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Táifēng

Le origini della civiltà occidentale e moderna

dal Primo Tempio gerosolimitano di Allāh a Omero

 

M. G. Corsini, 22 dicembre 2007

 Tutti i diritti riservati.

 

 

Questo  è un lavoro nuovo, con diverse e fondamentali scoperte ulteriori. Qui il grosso delle mie indagini, diciamo dal “Paradiso Terrestre” a Omero, fa capo ed ha una soluzione finale o più avanzata, o comunque viene rivisitato dall’alto, diciamo dal Tetto del Mondo, dal Pamir,  da cui ora esamino  tutto il Vecchio Continente. Ovviamente questo lavoro non sostituisce né in parte né in tutto tutti quelli che lo hanno preceduto. Quelli che lo hanno preceduto andranno letti, con intelligenza, alla luce di questo. E poiché questo lavoro cade sostanzialmente anche alla fine dei miei  primi  quarant’anni di studi storici, da quando alle medie (avevo 14 anni) acquistai un sunto della vita e degli scavi in Grecia e a Troia dai diari di Heinrich Schliemann pubblicato dalla Einaudi (nel 1968),  è l’occasione per farne il bilancio. Retrospettivamente, il filo conduttore della mia indagine è stata la nostra civiltà, quella occidentale e moderna nel migliore senso del termine, che, Titano abbattuto da un insulso Zeus (che deriva da una radice indeuropea che si può leggere Dio), ho rimesso pazientemente in piedi, pronto alla rivincita finale sul ring implacabile della Storia, smascherando  le menzogne e i depistaggi degli imbecilli cortigiani prezzolati al servizio dei vari signorotti medievali che mi hanno preceduto e che ancora imperano,  perché grazie al cristianesimo (la dottrina dell’opportunismo) siamo ancora nel Medioevo, anche se ci illudiamo di poter conquistare lo  Spazio. Come ho già scritto, noi occidentali siamo figli della menzogna. Ma la menzogna è stata smascherata, fino in fondo, in sh’Allāh. Certo, quello che ho scoperto,  lo devo anche, e aggiungerò perfino soprattutto, ai moltissimi altri, per lo più fuori dell’apparato come me, che mi hanno preceduto e che hanno fatto il duro lavoro di creare nel tempo delle brecce  qua e là nel muro di cinta della cittadella dell’ignoranza medievale. Io  ho avuto  il privilegio di  abbattere  il muro per l’assalto finale della Civiltà contro la Barbarie. Pur non credendo in dio (ma non ho eretto l’ateismo a religione;  odio i Polifemo dal cuore e dal cervello di pietra), ma solo nell’uomo, in ciò che l’umanità ha prodotto di meglio, ho finito per lavorare approfonditamente sulle religioni monoteiste (cristianesimo compreso, che vera religione monoteistica non è; il cristianesimo non solo  è politeista, ma privilegia il falso profeta di Alessandria d’Egitto, l’empia vittima  sacrificale cannibalizzata nell’Eucarestia, l’ultima vittima dei sacrifici umani dei traci) e dunque alla fine mi posso definire anche un profeta (tranquilli, nessun dio mi ha parlato; quando si capiscono a fondo le cose si può perfino leggere il futuro senza l’aiuto di alcun dio), non solo della civiltà laica occidentale, ma anche, come si vedrà da questo lavoro, che pone il sigillo ai miei primi quarant’anni di storico, un profeta laico che attesta e grida al Mondo la veridicità storica del dio di Abramo e, di conseguenza, della rivelazione avuta… da Maometto. L’ho scoperto  leggendo, da decenni, sempre con maggiore approfondimento,  l’Antico Testamento cristiano ed ebreo (non posseggo il Corano, e forse un giorno lo leggerò, ma in arabo). Da storico leale, senza che nessuno da nessuna parte, in Occidente, ma credo nemmeno in Oriente, ne avesse scritto nei pur tanti libri da me acquistati e letti nel corso degli anni, e senza avere un Istituto a disposizione. Mi chiedo cosa non potrei scoprire nei prossimi 40 anni se potessi disporre di biblioteche non di centinaia ma di migliaia di libri e altri documenti. Farei come Enzo Biagi, che scriveva tutto lui, e bene.

Il bilancio di questi primi quarant’anni è ovviamente positivo. Ho scoperto più di quanto mai avrei potuto sognare (e molto non l’ho potuto rendere né posso tuttora rendere noto – nemmeno più a me stesso, tranne quel che ricordo o ho già scritto – mi riferisco al corpus dei testi etruschi tradotti e commentati rimasti scritti nei dischetti in wordstar4 che non sono più in grado di leggere non avendo un computer con installato il programma relativo di scrittura; quasi ci fosse una maledizione sull’etrusco che deve rimanere lingua morta). E’ stata una bellissima avventura.  Soprattutto per la ventina di lingue fra moderne e antiche imparate (un rammarico è il non potere col mio metodo di seguire il telegiornale satellitare vocabolario in mano, imparare definitivamente il cinese che ho studiato per anni; la Vallardi o chi per essa dovrebbe realizzare  un dizionarietto Cinese-Italiano, magari con qualche centinaio di vocaboli in più  – quello Italiano Cinese va bene così com’è – con all’inizio la pronunzia dei vari vocaboli cinesi messi in ordine alfabetico come un qualsiasi dizionario italiano, seguiti dal complesso di ideogrammi relativo e infine dalla traduzione italiana; a cosa serve il dizionarietto? A dialogare coi cinesi? E allora così com’è non serve a niente; a leggere le scritte da parte del turista? Anche se nei luoghi turistici non si facesse uso di segnaletica in inglese credo che chiunque riuscirebbe con un po’ d’intelligenza a raccapezzarcisi, e in ogni caso, facendo un sondaggio si vedrebbe che nessun turista è mai riuscito a raccapezzarcisi con questo sistema; per tutto il resto ovviamente un Vallardi (o simile) è comunque insufficiente, ma magari se avesse qulche centinaio di vocaboli in più già acquisterebbe valore). L’ultima, lo giuro, di lingua importante che sto tuttora imparando, è e sarà l’ebraico moderno. Potrei perfino chiudere qui ed aver realizzato in quarant’anni ciò che  nessuno prima o dopo di me riuscirà mai a realizzare. E potrei dedicare i miei prossimi 40 anni ad un nuovo e magari più affascinante campo d’indagine. Mi sento come si potrebbe sentire un investigatore che alla fine dei suoi primi quarant’anni di indagini facesse il bilancio dei casi risolti  anche difficilissimi e ancora rimasti da risolvere (io non ho casi rimasti insoluti; il mio motto è che è solo questione di tempo; il fatto è che non ho più documenti su cui lavorare, perché non ho un Istituto; detesto girare per bibliotece e far fotocopie), con la coscienza di aver lavorato sodo per la loro soluzione vera, seguendo solo il mio fiuto come una bussola e senza la preoccupazione di tirare acqua al mulino della mia fazione (che non ho) o della mia nazione (in cui mi sono trovato per caso al momento della nascita) o della mia “civiltà”, perché io sono nato solitario, cittadino del mondo o probabilmente di un altro mondo.  

Siamo soli nell’Universo? La Chiesa Cristiana ce lo ha imposto per mangiarci meglio. Io non lo credo che siamo soli, ma non è di quel che penso che voglio parlare. Il punto è che nelle mie ricerche mi imbatto in due divinità sedicenti rivelate che pretendono di essere uniche, o lo pretendono i loro seguaci. Dunque, o una di queste  esiste davvero, oppure  stanno entrambe solo nelle teste degli uomini che l’hanno create.  Poiché al momento continuo a non credere in dio, posso al limite pensare che degli extraterrestri  della nostra Galassia, spacciandosi per dèi, o essendo creduti dèi dai terrestri (come gli indigeni considerano di solito i navigatori ed esploratori più civilizzati giunti nelle loro terre), abbiano, uno buono, educato i terrestri, l’altro cattivo,  diseducati e danneggiati anche materialmente. Di avvistamenti anche del terzo tipo se ne parla nei testi antichi di varia provenienza. Che io sappia uno solo ha avuto forse (se veramente è avvenuto) una documentabile interferenza sulla storia umana. Il fatto è che degli extraterrestri, se veramente hanno avuto contatti con noi, sappiamo troppo poco e discuterne sembra fantasticare e uscire dal campo della vera scienza dove invece io intendo restare, perché la mia guida è solo la dea Ragione. La stessa arca degli “Ebrei dell’Esodo”, posto che sia stata uno strumento di collegamento degli “Ebrei” con Yahweh e soprattutto di collegamento di Yahweh, il dio cattivo, con gli “Ebrei”, e anche un marchingegno generante elettricità per vari scopi bellici, non è servita a niente perché, come vedremo, gli “Ebrei” persero sonoramente e non conquistarono affatto la Palestina sotto Mosè, Giosuè, i Giudici, eccetera. Ciò forse perché il dio cattivo, come il diavolo, fa le pentole ma non i coperchi? No, perché il dio cattivo riuscì comunque ad imporsi su Gerusalemme dal  Secondo Tempio in poi, e poi anche a Roma su tutto il cristianesimo. Il dio cattivo trova la forza nell’aiuto degli uomini  ignoranti (e opportunisti) che ne adottano la dottrina perché fa loro comodo. Nell’impero della menzogna in cui viviamo prosperano gli imbecilli opportunisti. Il male sulla Terra dipenderebbe a questo punto dal non potere (per il momento) il “dio” buono intervenire sulla Terra a causa del predominio di quello cattivo. Certo, quello che si deve più dar da fare è quello cattivo, perdente in partenza. Forse il “dio” buono è tanto sicuro di vincere da confidare solo nel fatto che alla fine l’uomo, con la sua sola ragione, riuscirà a capire da che parte stare.  

