, a gradini, bruciata in
gola come fumo acre e polvere che asciuga il sapore aspro della rinuncia. | |
n fondo che ne so di me se ogni giorno mi chiedo a cosa appartengo, a questi muri bianchi orlati di fuliggine o a quei paraventi verde acqua dietro cui si agitano figure in atto di cambiar costume. La prossima scena sarà un interno di casa medio-borghese, preparate presto le sedie e il tavolo tondo coi fiori in mezzo, trascinate in bella vista l'indispensabile pianoforte, e che dalla finestra entri l'aria da giardino beneamato e ben frequentato, profumo di detersivi al pino e ciclamino, tutto pulito e vergine per ricominciare al via. Mi insegnavano i passi e i ritmi, come seguire un copione con tanto di musica già scritta e suonata in sottofondo. Tutto era nelle mani del suggeritore, un tomo pesantissimo dalle orecchie rigirate, e nulla si poteva improvvisare. Pena l'esilio, niente imprevisti. Così oggi ancora scelgo di alzarmi ogni mattina dallo stesso lato del letto, e per non sbagliare l'ho fatto accostare al muro, e scendo da lì, attraverso quel muro che ho messo apposta, e timbro il cartellino con l'obliteratrice di mia madre, eredità sommersa da tasse e ipoteche private che poco per volta pagherò io. | |
anciatore di coltelli, lame dall'ottima vista, non sbagliano colpo, segano l'aria. Velocità di luce, bagliori di orrore, sollievo di vuoto. Un viaggio solo, uno per volta, futuro incerto come per noi, ma val la pena contentarsi di uno se puoi averne mille di istanti così, perfetti nel male, legati dal caso a un polso che trema, invecchiato. | |
acchia di colore, che perfezione sei, esplosa sull'impiantito dal pennello di un artigiano distratto. Passava una donna, era bella d'amore, cantava l'aria intorno ai suoi gesti, al filo del suo profilo che fendeva il giorno con sorrisi completi, fronte di luce, zigomi indifesi. Lui ne avvertì l'aroma di sottobosco dopo una pioggia, lo attirò il sentore di muschio e brividi - erano capelli, erano gambe - ma nel voltarsi a carpirlo la sua arte perse la via e ogni volontà, e questa goccia che con rumore di baci si lasciò andare sconfitta per terra dipinge laggiù il capolavoro della sua scarsa vita. | |
on c'è un'ombra in tutta la spiaggia, semicerchio d'avorio
attorno all'immenso. Le tracce sprofondano in strati di ossa calcinate e
frantumate sotto un'inondazione di gran luce, non ha un centro preciso il
cielo, è una cupola altissima invasa tutta dalla stessa intensità
di sole, cancellate tutte le tracce e appiattita ogni possibilità di nascondiglio,
non c'è neanche una tana per le lucertole esauste. Passaggio fra
sabbia e acqua, non provoca alterazioni, ugualmente spesse e pesanti scivolano
attorno alla pelle come un corpo inafferrabile, consistenza indefinibile, odore
di tanti odori. Respira il calore mentre cresce da terra all'insù,
esalato dai fossili dissepolti fra stenti cardi grigiastri di sete, nessun riparo
fino alla prossima civiltà, qualche chilometro più avanti, dove
ignari fanno musica e bevono sotto freschi tendoni di acrilico. | |
ramai tra di noi solo un passo
Oramai contro quello scoglio altro che il mare, gli oceani e le galassie sono
naufragati in quell'attimo, a un passo da. E non c'è stato
sforzo né voltaschiena, è venuto facile come un rettile che si
ritira in un sospiro dentro un foro nella terra, e con la vibrazione degli ultimi
anelli della coda raccoglie e ammucchia gli stecchi e la foglia di faggio che
nasconderanno l'accesso. E poi più nulla, rimane nulla, non una
traccia a tatuare il marciapiede, a consumare le piante dei piedi fuori rotta,
a contundere i pensieri ammonticchiati e bloccati dentro un bidone di latta,
una tanica vuota, un barile di alcool da marinai perduti. E dire che c'era
bonaccia, calma di vento, cielo liscio senza graffi. Ma l'onda lunga,
ma la barriera dei coralli sotto il pelo dell'acqua, ma. La chiglia fu
tagliata di netto come fa la carta sulle dita, e non sanguina ma. Ma non si
richiude, ed entra il sale. Brucia, disinfetta, fa lacrimare, poi guarisce con
cicatrice di mercurio e silicio. | |
