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La piazza è in sole, tagliata dall'ombra netta di un campanile romanico.
Lambisce, l'ombra, la fontana di pietra al centro, e sul gradino circolare ti
ho visto.
Camicia, jeans e sandali da viandante.
Ti ho visto, ti ho riconosciuto dalla bisaccia che ti dorme accanto. E' un fruscio
di stoffa sfilacciata e di polvere di strade, che ha percorse con te da tutto
il tempo. Ti ho visto perché è verso l'acqua che ho guardato, e
perché tra me e le cose che amo c'è sempre e c'è sempre stata
dell'acqua. E tu eri, tu sei, vicino all'acqua.
La gente - le facce, le gambe, gli zaini - si è divisa in due, piano, al
rallentatore, dissolvendo nel pulviscolo dell'agosto, e tra le quinte si è
aperta la visuale e al centro del mio palcoscenico tu, e quella fontana di un'acqua
costante e paziente come il tempo che mi segue, che ti segue. Ti sei alzato e
hai attinto di quell'acqua e di quel tempo tra le mani e te la sei gettata sul
viso. Poi hai raccolto la bisaccia, e quello era il segnale.
Abbiamo preso la stessa strada, la stessa direzione, senza toccarci e senza dire,
e via. A passi segnati. A passi sognati. Hanno messo una caraffa in mezzo a noi,
e del pane a tozzi arduo come rocce. Abbiamo mangiato e bevuto a lungo, imparando
ad ogni istante che passava ad accarezzarci la mente con la mente, come con dita
delicate e curiose ma anche come con piccoli marchi di fuoco, e ci siamo riconosciuti
dentro i nostri segreti perché li avevamo custoditi insieme ed erano gli
stessi.
Poi, appena richiusa la porta dietro di noi, è salita un'altra fame, di
quelle che non si saziano, e lo sapevamo ma abbiamo voluto sfidarla ugualmente.
Ti sei spogliato davanti a me con gesti misurati e magnetici perché avevi
bisogno di farmi certa che non nascondevi armi né malefici, e io ho guardato
e ti ho creduto perché ti conoscevo già e non mi avevi mai mentito.
Più vicino. Di più. In piedi. Mi hai tirato su la gonna, poi addosso
al muro graffiato le tue mani a tenermi i polsi comunque arresi e la tua bocca
a soffocare l'urgenza contro la curva della mia gola pulsante, mi
hai presa come volevi tu (come credevi di volere, in quel momento), con la fretta
e la brutalità dell'angoscia, della precarietà. Sei affondato, lava
e ossidiana per il mio mare di miele selvatico, e laggiù è esplosa
e poi naufragata la luce di un sole che si allarga per un attimo fulmineo a
dilagare sull'orizzonte prima di stendersi contro la sera. Il dolore vano.
Lo sforzo senza l'appagamento. Dare un peso e una dimensione materica ad una simbiosi,
farne un accoppiamento di corpi salati. Impellente e inutile. Un errore senza
colpa; innocenza intatta.
Più tardi, nei respiri larghi e placati, ci siamo donati ancora interminabilmente
toccandoci e alitandoci dappertutto senza requie, e ovunque soffermando una tenerezza,
finché non c'è stato più un solo rifugio nel tuo cuore -
nel mio cuore -, nel tuo cervello - nel mio cervello - e in
tutte le nostre vene che non avessimo esplorato, percorso e segnato. E quando
abbiamo capito che non avremmo mai finito di darci e di prenderci, e che mai finiremo
di farlo, ho voluto che fossi tu ad andartene per primo, perché non ero
ancora pronta. E mentre raccoglievi gli stracci del tuo e nostro viaggio ti ho
chiesto cos'avevi nella bisaccia, solo per sentire, oltre al resto di te, anche
la voce.
"Colori. Tutti i blu che esistono".
"I blu? E quanti sono?"
"Infiniti. Li ho tutti. E tu li conosci tutti".
"Li conosco tutti?"
"Sì, e lo sai".
Mi hai allungato un boccettino iridescente, hai fatto segno che lo prendessi,
hai guardato mentre lo guardavo e poi guardavo te, e hai detto ancora una cosa,
l'ultima:
"Ora me ne mancherà uno. Lo lascio a te".
Così sei andato. Così ti ho lasciato andare.
Era blu. Oltremare.
Quando ti servirà, me lo chiederai.
E io ti dirò di sì.
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