Nella tradizione degli Angeli caduti, puniti da Yahweh,  si nasconde a mio parere un genocidio avvenuto nel -1750 ca. a Mohenjo-Daro, nella valle dell’Indo. In zona –  chiamiamolo, dovremo pur chiamarlo in qualche modo,  il generale Yahweh –  ordinò un attacco con un’arma di tipo nucleare su Mohenjo-Daro. Qui erano gli Angeli (ovviamente, poiché io non credo in dio, militari extraterrestri) sotto il suo comando, ma Angeli dello stato da cui proveniva –  governato dal dio buono, chiamiamolo il presidente del sistema di Sirio, tanto per dargli un’etichetta –   di cui non poteva disporre a piacere. Ebbene, il misogino razzista e invertito Yahweh aveva dato ordine ai suoi Angeli di non unirsi alle vallindie, di pelle nera, questi contravvennero, e Yahweh sterminò, coll’arma nucleare, loro, le loro mogli, i figli procreati da entrambi, gli abitanti di Mohenjo-Daro. Nella stessa visione misogina, razzista e da sessualmente invertito del generale ribelle Yahweh, Adamo ed Eva vengono colpevolizzati per la loro unione sessuale (la famosa mela, il pomo della discordia) generante prole. Invece  il “dio” buono, il Serpente, in Genesi, come scritta nel Primo Tempio di Dagon a Gerusalemme, aveva certo preparato per l’uomo e la donna un giardino pieno di delizie, soprattutto sessuali, quelle in cui credono gli islamici, gli indiani, e tanti altri, e si fanno esplodere come kamikaze, per esse e per la libertà cui aspirano (come i nostri martiri dell’indipendenza e unità d’Italia, anch’essi brutti sporchi e cattivi per la Repubblica – nata dalla vittoria degli angloamericani –  che ne ha tradito gli ideali e li ha gettati nel dimenticatoio come spazzatura). Se questo è stato solo uno dei primi sgarbi fatti da Yahweh al “dio” buono, è credibile cha la guerra continui, anche sulla Terra, con lo scontro fra civiltà portato avanti dagli Statunitensi e dai loro alleati compagni di merende, Papa compreso, contro l’Islam. Ma confido che  alla fine i buoni vinceranno, il Dragone l’avrà vinta sul ribelle Yahweh, come quasi sempre in tutte le storie che si rispettino, e i cattivi processati in pubblico e condannati al carcere, anche perpetuo, e allora, anche  sulla Terra, regnerà per sempre la pace. In sh’Allàh!

Da quando esistono, il Sole  dona e regola la vita degli uomini  sorgendo ogni giorno a Oriente e tramontando a Occidente. Il Vecchio Continente fino al 1492 era tutto quanto si conosceva (ma prima che l’umanità precipitasse nei secoli bui  del cristianesimo gli scienziati greci, e non solo greci, sapevano – sbugiardando la Bibbia – che la Terra gira intorno al Sole e che esiste un altro continente al di là dell’Atlantico) delle terre emerse ed evidentemente invalse l’uso di distinguere l’estremo Oriente dei paesi asiatici dall’estremo Occidente dell’Irlanda celtica, e si dice anche oggi (o si può dire) che il Sole sorge dall’Oceano Pacifico e tramonta nell’Oceano Atlantico. Ciò è astronomicamente falso, ovviamente, perché nessun punto dell’eclittica, l’orbita apparente del Sole intorno alla Terra, è privilegiato rispetto agli altri, e gli abitanti del  Nuovo Continente potrebbero altrettanto legittimamente affermare che il Sole sorge dall’Atlantico e tramonta nel Pacifico. Ma è storicamente vero, perché l’umanità, e la civiltà, nasce nel Vecchio Continente, e nasce ad Oriente, per  poi via via  estendersi ad Occidente, seguendo il corso del Sole. Dopo la riscoperta dell’America da parte di Colombo (non a caso in un momento in cui la Chiesa Cattolica aveva preso una via laicissima che faceva sperare con Papa Borgia una laicizzazione definitiva del Vaticano e perfino l’unità d’Italia; ma Yahweh ci ha messo fra le ruote la cupidigia e l’invidia del rozzo e superstizioso Lutero, e di conseguenza la Controriforma, la reclusione a vita di Galileo e il predominio dei protestanti nella scienza), la mano del gioco della civiltà è passata ancora più a Occidente. Oggi la mano è tornata al punto di partenza, all’estremo Oriente. Forse un giorno gli antropolgi scopriranno che il primo gruppo di esseri umani si è  evoluto  da una scimmia dell’estremo Oriente, perché il rame è stato scoperto, per la prima volta, in Asia, nel 6000, mentre in Mesopotamia solo nel 4500, quando in Thailandia settentrionale si producevano già oggetti in bronzo. Pare che la civiltà si sia sviluppata per la prima volta in un’area compresa fra Giappone, Thailandia e Birmania.

Esaminiamo la preghiera al dio Sole del re ittita Muwatallis (-1300 ca.), che recita:

                                     Dio celeste del Sole, pastore dell’umanità!

                                     Tu emergi su dal mare, Sole del cielo,

                                     su verso il cielo tu vai.

                                     Celeste Dio del Sole, mio signore! All’uomo,

                                     al cane, al porco, alla fiera selvaggia dei campi

                                     tu parli di giustizia, deità del Sole, giorno per giorno.

Dapprima si potrebbe pensare ad un mondo visto alla rovescia, col sole che sorge dall’Atlantico e tramonta nel Pacifico, poi gli studiosi hanno pensato che il Mare in questione fosse il  Mar Caspio o il Mar Nero e che originariamente gli Ittiti fossero stanziati nel Caucaso, a occidente del Mar Caspio, o sul Danubio, a occidente del Mar Nero. Oggi io avanzo l’ipotesi che  gli Ittiti sapessero esattamente (in base alla loro stessa provenienza e alle conoscenze geografiche prima della scoperta di Colombo) che il sole sorge dall’Oceano Pacifico. Il fatto è che noi moderni sottovalutiamo le conoscenze degli antichi, dovute non solo ai loro spostamenti come popoli e come individui, ma anche agli scambi commerciali da un emporio all’altro che costituivano una fitta rete di scambi di informazioni che tenevano  collegato da  un estremo all’altro tutto il Vecchio Continente fin dai più antichi millenni.

