Verso l'ora di cena il cielo ha cominciato
a ruminare nuvoloni come fosse percorso da uno stormo di aerei bassi e
pesanti. Ogni tanto saettavano ferite al neon, nitidissime contro l'indaco
che scuriva, mentre gli alberi e gli uccelli zittivano.
Quando è mancata la corrente, abbiamo cenato con tre candele spiando
dalla finestra il disfarsi di mandrie di nubi cupe, e intanto i cani spiavano
noi dalla soglia, muso a terra e orecchie basse.
Poi nello spegnersi trascinato del rombo si è fatto strada lo scroscio,
e in pochi minuti le siepi piovevano fitto, i rami spazzavano il terreno
che ribolliva, il vento era una sassaiola giù per canaloni a zigzag,
e tutt'intorno era un rumore che inghiottiva. Prima di sprangare ho fatto
in tempo a veder scomparire il prato e le case dentro la nebbia livida
della grandine.
Siamo stati al buio e al riparo come in una grotta afosa sotto una cascata,
aspettando che il cielo stremasse la sua furia e contandola sullo strepito
metallico delle grondaie. E sempre i cani con la coda umile e gli occhi
tirati.
Quando è scemato, ho aperto uno spiraglio di imposta, e l'arca
galleggiava tranquilla sotto l'ultima pioggia stanca e in mezzo ad un
mare di ghiaccio fumante.
Sono uscita io sola, io e i cani prudenti, e abbiamo respirato l'aria
nuova. Le gocce degli alberi cantavano, vive, in tonalità diverse
e armoniose. I lampioni si sono riaccesi ronzando e i coni di luce si
sono schiantati in stelle nelle pozzanghere, e subito dopo i due pipistrelli
del fienile di fronte hanno ricominciato a incrociare i loro voli seghettati
lungo il filo dei tetti, impazienti di luna.
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