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Datemi, per favore

R.Magritte - La victoire

Una sdraio al sole, o anche solo una stuoia, un asciugamano; anche niente.
Sì, solo il sole, facciamo solo il sole e la sabbia e niente altro, che già sarebbe tanto. Sole che mi strina la faccia, che mi estenua la pelle come baci ricevuti e subiti da uno sconosciuto più forte di tutte le mie forze, e io ero bendata.
Acqua, un po' più in là, che mi cerca con obliqui passi suadenti, ma non mi incatena le caviglie se non sono io a volerlo.
Acqua salata, per favore.
Oppure di canale, con puzzo di pesce intrappolato nel petrolio ondivago di un angolo di alghe morte da tempo sotto il pontile.

Rintocchi fondi a mezzogiorno in mezzo alla pianura, ma niente case uomini campanili, macchine per lavorare la terra, animali che trascinano ore senza coscienza. Solo rintocchi fondi ma per nessuno se non per me. E che risuonino vagando senza fretta e dolore attraverso tutto un cielo sbiadito dal gran cerchio bianco del sole, il sole, quello di prima, quello che mi ha abrasa come una lastra duttile e rovente.
Se non comincio da quel sole, non voglio neanche cominciare.

Odore della mia pelle quando era quella che si sbucciava sui tronchi degli alberi. Odore della pelle calda e sbucciata delle ginocchia dei bambini, quelli che si nascondono col cuore in gola per giocare mentre i grandi riposano chiudendo i pomeriggi estivi fuori dalle persiane, e loro sempre di nascosto si curano le ferite con ditate ciucciate in bocche di liquirizia.
Odore di foglie di limone a coprire le cicatrici appiccicate di saliva, e sopra un fazzoletto a triangolo come gli eroi.

Un treno fermo e spalancato su un binario morto, da percorrere di corsa da un capo all'altro, per vedere che cosa lunga e vuota nasconde quando non c'è dentro la gente che chiacchiera e esala, e sposta cose pesanti e brutte e perfino rancide, come loro, come la gente che non c'entra, con me: gli altri, quelli che mi spingono senza vedermi, e che io sfioro senza raggiungere. Niente gente, ma i sedili vuoti e le orme leggere dei sogni di chi ha già viaggiato e alla fine è dovuto scendere.

Un vento che mi porti la pioggia, che anche quella dà da vivere come il sole, e io non potrei farne senza. Una pioggia che avvolga senza pungere, che mi pianga dentro il cuore così come pioverà sui giardini della città, e dopo ne nascono fiori strani e dalla vita incerta, ma nascono e questo è sicuro. E poi un altro vento per aggrovigliare le ombre della notte fuori dalla mia finestra, e che mi danzi dentro i suoi spifferi - pianti anch'essi - chiedendo di entrare, o che esca io; uno che cerchi fino all'alba la sua strada e non la trovi se non qui fra pareti di nuvole di confine. E alla fine un altro vento ancora che tutti li congedi con grazia e splendore, e che le cose luccichino al suo strascico gentile, e le cartacce volino a infiorare rami schiantati e a farli sbocciare a gennaio.
No, a febbraio, il mio mese, dove le stagioni si incontrano e si sfidano.
E io, felice, in mezzo.

[E tu, tu che invece sei infelice, tu, cui darei almeno la metà di questo niente di cui guai non vivere, tu cosa vuoi, perché io te lo cerchi nei cestini dei rifiuti dei sapienti, nei groppi di segatura e erba disseccata a impagliare sogni rinnegati dalla stanchezza...
Magari una torcia di luna nebbiosa che a tratti si curva sugli angoli dei vicoli dei poveri e dei tristi, e stranamente, col suo remoto alone di mondo estinto, li riscalda.]


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