Ciò non significa che gli Ittiti non possano essersi stanziati nel Caucaso. Ciò anzi prova una caratteristica comune a tutte le tradizioni, che emigrano, come le fontane di Roma, ma a differenza delle fontane di Roma, che emigrano in base ai progetti  urbanistici, le tradizioni  emigrano da Oriente a Occidente, secondo il corso del sole. Per gli Ittiti, stanziati dove abbiamo detto, diveniva nuova tradizione quella del sole che sorge dal Mar Caspio. La storia dell’umanità nasce nell’estremo Oriente, ma anche la storia dell’Occidente indeuropeo nasce nell’estremo Oriente. Ci possiamo immaginare quale fosse l’aspetto del dio venerato dagli Han, gli abitanti dell’antica Cina nel -3000 quando sorgono qua e là le grandi civiltà. Un pesce che, come la foca con la sua palla, spunta dall’acqua tenendo il sole sulla testa. Più che altro un biscione, un dragone alato (il dragone cinese), simile al Dagan/Posidone Uranio come raffigurato nel pittogramma n° 50 del sillabario filisteo del -XIV sec. Dagan, il dio dell’Occidente, lo troviamo venerato nel Paese Superiore, in Alta Siria (cioè nella Naharina, “Regione dei fiumi”,  e nella media valle dell’Eufrate) già nel III millennio, mentre il “biscione” gallico *vo-bera era dapprima il dio dei Fomoire sull’Atlantico  e dunque risalirà ancora al III millennio (cf. F. Le Roux, C.-J. Guyonvarc’h, I Druidi, ECIG, seconda ed. 2000, p. 503, voce Fomoire). Questo fu certo il dio più antico del mio modello interpretativo della Civiltà (quella che appare nel -3000) dall’Oriente all’Occidente, un dio acquatico ma anche celeste, uranio e soprattutto solare. Anche Menes, fondatore della prima dinastia egizia intorno al -3000, prendeva il nome regale di Nar-mer “L’amato di Nar”, dal pesce siluro Heterobranchus, Nar, mentre poneva il suo nome e il suo palazzo sotto la protezione di Hathor, la « Grande mucca celeste che creò il mondo e il sole »,  che ci rammenta la vacca sacra che cammina imperturbabile nelle strade dell’India odierna. Dopo aver teorizzato questo dio buono  ed aver intravisto lucidamente l’ipotesi delle guerre spaziali, posso riferirlo alla civiltà degli esseri guidati da  Oannes (raffigurati come uomini pesce; evidentemente uomini veri e propri, sia pure di altri mondi, con un vestiario da sommozzatori che ai primitivi  ricordava vagamente quello di un pesce; essi vivevano in sottomarini ovviamente nucleari tipo quello in cui entrò il profeta Giona), i primi civilizzatori dell’umanità, di cui parla Beroso, sacerdote del dio Bel/Marduk del tempo di Alessandro Magno, nei suoi Babyloniakà (Storia babilonese). Purtroppo di Beroso non ho conoscenza diretta (pur avendolo ricercato in libreria; se avessi l’istituto tutto sarebbe più facile), per cui devo affidarmi alle mie  fonti (fra cui anche Roberto Pinotti, I messaggeri del cielo, Oscar Mondadori, 2002, p. 139). Questo e i suoi uomini sarebbero apparsi uscendo dal Mare Eritreo, dall’Oceano Indiano, dirigendosi verso la Mesopotamia e l’Egitto (Memfi) dove avrebbero istruito alla civiltà le relative popolazioni. Costoro « stavano fra gli uomini, senza mangiare, per dare cognizioni di lettere, di scienze, di metallurgia, di arti, di come innalzare templi, edificare città, istituire leggi, fissare i limiti dei campi con sicure regole, seminare, raccogliere grani e frutti; in una parola per insegnare tutto quanto poteva contribuire a raddolcire i costumi. Al tramontare del Sole se ne tornavano in mare per trascorrere la notte sotto le acque nel proprio ‘vascello’ » (Il giornale dei Misteri, agosto 1989, n° 214, p. 10). Questo è quanto ci è pervenuto dai frammenti dell’opera di Beroso che avrebbe promesso di rivelare il loro grande segreto.   Ovvio che un Paradiso terrestre  vedesse questo dio-pesce  come protagonista ormai ambientato sulla terraferma, nell’estremo Oriente, ovviamente. Là dove si trovava il « giardino delle Esperidi… sul monte di Atlante, nel paese degli Iperborei… Lo custodiva un drago immortale, figlio di Tifone e di Echidna, che aveva cento teste e sapeva parlare con le voci più diverse e variegate. » (Apollodoro, Biblioteca, 2,5) Secondo Esiodo (Teog. 517-8): « Atlante il cielo ampio sostiene, a ciò costretto da forte necessità, ai confini della terra, di fronte alle Esperidi dal canto sonoro ». Cosa custodisse il drago ci aiuta a capirlo Diodoro (V,27): « Nella regione chiamata Espertide dicono che ci fossero due fratelli [Atlante ed Espero] celebrati dalla fama. Essi avevano pecore d’eccezionale bellezza, di colore giallo dorato: per questo motivo i poeti, che definiscono le pecore “mela”, le chiamano “mela d’oro”. » Dunque le mele o pomi d’oro non c’entrano nulla. C’entrano invece, ma accessoriamente, le pecore. Nella Steppa dell’Eden, di cui era signore il Serpente/Dragone Tifone, l’intruso Yahweh fabbricò per Adamo ed Eva, scopertisi nudi dopo la violazione del divieto di accoppiarsi sessualmente, « tuniche di pelli e li vestì. » (Genesi, 3,21) Il fatto è che il vello delle pecore serviva a trattenere le pagliuzze d’oro dai fiumi delle zone aurifere. E’ l’oro che da sempre fa girare il mondo. La storia è prima di tutto economia, come ha compreso Marx. Il Paradiso Terrestre originario, quello abramitico ovvero mongolico,  era dalle parti dello Hwang Ho “Fiume Giallo”, dove sorse (media e bassa valle del Hwang Ho) una grande antica civiltà. La Via Scitica passava anche attraverso la Siberia ricca d’oro  e presso gli Altai (turco: I Monti dell’Oro), come ci dice J. Innes Miller. Gli indeuropei trasporteranno con sé nella loro diaspora il Giardino, e lo collocheranno nel Caucaso e in Armenia dove il dragone celeste (del dio Sole che vi regna) custodisce il Vello d’oro. Poi la diaspora degli indeuropei yahweisti (provenienti  dal Mar Nero) vedrà in quel Giardino col Serpente l’Inferno di Circe, e, giungendo fino agli estremi confini occidentali collocherà in Sardegna il Purgatorio di Calipso (i yahweisti vedono ovunque l’inferno) mentre i filistei adoratori di Dagon/Posidone Uranio avevano già portato sul litorale laziale il Paradiso di Nausikáa “Ausiliatrice dei marinai”. Esiodo, alla fine della Teogonia,  definirà tutta l’area italica “isole sacre” dei Tirreni.  Il Giardino delle Esperidi originario (prima che migrasse) era ad Oriente, tant’è vero che Eracle attraversa l’Arabia, poi passa in Libia, da Oriente a Occidente, sale sulla coppa del Sole nel “mare esterno”, naviga in senso orario e approda ovviamente in Asia, giunge al Caucaso dove parla con Prometeo e prosegue per il giardino delle Esperidi (Apollodoro, Biblioteca 2,5, verso la fine). Dunque chi afferma che il giardino delle Esperidi è ad Occidente non ha capito nulla. 

 

 

Sulla destra la regione degli Arimaspi, dove risiedeva Tifone, e degli Iperborei, a nord del Fiume Giallo. La lingua  degli Han, il cinese, ha conservato il nome originario di Tifone, Tái-fēng. Nella cartina è indicata la via degli Sciti lungo la quale nei secoli VII e VI a.C.  dagli Iperborei sul Mar Giallo, passando di mano in mano per successive tribù di Sciti, perveniva a Delo l’oro: « E’ questo un fatto importante, che fa da sfondo alle vie e alle relazioni commerciali tra la Cina e il Mediterraneo in epoca romana. Erodoto, riassumendo l’Arimaspea [di Aristea di Proconneso, il greco che disse d’aver compiuto egli stesso il viaggio per ispirazione d’Apollo], dà una descrizione della strada, confermata da Tolomeo [nell’ottava mappa dell’Asia, Scizia oltre il Monte Imaus (cioè il Pamir), edizione di Roma del 1478; la pubblico più sotto]: la strada, provenendo dalle vicinanze del Lop Nor e dei Monti Altai, superava gli Urali meridionali e giungeva alla foce del Don. Nessun dubbio che la sua estremità orientale fosse in comunicazione col commercio della Cina settentrionale, dove la seta si pagava con eguale peso in oro, e che all’oro portato in Occidente si accompagnassero, insieme alla seta, anche spezie quali lo zenzero. » (J. Innes Miller, Roma e la via delle spezie, Saggi Einaudi, 1974, p. 139) Mi pare che conseguenza di questa identificazione sia che i grifoni etruschi e similari, nonché il dragone, vessillo del germanizzato esercito romano del tardo impero, sono derivazioni del drago cinese.

 