asso un panno antistatico e tutto vi resta appeso, la polvere della noia si magnetizza e miracolosamente aggrappata non rischia più di allagare il letto con ricami di capelli lunghi, i miei, strappati per amore durante l'amore. Ciò che per te è urgenza momentanea è adesso la mia più blanda vergogna, la deriva accecata e lo svogliato abbandono delle sere perse. Più dimentico più mi allontano dalla mortificazione, dalla coscienza del furto che mi dedico. E' solo un po' di quel tempo che non ho salvato con un altro nome, e nient'altro. Solo un po' di tramonti pervinca o aurore forse pervinca anch'esse, lontano da dove. Provavo a resistermi ma senza convinzione, fingevo già pur indagandomi in faccia, davanti a me stessa spogliata dallo specchio. Profondi segreti da custodire con rispetto, con poco ma tenace pudore. Possa continuare questa menzogna ispida come lana, ruvida come corteccia, soave come morfina. Prendo irresistibile possesso del mio inferno in discesa e lo adorno di trofei. Parte di me trasforma ogni suo istante in pulviscolo cosmico, pronto a prendere un posto qualunque nel moto browniano dell'effimero infinito. | |
uelli come noi dipingono madonne rosa e azzurre sui selciati, soffiano chiavi di sol come bolle di sapone da violini agli angoli di strada, appendono catene di parole a rami di caprifoglio, scavano pozzi e camini in castelli di sabbia. Dai coppi dei fienili traguardano il passo degli uccelli, e rotolano giù sulla paglia e si infarinano gli stracci. Dal torrente con le mani cavano pesci di metallo vibratile e li rilanciano come saette a ritorcersi verso il mare. Lungo i fossi rigirano a sussurri storie mai udite dai rapaci notturni e dai miti topi dei campi, cauti a non farsi ingoiare nel buio che cade giù dai muri e ruba il fisso diamante di una luna alonata. Pozzi di limpide innominate dolcezze custodiscono con armi di temeraria fedeltà, quelli come noi che non soffrono la veglia. Quelli che amano difendere la lievità ma anche il peso roccioso delle cose vere, le paure dei semplici smentite dai saggi e dagli ipocriti. Noi, quelli che sorridendo fanno la guardia mentre i ricchi e i felici ballano in costumi a prestito sotto lampadari di cristallo scheggiato, e intanto mimiamo le danze alla luce rosata di un tappeto di morsi di candela, uno sbaffo di fumo e carbone sul naso, gli occhi a scintillare nella nostra invidiabile penombra che ci cancella l'età. | |
oma, mi ricordo Roma un settembre, i primi, afoso e polveroso. Cantieri per le
strade. Castel Sant'Angelo, fresco dentro, e su in cima tanta aria che gli
girava intorno e una gran luce circolare e colli con gli alberi a cintarli, come
disegnati. Mi ricordo il calore della terra sotto il secco giallastro delle erbacce
alle terme di Caracalla, dove distesa ho inseguito schegge di delfini su frammenti
di muri silenziosi che si scontravano solo con fulminei stridii di rondini.
Passi assorti e occhi che bruciavano lungo le strade a naso in su, e le gambe
andavano da sole, e mani sudate a dondolare la bottiglia dell'acqua cui
bere spesso e distrattamente. Ruggiti di auto agli incroci, lampioni sbiancati
di guano, e la sera quei gradini ripidi da scendere a trastevere, poi lì
sotto poca luce ma odore di fumo e spezie. Acciottolati sonori quando si attraversava
la notte deserta per tornare ai damaschi azzurro e oro in quella stanza alta sopra
i rumori notturni.
L'ultima volta era autunno inoltrato, c'era vento che faceva volare
le cartacce e i ricordi. Non l'ho vista, ma mi ha vista lei, Roma. Gente
che parlava, luci gialle. Braci dopo le quattro del mattino e fino al canto
dell'allodola. Poi una corsa in macchina e lei, Roma, che mi correva a
fianco sconosciuta, e io ferma dentro un attimo mio e in una scatola di latta
e in un viaggio virtuale; Roma che mi conosce e ogni volta mi chiede qualcosa
di me. | |
e fossi un colore sarei blu sincero di mare d'inverno in un giorno di sole
lucido e bora tesa, | |
roppi amori fanno male alla salute. Soprattutto l'alcool e il fumo. Lo so, certo che lo so. Troppo di tutto fa male, anche più del niente di tutto. Ma ci si abitua. E' un vaccino a vita. Ci si vaccina contro la vita. E' il mio trucco per batterla, la malattia di vivere. Le vado incontro a mani aperte come in segno di pace e invece è la prima mossa per afferrarla ai fianchi e farla mia in tutti i suoi vizi, le pieghe del disordine e del superfluo. La rodo con le dita avide e tenaci, la frugo con insistente consapevolezza del rischio, ma attraverso quel rischio la esploro fino al suo sottofondo, i nascondigli della paura e delle incertezze. E' l'unico modo per non sprofondarci. Al contrario, mi immergo ad occhi aperti sfidandone la salinità, e con tutte le parti di me percorro le pareti ingannevoli dei suoi crepacci, e ogni tanto fiori di roccia mi si aggrappano alla pelle, mi ingarbugliano i capelli. Come alghe, come ortiche, come vischio. Un tuffo verso l'alto, un lungo tiro di fumo (era cicuta secca arrotolata in una foglia di loto) e un sorso aspro di succo inacidito, che fanno ronzare insetti impazziti nel labirinto della mente, e con un po' di fortuna la addormentano senza spasimo sul ciglio del prossimo abisso. | |