La nostra civiltà è da tempo incentrata sulla Bibbia (specie dopo l’invenzione della stampa da parte di Gutemberg, che ha consentito a Lutero la sua vittoria e anche quella del libero pensiero anglosassone), ed è soprattutto per stimolo della Bibbia che sono partite le spedizioni archeologiche nella “Mezzaluna fertile”. Così, sia per colpa della Bibbia stessa, che vede il mondo concentrato in Occidente e Medio Oriente (dove si espande la discendenza del figli di Noè, Giafet/Giapeto, capostipite degli indeuropei, Sem dei semiti e Cam dei neri), sia per l’importanza stessa e l’antichità dei ritrovamenti archeologici, si ritiene che i primi uomini devono essere  nati in Africa, e la civiltà in Mesopotamia, e per l’indeuropeo si tende ad immaginare un’origine non troppo lontana dalla Mezzaluna fertile. In realtà la Bibba è un lavoro recente che affonda i suoi ricordi  nell’età degli Hyksos, ma soprattutto tendenzioso, perché è stata rimaneggiata e dunque porta l’imprimatur finale dei sacerdoti yahweisti del Secondo Tempio, che vogliono dimostrare l’indimostrabile, l’esistenza di una razza semitica (da cui deriverebbero gli Ebrei) distinta da quella bianca dei Japetici (mentre noi sappiamo che indeuropei e semiti sono entrambi di razza bianca) e nera dei Camiti, ignorando quella gialla. Questa razza gialla era ovviamente presa in considerazione dalla redazione di Genesi dei sacerdoti abramitici del Primo Tempio di Gerusalemme, e quanto meno faceva capo ad  Abramo/Khayan l’hyksos, ovvero il penultimo faraone discendente dei faraoni e dei  nomadi capi pastori mongolidi venuti dalle steppe dell’Asia centrale. Dunque la Bibbia, divenuta ormai un prodotto yahweista, prende Abramo ma ne fa un ebreo, discendente da un inesistente Eber, discendente da un altrettanto inesistente Sem, come Romolo nasce da Roma. E poiché la razza mongolica degli Hyksos era acerrima nemica del culto di Yahweh, la redazione yahweista prende due piccioni con una fava, elimina la razza gialla e al suo posto mette l’inesistente razza semitica. Ma, eliminata dalla discendenza di Noè, la razza gialla mantiene il suo primato, perché Noè discende da Set (il figlio avuto da Adamo ed Eva dopo la morte di Abele; dunque semmai, secondo i redattori abramitici di Genesi, le prime due razze umane sono quella nera prima (da Caino) e quella gialla poi (da Set), mentre i bianchi verranno poi; e io condivido questa ipotesi,  del resto logica; noto che i neri sono al di sotto del Tropico del Cancro, dove, nella foresta equatoriale,  vivono le scimmie, per cui, derivando l’uomo dalla scimmia,  è originariamente nero di pelle; l’uomo nero è stato il primo ad entrare nel neolitico e dunque a fare la grande scoperta dell’agricoltura, dunque della sedentarietà, dunque della civiltà, ma per me i primi neri entrati nella civiltà sono  gli australoidi  estremo-orientali), e Seth era il nome del dio con cui veniva identificato nel Levante il dio di Abramo, di stirpe mongolica, come ci dice Martin Bernal. Poiché Adamo ed Eva furono cacciati a oriente dell’Eden (e dio sbarrò l’accesso a Eden proprio da oriente, Genesi 3,23-24),  Caino visse a oriente della Steppa, e Set fu generato a oriente della Steppa, dunque   la civiltà per i sacerdoti abramitici viene dall’Asia. « Anche a Set nacque un figlio, che egli chiamò Enos. Allora si cominciò ad invocare il nome del Signore [il testo yahweista dice falsamente Yahweh; in realtà se Enos ha per primo venerato un dio unico questo è il dio mongolico di Abramo] » (Genesi 4,26). Giustamente i Padri della Chiesa videro nei figli degli  Elohim i discendenti di Set  e nei figli degli uomini i discendenti di Caino (le vallindie nere), in quanto appunto i mongolidi delle steppe dell’Asia centrale furono i primi creatori della religione del dio unico, e ci vuol poco a capire che ciò gli venne suggerito dalle sconfinate  steppe e dai deserti coperti sempre e solo da un cielo incombente, signore di tutto, cui era possibile solo una sottomissione incondizionata, la stessa che gli islamici mostrano nei confronti del loro dio. L’incombenza di questo dio del Cielo che poi al dunque è Tifone, la si vede dalla Cina alla Germania, come dalla Cina all’Europa centrale troviamo le tracce dell’antico sacrificio della vedova (dei cavalli, degli schiavi ecc.) sulla tomba del capo defunto. Tutti elementi che derivano dai nomadi mongolidi dell’Asia centrale. Viceversa l’uomo nero aveva ereditato dalla scimmia della foresta della fascia equatoriale, piena di vita lussureggiante e di suoni e rumori di ogni genere, l’idea che ogni cosa avesse un’anima, da cui l’animismo e poi il politeismo delle antiche civiltà agricole. Così la Bibbia rivisitata dai yahweisti e la tradizione greca che ne deriva collocano il Paradiso terrestre in Armenia (dove nascono due dei quattro fiumi dell’Eden – che però significa “Steppa” –, il Tigri e l’Eufrate, e dove era il Serpente che avrebbe traviato Eva e di conseguenza Adamo facendogli mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, quella che alla fine, giustamente, è diventata nella tradizione comune la mela, o pomo della discordia, il frutto proibito dell’amore sessuale, proibito per il solito generale ribelle e invertito) o nel Caucaso (dove era il bosco sacro del Sole e la quercia con appeso il Vello d’oro custodito da un drago). Anche in questo caso la tradizione è emigrata dall’estremo Oriente all’Occidente. Da notare che il Caucaso (e l’Armenia) è la regione dove un tempo sarebbero stati stanziati gli Ittiti. In realtà si tratta di Hurriti che poi si imposero sugli Ittiti e sono chiamati Ittiti dalla popolazione preesistente. Si tratta dunque di tradizioni hurrite, cioè degli Hyksos “capitribù degli altipiani stranieri” che nel XVIII secolo, dopo l’olocausto nucleare di Mohenjo-Daro da parte degli “Angeli” di Yahweh (causa del rapido declino e morte della civiltà vallindia) si posero alla guida delle popolazioni in fuga e le guidarono fino al Levante, all’Egitto, a Creta, dove  daranno vita ai secondi palazzi. La sfinge si diffonde a partire dagli Hyksos e prosegue fino alla XVIII dinastia all’interno della quale la regina Teye, moglie di Amenofi III/Radamanto, e madre di Amenofi IV, è rappresentata in figura di sfinge femminile, “siriana”. Ciò dipende dal fatto che la XVIII dinastia a mio avviso è imparentata con quella degli Hyksos per via hurrita e filistea (greca), per cui diverse mogli di faraoni e i faraoni stessi di queste dinastie sono hurrite o filisteo-pelasgiche e la tradizione le farà provenire dalla Colchide, come Tuya/Pasifae moglie del visir Yuya/Minosse dai quali nacque Teye. Anche la Sfinge era considerata figlia di Tifone ed Echidna. Gli Hyksos  si portano dietro gli indeuropei della stessa valle dell’Indo e di altra provenienza, sia neri di pelle (da essi discendono il maryannu e strapotente visir Yuya, sua moglie Tuya e la loro figlia Teye, che hanno i capelli biondi) che bianchi. Il cavallo e il cocchio (e altre armi innovative di bronzo, l’arco asiatico, e le fortificazioni) sono introdotti in Egitto dagli Hyksos via Hurriti e Vallindi (il Testo di Kikkuli, il più antico trattato di addestramento dei cavalli da carro leggero è scritto in indiano dall’hurrita Kikkuli,  Johannes Lehmann, Gli Ittiti, Garzanti, pp. 201-202), che dunque conoscevano sia il cavallo sia il carro, sia la ruota. Così ritroviamo nel Levante e a Creta insieme agli Hyksos, anche gli indeuropei che avranno nome di Filistei e poi, migrando più a Occidente, di Pelasgi, adoratori, non a caso del dio Posidone Uranio filisteo portatosi dietro dalla valle dell’Indo (il pesce è di gran lunga il più diffuso segno della scrittura vallindia, e ciò, in una civiltà fluviale e marinara deve pur dire qualcosa), ma che ritrovarono anche in Siria dove dapprima  si stabilirono guidati dai mongolidi Hyksos. Gli Hyksos veneravano un dio della stessa genesi di Posidone Uranio filisteo e che ad esso si era sovrapposto in quanto erano gli Hyksos a dominare, il dragone  Tifone che scopa la steppa (e perciò immaginato coi “piedi instancabili”, Esiodo, Teogonia, 824) e che gli Egizi identificarono col malvagio Seth che aveva ucciso il buon Osiride. Disgraziatamente furono gli Egizi per primi (e soprattutto Esiodo per il mondo occidentale) a dare un’immagine negativa  di Tifone solo perché gli Hyksos, che gli egittologi ci assicurano essere tutt’altro che  feroci dominatori, avevano osato dominare nel sacro Egitto.

 

Nella cartina sono evidenziate Harappa nel Panjab, “pianura  dei cinque fiumi”, e Mohenjo-daro nel Sind.

 

Da tempo mi sono fatto l’idea che la civiltà della valle dell’Indo (identificata con Meluhha), per brevità vallindia, la più estesa civiltà dei tempi antichi, sia stata se non  la culla dell’indeuropeo almeno della civiltà occidentale. Se consideriamo Creta, terra di Minosse figlio di Europa, culla della civiltà occidentale, ebbene, secondo me, la civiltà cretese dei secondi palazzi  e la stessa civiltà celtica derivano dalla civiltà vallindia. Ci sono infiniti punti di contatto fra la civiltà vallindia e Creta, dal culto del toro all’altare con le doppie corna, dalle canalizzazioni ad alcuni segni della scrittura pittografica (e perfino alla fonetica).

 

Il calderone di Gundestrup, in argento sbalzato, del peso di circa 9 kg, 69 cm di diametro e 42 di altezza, il più bel capolavoro dell’arte celtica, fu rinvenuto in frammenti nel 1891 in una torbiera danese ma verisimilmente è stato fabbricato nel -I o -II secolo  in un’area a occidente del Mar Nero. Raffigura delle divinità fra cui quella che identifico come la paredra di Taranis celtico (Tarania, anche in sanscrito, dell’Apoteosi di Radamanto), in veste di valchiria e posa da sirenetta, con le due corna lunari e la ruota cosmica, e presenta numerosi elementi di derivazione indiana come l’elefante  e gli unicorni  predominanti sui sigilli della valle dell’Indo. Sempre nell’Apoteosi di Radamanto ϝίδρις è connesso col sanscrito veda.

 

Entrambe hanno una civiltà moderna, che ci appare come già pianificata da una mente superiore, soprattutto se guardiamo all’abbigliamento femminile i cui stilisti sembrano voler fare concorrenza a quelli che  presentano i loro capi alle sfilate parigine. Sono dirette da una casta che domina in modo apparentemente democratico senza l’uso  della forza su una popolazione fondamentalmente fluviale e marinara. In concomitanza col fatto che la civiltà vallindia declina e muore, nel corso dell’XVIII secolo, a Creta compare la civiltà dei Filistei di lingua indeuropea. Attraverso il disco di Vladikavkaz la scrittura  si ricollega alla Colchide da cui proveniva Pasifae moglie di Minosse. Ma il sanscrito suggerisce il suo stretto rapporto col greco (dunque di nuovo il filisteo) che si è staccato dall’indo-ario intorno al -2000, dicono gli studiosi, secondo me nel XVIII secolo. Portandosi più a oriente le origini del greco e della civiltà filistea possiamo adesso riallacciarla alla civiltà della valle dell’Indo. Così ci appare un quadro sorprendente, che già avevo intuito in altro lavoro, quello dell’origine vallindia della tradizione delle città morte del Mar Morto. La nostra civiltà occidentale, e vi ricomprendo a questo punto anche il Levante, ricordava pochissimo del suo passato indeuropeo, ma ricordava: « L’episodio di Lot, preavvertito dalla visita di due stranieri, poi rivelatisi Angeli, della decisione di Dio di voler distruggere le perverse città della Pentapoli del Mar Morto, presenta alcuni punti di contatto con la narrazione del Rāmāyana (Uttara Kanda) che narra la distruzione del regno di Danda nella valle dell’Indo, identificato da David Davenport con Mohenjo-Daro: entrambe le regioni, la Pentapoli del Mar Morto (con la città di Sodoma, Gomorra, Adama, Zoar e Zeboim) e la valle dell’Indo, vengono “incenerite”; in entrambi i casi qualcuno, preavvertito, evacua la zona e si salva (la famiglia di Lot e i seguaci di Bhargava); e infine in entrambe le situazioni il provvedimento punitivo, già nell’aria, viene deciso senza ulteriori tentennamenti in conseguenza di un reato simile: la violenza subita dalla figlia di Bhargava, Araga, nella valle dell’Indo e la tentata violenza dei Sodomiti contro i due Angeli in visita a Lot (Genesi 19). » (Roberto Pinotti, I messaggeri del cielo, Nuovi Misteri, Oscar Mondadori, 2002, pp. 150-151) Il luogo originario dove avvennero realmente i fatti fu  la valle dell’Indo e gli indeuropei al seguito dei mongolidi Hyksos ne portarono la tradizione in Occidente, da dove poi fu portata  dagli Sherdana e dai Danai/Daniti della valle del Don (e più in generale di tutta la regione  ad est e a nord del Mar Nero i cui fiumi hanno per lo più questa radice dan-/don-), adoratori di *dye/ow- (cioè Yahweh, Zeus, Giovè, è sempre la stessa cosa), in  Palestina quando la invasero nel -XIII-XII secolo.  Anche Omero ricordava, all’inizio dell’Odissea  (1,24), gli Etiopi del sole che sorge, cioè i Vallindi,  e nella tradizione riguardante la guerra di Troia Memnone, venuto a combattere a fianco dei Troiani e contro i Greci, era principe degli Etiopi orientali (ci dice Fausto Codino). La stessa madre di Memnone dei Greci, cioè Amenofi IV, Teye, era considerata  etiope (dunque  vallindia). Gli antenati della XVIII dinastia, i faraoni e le regine della XVII, erano venerati come “Signori dell’Occidente” e in particolare Ahmose-Nofreteroi, moglie di Ahmose, era rappresentata col volto nero o blu. Gli egittologi non se lo spiegano, mentre se questo fosse stato un modo per evidenziarne l’origine vallindia, lo spiegherebbe. Il profeta Amos fa riferimento all’esodo degli Etiopi (9,7) probabilmente riferendosi ai Vallindi. E anche Erodoto parla dell’arrivo dei Fenici dal Mare Eritreo, che comprende l’Oceano indiano (Storie, 1,1; 2,44; 7,89). La data è esageratamente alta, -2750 (magari si tratta del -1750, e ci possiamo stare; del resto analogamente esageratamente alta è la datazione dell’inabissamento di Atlantide come causa del movimento dei popoli del mare e di terra del XIII-XII secolo), e mi chiedo se più che i Fenici non si tratti dei rossi e neri indeuropei Filistei, di cultura vagamente asiatica, venuti a occidente cogli Hyksos al tempo della fine della civiltà  vallindia.  In Omero ci sono accenni anche ai pigmei e alla loro guerra contro le gru al cui grido di guerra è paragonato quello dei Troiani (Il. 3,1-7), che mi fanno pensare ad un’origine tropicale di questa storia, tropicale come la valle dell’Indo. Ed è significativo forse che gli Etiopi orientali siano vestiti come ci si potrebbero immaginare i guerrieri sotto Troia, con  « sul capo  pelli dalla fronte dei cavalli, con orecchie e criniera; la criniera fungeva da cimiero, mentre le orecchie del cavallo stavano ritte e rigide. Per difesa, invece di scudi, usavano pelli di gru. » (Erodoto, 7,70) A conferma dell’origine asiatica della tradizione originaria dell’olocausto si ricorderà l’intervento delle Amazzoni scitiche a difesa di Troia. Mi chiedo se la saga di Troia (a parte tutto ciò che ho scritto su Albalonga, la Troia ideale, e sull’effettivo stato conflittuale nella Troade prima che Troia fosse distrutta da genti tracie al tempo del movimento dei popoli del mare e di terra) non sia costruita su immagini che provengono dalla distruzione di Mohenjo-Daro e dalla conseguente distruzione della civiltà vallindia da parte dei distruttori  extraterrestri di Yahweh che fecero uso dell’olocausto nucleare introducendolo come nozione nella cultura umana, prima l’olocausto, poi l’olocausto nucleare americano (il popolo della Bibbia, il popolo prediletto da Yahweh, così gli Statunitensi, in maggioranza, pensano di sé stessi; dunque  non è un caso che i Russi atei siano andati per primi nello spazio) su Hiroshima e Nagasaki. Naturalmente se qualcuno riuscirà a spiegare in modo “normale” la distruzione di Mohenjo-Daro verrà meno l’ipotesi extraterrestre, restando intatto tutto il resto. Il parallelo fra le storie della violenza  fatta ad Araga e alla concubina del levita di Efraim/angeli di Yahweh potrebbe farsi anche con la distruzione (olocausto) di Troia causata dalla violenza fatta da Paride all’onore di Menelao. Gli  Hyksos, che  ovviamente non  si fermarono sul posto ma proseguirono la loro marcia, il loro esodo, verso occidente, non sarebbero stati capaci con le loro armi di cuocere come fu cotta Mohenjo-Daro. Purtroppo non sono riuscito a trovare in commercio il lavoro di David Davenport (cittadino britannico nato in India e studioso di sanscrito) e Ettore Vincenti (giornalista italiano), 2000 a.C.: distruzione atomica, Sugarco editore, Milano, ma ne ho succintamente il contenuto da altre fonti. Nel Ramayana (Uttara Kanda, cap. 81) « si parla di un rishi (un «sapiente») che, adirato contro gli abitanti di una città chiamata Lanka, dà un preavviso di sette giorni; al termine dei quali promette «una calamità, che cadrà come fuoco dal cielo». Ebbene: testo sacro alla mano, i due si sono recati in India per identificare questa Sodoma orientale. Davenport e Vincenti ritengono… di aver identificato l’antica Lanka («isola») nella città di Mohenjo-Daro, centro della «civiltà di Harappa», fiorita (e improvvisamente estinta) attorno al 2000 avanti Cristo. Mohenjo-Daro, nome moderno (significa «luogo della morte») era chiamata qualche secolo fa «isola» (Lanka), perché era circondata da un braccio secondario del fiume Indo, oggi prosciugato. Gli scavi archeologici… hanno messo in luce una realtà misteriosa e sconvolgente. «Gli ultimi abitanti di Mohenjo-Daro sono periti di una morte subitanea e violenta», ha scritto l’archeologo Sir Mortimer Wheeler. Nelle macerie della città sono stati ritrovati 43 scheletri (evidentemente il grosso della popolazione aveva fatto in tempo a sfollare): si tratta di persone colte da una morte istantanea mentre attendevano alle loro faccende. Una famigliola composta da padre, madre e un bambino, è stata trovata in una strada, schiacciata al suolo mentre camminava tranquillamente. «Non si tratta di sepolture regolari», ha scritto l’archeologo John Marshall, «ma probabilmente del risultato di una tragedia la cui natura esatta non sarà mai nota». Un’incursione di nemici è esclusa, perché i corpi non presentano ferite da arma bianca. In compenso, come ha scritto l’antropologo indiano Guha, «si trovano segni di calcinazione su alcuni degli scheletri. E’ difficile spiegare questa calcinazione…». Tanto più che gli scheletri calcinati sembrano meglio conservati degli altri. » (Il giornale dei Misteri, agosto 1989, n° 214, pp. 50-51). Secondo Davenport e Vincenti «L’antica Lanka è stata spazzata via da una esplosione assimilabile ad una deflagrazione nucleare». Le prove? «Abbiamo individuato chiaramente sul posto l’epicentro dell’esplosione», spiega Davenport. «E’ una zona coperta da detriti anneriti, resti di manufatti d’argilla. Abbiamo fatto esaminare alcuni di questi detriti presso l’Istituto di Mineralogia dell’Università di Roma: risulta che l’argilla è stata sottoposta ad una temperatura altissima, più di 1.500 gradi, per qualche frazione di secondo.  C’è stato un inizio di fusione subito interrotta… Inoltre, le case dell’antica città sono state danneggiate con tanto minor gravità, quanto più sono lontane dall’epicentro. Nei pressi dello scoppio, gli edifici… sono stati rasi al suolo. Un po’ più lontano restano muretti alti un metro e mezzo; nei punti più lontani della città le mura rimaste in piedi superano i tre metri»… «L’ipotesi che il disastro sia stato provocato da un’esplosione di tipo nucleare», dice Ettore Vincenti, «è rafforzato da una leggenda che abbiamo raccolto da un abitante del luogo. Egli ci ha raccontato che ‘i signori del cielo, adirati con gli abitanti dell’antico regno dove ora c’è il deserto, hanno annientato la città con una luce che brillava come mille soli e che mandava il rombo di diecimila tuoni. Da allora chi si arrischia ad avventurarsi nei luoghi distrutti viene aggredito da spiriti cattivi che lo fanno morire’». (Il giornale dei Misteri, agosto 1989, n° 214, p. 51)