nico fra tanti uomini, il mio è difficile. Non lo sopporterei diverso,
accondiscendente, intuibile. No, deve essere difficile perché io metta
alla prova la mia dote più cara, l'intelligenza, e il mio più
costoso difetto, il coraggio. Azzarderò con lui, il rischio è una
vertigine affascinante, malìa che non sfuggirò, l'ho sempre
cercata, la so riconoscere, la ambisco e la merito, è su misura per la
mia presunzione. E' difficile e aspro, come ardua è la mia volontà
e tenace la mia convinzione. Non mi accontenterò di un dono, dovrò
averlo come trofeo. A mia volta sarò impegnativa e fortificata, le mie
difese non cadranno mai del tutto, sempre guarderò le mura e il fossato
che mi riparano. Sempre, fino a quando sulla mia torre, da dove osservo giù
la piana selvatica di erica e lavanda, isserò con le mie mani la sua bandiera,
vessillo del suo amore, segno della sua conquista. | |
orrei la tua felpa quella vecchia con su scritto columbia university, azzurra stinta le maniche diventate corte i bordi slabbrati, poi vorrei i guanti che metti in macchina d'inverno per guidare quelli che li lasci sempre dentro il cassettino e che sarebbe ora di comprarne di nuovi perché sono scuciti sull'indice destro; la matita 2B col gommino in fondo masticata accorciata con la punta perfetta che ti incastri dietro l'orecchia ; il cuscino coi pupazzetti tirolesi rossi e neri anche se schiacciato ma lo trovi comodo quando guardi la tv steso sul pavimento le mani intrecciate sul petto le ginocchia su ; la tua tazzona del caffelatte gialla con il dentro bianco senza manico senza piattino con un orletto marrone dove l'orzo ha lasciato il segno ; una bottiglietta del tuo dopobarba, vuota ; il portachiavi da cintura di pelle tutto rovinato da buttar via ; il bicchierino per la grappa di vetro spesso con la decalcomania di Misurina e una bolla d'aria sul fondo ; il quaderno degli appunti con tutti gli appunti dentro ; il tuo viso che si affaccia per dirmi guarda che sono sveglio, vieni dentro a bere un caffè con me ; il guinzaglio per portare a spasso il cane e il cane da attaccarci ; l'ombrello nero grande con una stecca spezzata che usi quando vai fuori nel buio a fumarti l'ultima sigaretta passeggiando adagio lungo il margine del campo; il rumore andato via dell'acqua della tua doccia quando già ti aspetto, triste di me, sul bordo del letto guardandomi le caviglie bianche ; quel graffio che non ti guarisce mai sul dorso della mano sinistra fatto con un attrezzo in garage mentre spostavi delle cose ; qualcuna, a caso, anche di quelle cose che hai toccato per spostarle. Vorrei che tu, raggiungibile, esistessi, e sapere dove. | |
itto, balza sulla finestra e dal davanzale ancora indugia, occhieggiando verso
il basso. Due metri è un salto da poco per lui. Le sue zampe hanno tendini
e muscoli necessari per farlo. La sua vista è acuta e ben orientata, sa
prendere la misura, sa calcolare la spinta. Dietro lascia il tepore odoroso della
cucina e i miei piccoli rumori di stoviglie e cassetti. Per un attimo si distrae
a puntare un coleottero che attraversa ronzando il suo spazio visivo e va oltre,
forse a posarsi sulla pergola che sta sbocciando di passiflora. Uno di quei calici
stellati lo inghiottirà per farsi suggere la dolcezza. E' volato
via, invisibile ora nel folto delle piccole foglie cui assomiglia. Cosa aspetti?
Cosa aspetta un gatto libero, libero di entrare e uscire, sicuro della mia fedeltà,
della mia comprensione? Sa che una volta fuori dovrà rientrare da un'altra
apertura, dalla porta ; ma sa anche che io sentirò il suo richiamo e non
lo farò attendere. Eppure indugia ancora. Ora sono le rondini che dal nido
sotto il tetto di fronte lo mettono in allerta : il muso si alza a fissarne l'affollamento
stridente, poi si sciolgono di botto e tornano a voli solitari, ghirigori rapidissimi.
Si riabbassa la tensione, l'attenzione va di nuovo al basso, al selciato
dove ho sbattuto le briciole della tovaglia. Forse in mezzo c'è rimasto
un tesoro, lo attira, il suo naso, triangolo perfetto color mattone umido, lo
riconosce. torna a L'amore |