 

Il sanscrito (meglio, un antenato del sanscrito), che, ci scommetto, è alla base della lingua e della scrittura (corsiva) vallindie (e secondo me la civiltà indù è la continuazione di quella vallindia), deriva dall’indeuropeizzazione avvenuta millenni prima della fine dei siti vallindi. Qui troviamo già la Trimurti (anche i  Celti conoscono divinità con un solo corpo e tre teste, une e trine) costituita  da Brahma, Vishnu e Shiva rappresentati sia in forma animale che umana in posizione yoga e con le corna attributo degli animali stessi.

 

 

Il sigillo vallindio con la Trimurti, il dio uno e trino  Signore della valle dell’Indo in posizione yoga e col pene eretto, mi richiama  alla mente, oltre al Cernunno Signore degli Animali in posizione yoga sul celtico calderone di Gundestrup (foto sotto, più avanti), la parte frontale del sarcofago di Haghia Triada (sopra a destra) col sacrificio del Minotauro  commentato dalla seconda parte dell’Apoteosi di Radamanto. Il dio uomo-bufalo o il Minotauro rappresentante del dio (del faraone Amenofi III/Radamanto che dopo  morto è divenuto dio) sopra una panca o un altare  sotto i quali compaiono due stambecchi montani  dell’Himalaya o dell’Ida rappresentanti la duplice divinità madre.

 

 

Come civiltà acquatica la vallindia dovette venerare un dio pesce con attributi solari, cosmici, analogo all’antico Posidone Uranio. Il pesce è di gran lunga il segno più diffuso nelle iscrizioni vallindie e ciò deve pur significare qualcosa.  La prima incarnazione o avatara di Vishnu è il pesce. I seguaci di Vishnu portano sulla fronte  il tridente, che è quello  di Posidone Uranio. In una fase  successiva può essersi imposto, portato da immigrazioni indeuropee, il culto del dio-cervo (che troviamo fino al calderone di Gundestrup) e dello stambecco, e infine quello  di Vishnu/uro. Quando gli indeuropei al seguito di mongolidi affini ma precedenti agli Hyksos calarono millenni prima nella valle dell’Indo dai passi del Pamir portarono con se il culto del dio uro (Bos primigenius), il dio della tempesta che scopa la steppa, e questo dio fu rappresentato nella trinità come il precedente dio cervo (che ritroviamo presso i Celti del Danubio nel calderone di Gundestrup, anch’esso in posizione yoga) e stambecco (che troviamo sia nella valle dell’Indo che a Creta),  sostituendoli. Vishnu nella triade (si veda il sigillo vallindio considerato all’inizio di questo discorso) assunse l’aspetto di uro in posizione normale, in quanto dio preminente della conservazione, con davanti il filtro per la preparazione della bevanda soma (liquido fermentato, vino, birra, che troviamo in uso anche a  Creta e in Grecia e presso i Celti).

 

La coppa è il « sostituto ed equivalente del calderone della sovranità. Essa contiene la bevanda inebriante che procura l’ebbrezza e permette di accedere all’estasi del sacro. E’ anche la coppa della verità sulla quale non si può proferire una menzogna senza che si rompa. Infine essa è il prototipo e l’archetipo del Graal dei romanzi arturiani. » (F. Le Roux e Ch.-J.  Guyonvarc’h, I Druidi, ECIG, p. 482, voce coppa) Dunque anche i Celti conoscevano qualcosa come il soma/homa degli indeuropei dell’est. Sempre secondo il glossario di Le Roux e Guyonvarc’h (v. sacrificio), « I sacrifici di grandi animali (cavallo, toro) vanno connessi con la seconda funzione [ovvero la guerriera] per via dell’elezione regale; la libagione di un liquido fermentato (cfr. il soma vedico) è sicuramente correlata con la sfera della sovranità. » (op. cit. p. 537) Ne deriva che fra le feste celtiche quella sicuramente meglio correlata con la regalità e i banchetti e l’uso di bevande fermentate (« La carne di maiale e il vino, la birra e l’idromele danno accesso all’eternità. Si possono immaginare vivande più gradevoli, più sostanziose, anche se esse non sono altro che l’illusione di un attimo fuggente, mero riflesso di un’ebbrezza sacra? » op. cit. p. 318) sarà quella guerriera di samain a novembre, fine ed inizio dell’anno, quando è possibile il contatto fra gli umani e gli abitanti dell’Altro Mondo. La massima divinità dei Celti, Dagda (“dio buono” a fare tutto, onnipotente, onnisciente; RuadhRo-fhessa,  «il Rosso della scienza perfetta»; Dagan “piccolo buono”), è rappresentato (Cernunnus, Lug) in posizione yoga (come la Trimurti dei sigilli indiani) ed ha come attributi la mazza che uccide e resuscita, il calderone dell’abbondanza immortalità e resurrezione, e la ruota cosmica (che ha in comune con Taranis), quella che vediamo riprodotta frequentemente sui sigilli indiani.

 

Nel Rig Veda Indra beve il soma, ma poiché il Rig Veda corrisponde alla fase finale della civiltà della Valle dell’Indo il nostro uro dovrà rappresentare piuttosto Varuna che risulta bere il soma prima di Indra. In questi sigilli l’uro è così rappresentato con un solo corno visibile perché itifallico. Secondo Iravatham Mahadevan egli punta alla pressa del soma esprimendo così uno stato estatico che poteva essere raggiunto anche attraverso il sesso sacro (o prostituzione sacra) come è visibile in stele della civiltà della valle dell’Indo che raffigurano un toro che si congiunge con una sacerdotessa in uno hieros gamos. Analogamente la “Trimurti” che abbiamo considerato all’inizio in posizione yoga e ascetica ha tuttavia il pene eretto. Ciò premesso si comprende perché i tratti da gazzella dell’uro potrebbero essere, dice sempre Iravatham Mahadevan, la prefigurazione della religione  vedica dove la cerva nera diventa la rappresentazione per eccellenza della consacrata (Soma-)dîkshita, la forma theriomorfa assunta da Prajâpati per essere penetrata dalla freccia di Rudra nel preciso momento in cui spillava il suo seme lattiginoso dentro sua figlia la rosea Aurora. Così si esprime a proposito di Cernunnus François Le Roux in Le religioni dell’Europa centrale precristiana a cura di Puech BUL « E’ possibile che, a uno stadio ancora primitivo della suddivisione teologica, si tratti dell’equivalente del Plutone latino? Si è tentati di operare l’accostamento con il dio nero della radura nel racconto gallese di Owen e Lunet [“ilcavaliere dal leone”]: signore degli animali, egli colpisce in fronte un cervo con la sua clava di ferro. » (p. 107) Il dio nero della radura essendo il cervo è evidente l’equivalenza con la cerva nera.  Dagda il Rosso (Ruadh) è identificabile anche col biscione gallico (Dagan) e richiamato da Rudra (Rosso), nome dato anche a Indra e Varuṇa.

 

Il tempio di Lydney nel Gloucestershire dedicato a Nodons/Nuada “(re) dispensatore”, il cui epiteto è Airgetlam “dal braccio d’argento” (il che ci riporta a Lug “luminoso”, lámfota o lamfhada “dalle lunghe braccia” o “dal lungo braccio” o “dalla lunga mano”, cf. il prolungamento dovuto al serpente dalla testa di ariete che il dio cervo Cernunno del calderone di Gundestrup tiene nella mano sinistra, corrispondente ancora a quella di Savitar, il sole, che in un inno del Rigveda è detto prthupani “che ha una grande mano”, « il dio con la grande mano tende le braccia, e allora tutti obbediscono » RV 2, 38.2), era « un tempio terapeutico del tipo esculapiano e un santuario meta di pellegrinaggi… e comprendeva un lungo porticato simile a un chiostro, diviso in tanti scompartimenti intesi a ospitare gli ammalati; una costruzione, dotata di cortile, con altri appartamenti e una sala di ricevimento; e ampi bagni. » (Myles Dillon e Nora K. Chadwick, I regni dei Celti, n° 22 della collana Il Portolano de il Saggiatore, p. 198)

 

 

In tutti i sigilli l’unicorno compare normalmente con un solo corno e ciò non tanto perché l’altro è dietro e non si vede, quanto perché il corno  è la   personificazione fallica della divinità. E in effetti l’unicorno, eka ṡṛiṅga, è connesso con l’amore, la passione sessuale, o desiderio o gioia, il sentimento erotico, e ha Vishṇu, dio della vita, come sua divinità tutelare. Nei sigilli a carattere funerario, con l’altare delle doppie corna, l’uro viene sostituito  dal rinoceronte, anch’esso eka ṡṛiṅga. Non ho il corpus delle iscrizioni vallindie, ma suppongo che anche l’elefante e la tigre (raffigurati nel sigillo della Trimurti, dove ancora il rinoceronte sostituisce l’unicorno) possano comparire nei sigilli a carattere funebre. Credo che il rinoceronte e il bufalo acquatico siano gli animali rappresentanti delle caste superiori dei sacerdoti e dei principi latifondisti, mentre l’elefante e la tigre dovrebbero essere gli emblemi delle caste inferiori degli artigiani e  dei  guerrieri, che vengono per  ultimi, in una società pacifica.

 

Shiva quello di bufalo acquatico (l’animale indigeno), con la testa  abbassata sull’altare delle doppie corna, in quanto dio della trasformazione, morte e resurrezione (il toro Nandi è la cavalcatura di Shiva). Brahma con la  testa  di stambecco che si erge sopra quella di Vishnu  (mi riferisco alla trinità teriomorfa nel sigillo vallindio pubblicato all’inizio di questo discorso), e guarda indietro, rimase una divinità tanto importante in  quanto dio creatore quanto pochissimo venerata. E’ evidente che fu l’uro l’animale portato per ultimo nella valle dell’Indo dagli indeuropei invasori. L’uro lo troviamo ancora nei giochi sacri in cui si esibiscono i giovani cretesi, e cacciato  dai giovani germani che gareggiano ad ucciderne il maggior numero riportandone a prova le corna che, avvolti gli orli con argento, vengono impiegate come boccali nei festini estivi (De Bello gallico, 6,28).

L’uro (sulla sinistra all’interno del calderone di Gundestrup, mentre sulla destra è raffigurato Cernunno come Signore degli animali) doveva essere la manifestazione del dio Tifone perché Cesare ci dice anche che gli uri hanno  forza e velocità straordinarie. La tradizione greca negativa di Tifone come dio dei venti dannosi, in particolare la tempesta di vento caldo se non addirittura infuocato, affonda le sue radici, per quel che ne sappiamo finora, in  fonti itttite del XIII derivanti da originali hurriti del XVI sec. (Esiodo, Teogonia, BUR, p. 157; vedi le note relative alla Tifonomachia e l’Appendice in fondo al volumetto) il che ci porta, cogli Hurriti, ai vicini stretti degli Hyksos (in pratica agli stessi Hyksos) e dei mongolidi partiti dalle steppe centrali  dell’Asia agli estremi confini con la Cina. Nel XVIII secolo il mondo fu  collegato dall’estremo oriente all’occidente, perché Tifone, il dio degli Hyksos, è conservato nel cinese táifēng “tifone”. Il mio dizionario di cinese Viotti-Bonfanti non mi fornisce l’etimologia, che ricavo da solo: “vento degli altipiani”.

 

Leggo da Il Milione, De Agostini, Novara,  vol. VIII (1962), Regione cinese e indocinese, che « si ha nella Mongolia una zona caratterizzata nell’estate dalle più alte temperature e dalla più bassa pressione atmosferica (752 mm) e in inverno dalle più basse temperature e dalla più alta pressione (778 mm). Il vuoto di pressione relativa richiama grandi masse d’aria umida dall’Oceano Pacifico verso il continente, mentre invece l’alta pressione invernale scatena enormi masse d’aria secca dagli altopiani verso il mare. Questo alternarsi dei monsoni estivi del Sud-Est e di quelli invernali del Nord-Ovest divide praticamente l’anno nella regione cinese in due sole stagioni fondamentali: l’estate e l’inverno…  i venti estivi possono passare dalle velocità più moderate a quelle più distruttive. In questo caso abbiamo i tifoni… che ogni anno, da maggio a settembre, provenendo dalle isole Marianne e Caroline nel centro del Pacifico, si scatenano contro le coste cinesi… I tifoni sono masse d’aria d’estrema umidità che si innalzano a spirale fino all’altezza di parecchi chilometri attorno ad un vortice di diametro doppio o triplo. Entro il vortice la pressione cade sovente al di sotto dei 660 mm e attorno ad esso i venti turbinano a una velocità che può superare i 250 km orari, e la caduta di pioggia è tanto massiccia e violenta da raggiungere pressioni tra i 4 ed i 5 kg per dmq… Quando il tifone giunge sul continente, mancando dell’umidità di cui si alimenta sul mare, nel raggio di qualche centinaio di chilometri si estingue. Un’importanza notevole hanno, in rapporto all’influenza dei venti, i rilievi montuosi…  La Mongolia ha un massimo di ore d’insolazione superiore alle 3000 [è la più soleggiata della regione]  Il ciclone monsonico è anche il determinante principale della periodicità delle precipitazioni. Nella regione cinese l’estate è piovosa, l’inverno è secco. » (pp. 6-8)

 

Più che i venti forti, che del resto si esauriscono appena uscito dal mare che lo alimenta, il tifone porta l’umidità e la pioggia e dunque la fertilità della terra. Tifone è un dio benefico che scopa la terra e la rende fertile. Attraverso i passi fra gli altipiani del Pamir (il Tetto del Mondo)  i popoli nomadi mongolidi da soli o poi seguiti dai bianchi e neri indeuropei  sono scesi in più ondate nella valle dell’Indo, l’ultima volta dietro al loro dio uro signore dei venti buoni e della fertilità. Dunque a seconda delle tradizioni troveremo Tifone venerato sia sotto forma di dragone (tradizione più antica) che sotto forma di uro (tradizione più recente).

 

 

Alla sinistra gli altipiani del Pamir (fra Turkmenistan Occidentale e Orientale o Sinkiang –  repubblica autonoma cinese di lingua turca –  dove è il deserto del Taklamakan, fra le Montagne Celesti, Tien Shan, a nord e il Tibet a sud) dai cui passi avvenne l’indeuropeizzazione della valle dell’Indo. Sulle  Montagne Celesti secondo me verisimilmente era il paradiso terrestre della civiltà vallindia. Sui  bordi settentrionali del Taklamakan, lungo cui passava la Via della Seta (villaggi di Zagunluq,    Wupu, Charwigal, ecc., presso oasi che in genere si trovano a due-tre giorni di marcia una dall’altra) – ma i popoli antichi si sono aperti una via lungo queste oasi da 10000 anni –  sono state recuperate mummie di individui di razza bianca, risalenti anche a 3800 anni fa, alcuni tatuati e ben curati (le donne perfino truccate con cosmetici e vanitose e sciamane, poiché si sono trovati degli specchi), che vivevano presumibilmente di agricoltura, pastorizia, artigianato di vario genere e di notevole livello, dalla lavorazione del cuoio e dei metalli, a quella della pietra, dell’osso, del legno e della lana (tinta con le più varie colorazioni), commerciando (non erano razziatori perché non sono state trovate in genere armi nelle loro tombe eccetto stupendi archi ricurvi e frecce adatte per la caccia di piccole prede) prodotti – perfino conchiglie di ciprea – che arrivavano da un estremo all’altro del Continente. Conoscevano il cavallo, la ruota e il carro. Secondo Fernand Braudel « furono gli agricoltori sedentari ad addomesticare gli animali di grossa taglia, il bue, poi il cavallo, e organizzare un’economia mista in cui il secondo tipo di nomadismo [il grande nomadismo] sarà soltanto un sottoprodotto. Dato che l’allevamento, nelle steppe, poteva sempre svilupparsi su vasta scala, serviva da via d’uscita per i popoli sedentari ogni volta che un cattivo raccolto, la siccità o il numero eccessivo di bocche da sfamare rendevano difficile la vita dei villaggi. Gruppi di uomini si sono così visti respingere verso un’economia squilibrata, incerta, e da allora vengono travolti da una valanga di necessità. Occorreva utilizzare diversi pascoli in successione, secondo le stagioni: per seguire il bestiame, le case si trasformarono in capanne, tende o carri pieni di bagagli, di donne e bambini. Questo modo di vivere rimase però precario: la siccità, un colpo di sfortuna nel disputarsi i pascoli, l’eccesso di popolazione, scambi senza successo sui mercati ai confini dei paesi sedentari – ed ecco il panico, l’esplosione, l’invasione delle terre coltivate. » (Memorie del Mediterraneo, II ed. Tascabili Bompiani, 2005, p. 179) La Valle dell’Indo, abitata dai neri Dravidi, conosceva dunque certamente la ruota (nota del resto anche ai Sumeri) prima delle invasioni indeuropee alla metà del secondo millennio. Ancora secondo Braudel « tutti i deserti del Vecchio Mondo, così come i mari che li uniscono, formano un’unica massa continua di circolazione, dall’Atlantico fino alla Cina, dal Sahara all’Arabia, al deserto siriano, al Turkestan – che, seppure con difficoltà, raggiunge, attraverso la porta di Zhonghua, i deserti del Taklamakan e di Gobi e, più oltre, le praterie della Mongolia settentrionale e della Manciuria meridionale. La porta di Zhonghua segna anche, approssimativamente, la linea di demarcazione tra bianchi e mongolici. Ma ovunque, in questa immensa apertura che attraversa il Vecchio Mondo, l’uomo si ritrova di fronte agli stessi imperativi: la scarsità d’acqua, la scarsità d’erba, la necessità di continui spostamenti in massa. Infine, ha inventato ovunque, più o meno presto, le stesse risposte ingegnose e difficoltose, le stesse tecniche del nomadismo. » (op. cit. p. 178) Io preferisco vedere le cose da oriente a occidente  e notare come dai gialli vengono i bianchi, entrambi a nord dei neri.   Mongolidi e bianchi, più intraprendenti, perché la necessità aguzza l’ingegno, come dice Paperon de’ Paperoni, si imposero sui neri e li ricacciarono o li mantennero a sud del Tropico del Cancro. Queste vie commerciali e i passi attraverso il Pamir devono essere stati il luogo di incontro e fusione e diffusione delle tre razze da epoca antichissima. Leggo da Il Milione (vol. VII, L’Asia, Istituto Geografico De Agostini, 1965,  p. 448) che « tracce di questo tipo razziale [ariano] si ritrovano oggi  nel nord-ovest e nelle valli dell’alto bacino dell’Indo; nelle regioni più lontane da quest’area la fusione del tipo razziale indoeuropeo con le altre razze diventa sempre più larga. » e da Miller, anche se il dato si riferisce piuttosto all’età augustea, o comunque tarda, che « I corrieri che dal Turkestan orientale si dirigevano in India per il passo del Karakorum, del Kashmir ed altri, che portavano alla Valle dell’Indo, erano probabilmente indiani… Da Bactra, ossia dal Turkestan occidentale, all’India, attraverso l’Hindū Kush e lungo la valle del Kābul fino a Taxila, i corrieri dovevano essere di nuovo indiani… » (op. cit., p. 186) Le tre razze umane fondamentali  fu in Asia centrale che si formarono, dai neri australoidi differenziandosi  i gialli mongolidi e  i bianchi europoidi. Nel suo L’origine dell’uomo, Darwin scrive: « L’espansione dell’uomo in regioni molto lontane dal mare, senza dubbio, ha preceduto qualsiasi grande differenziazione di carattere nelle diverse razze; infatti altrimenti ci imbatteremmo nella stessa razza in diversi continenti, e questo non è mai avvenuto. » (Newton Compton ed., paperbacks saggi, quarta ed. 1977, p. 205) L’Asia centrale risponde in modo eccellente a questo requisito. Oltre agli indeuropei bianchi a nord (Iranici, Sciti, Sarmati,  Tocari), c’erano i neri Dravidi che parlavano indeuropeo della valle dell’Indo (la celebre danzatrice) e i mongoli già insediati come capi nella Vallindia (il celebre re-sacerdote).

 

 

 

 

In questo sigillo vallindio il dio Shiva si inchina davanti alla dea Párvati figlia dell’Himâlaya (un’egittizzante Hathor – una festa popolare dell’ “ebbrezza” veniva celebrata ogni anno a Denderah il ventesimo giorno del primo mese dell’inondazione – in alto a sinistra in mezzo a fiori di loto palustre (?) che compaiono come sottofondo anche nel calderone di Gundestrup (?),  nello scenario del paradiso del dio cervo Cernunno), nel Paradiso vallindio, forse sulle Montagne Celesti. Le sette fanciulle  potrebbero essere le sette Hathor (Ilizie preposte alle nascite), affini alle ninfe nutrici di Zeus sull’Ida e del dio della guerra Rudra/Skanda, il sole nascente e il nuovo anno,  o  le Pleiadi figlie di Atlante che sono connesse col periodo della navigazione. Questo sigillo ci fa comprendere che quello che appare nel calderone di Gundestrup come dio Cernunno, è prima ancora Dagda/Taranis nel suo aspetto di Manannan, dio del síd “pace” ovvero Altro Mondo cui nell’Apoteosi di Radamanto è legata appunto la dea lunare delle doppie corna Tarania (attestata proprio in sanscrito), la “Nave” dea dei Campi Elisi. Insomma, tutti i documenti di cui ci stiamo qui occupando dall’India a Creta alle Gallie, si riferiscono alla massima dea e al massimo dio (anche se visto in triplice forma) nel loro aspetto di divinità totalizzanti. 

 

Nel Taklamakan furono ritrovate sottili tavolette di legno scritte con la scrittura indiana karoshti ma in lingua tocaria cioè indeuropea (del gruppo centum). E’ più o meno da qui  che provengono anche gli “ittiti” (gruppo centum come i tocari!) poi stanziati nel Caucaso, dove trasferirono la preghiera al dio del sole che sorge dal mare (in origine l’Oceano Pacifico).   Ho idea che coloro che scrivevano il tocario con una scrittura indiana fossero in qualche modo discendenti di popolazioni che direttamente o indirettamente erano state a  contatto con gli abitanti della valle dell’Indo. Credo che costoro avessero una lingua indiana affine al sanscrito e la scrivessero con una scrittura pittografica da cui si è evoluto come scrittura corsiva il sanscrito. Dai miei studi risulta che la civiltà della valle dell’Indo ha forti analogie con la civiltà cretese di lingua pelasgica e perfino con quella celtica.  E non potrebbe avere analogie con la civiltà celtica se non fosse indeuropea. Se avessi il corpus delle iscrizioni tenterei di decifrare la scrittura della valle dell’Indo con il sanscrito classico, che, basato su un dialetto più orientale dell’Antico Indo-ario, preserva un originario indoeuropeo l, dove il dialetto del Rigveda (in comune con l’iranico) cambia questo suono in r. Così vedico raghú “veloce, leggero” e sanscrito classico laghu “leggero, agile” sono imparentati col greco elakhús. Il sanscrito ha otto casi contro i cinque del greco, così se la valle dell’Indo non fu la culla dell’indeuropeo fu comunque la culla della prima moderna civiltà indeuropea. Come via fra le tante possibili alla decifrazione catalogherei tutte le impronte di sigillo rinvenute in territoro indigeno  e straniero associabili al prodotto smerciato. Il nome di un dato prodotto potrebbe ricorrere in più impronte (non necessariamente identiche) aiutandoci a decifrare qualche segno.

 

 

Sosterrei  che i Tocari si siano fin dall’inizio attardati  là dove li troviamo. In un sito all’estremità « di una vallata dalla vegetazione lussureggiante in una zona poco elevata delle “Montagne Celesti” si leva uno spettacolare strapiombo alto cinquanta metri e più. L’erosione ha inciso stravaganti disegni sulla sua superficie, attribuendogli l’aspetto di un elaborato tempio. Alla base una sporgenza crea un ampio riparo di pietra e su quella liscia superficie rocciosa si trova un bassorilievo scolpito con una serie di figure di donne, uomini, bambini e animali. Le immagini sono molto stilizzate e si scorgono tracce di pittura rossa e bianca su talune di esse, a indicare come probabilmente fossero colorate quando vennero create circa 1000 anni prima di Cristo. Le figure femminili hanno tutte vitini di vespa e la maggior parte di esse porta una sorta di copricapo ornato da due penne orientate verso l’alto… Victor era stupefatto nel vederle. Si era da poco imbattuto in immagini quasi identiche su terraglie risalenti a circa 2000 anni prima di Cristo rinvenute negli scavi in Bulgaria e in Ucraina… Tutti noi avevamo l’impressione che fossero stati disegnati ispirandosi a modelli di stirpe caucasica, non mongolide. Perciò questi antichi nomadi erano anch’essi probabilmente di razza europea, come i loro vicini nelle oasi a bassa  quota. »  (Howard Reid, Il mistero delle mummie, Newton & Compton editori, 2005, p. 31)

 

Ormai ho esperienza della mania dei Greci di inventare nuove sedi (a loro uso e consumo) per le tradizioni, spesso non loro, di cui si appropriano. Ne parlo ancora a proposito delle tradizioni di origine levantina (bibliche) che dai Greci vengono  moltiplicate e ambientate in Grecia nelle tradizioni riguardanti i diversi regni. Secondo Omero il covo di Tifone era sui monti Àrimi (Il. 2,783), che io, grazie anche al lavoro di J. Innes Miller (Roma e la via delle spezie, Einaudi), che fa tesoro della cartografia di Tolomeo,  identifico con la sede  degli Arimaspi (Erodoto, 4,27), presso gli Iperborei, a nord del Fiume Giallo. Nella tradizione di Tifone/Tifeo è anche citato il Monte Casio (localizzato in Siria in base alla tarda tradizione trasferita a occidente). Miller riporta che  i Monti  Cassiani di Tolomeo sono identificati coi monti Kun-lun del Sinkiang presso la via della seta (p. 49), ed è dunque qui che io colloco l’originale tradizione di Tifone. E’ l’economia che muove il mondo. Da epoca remota esisteva uno scambio commerciale fra Sumer e l’India del nord e del sud. Così credo, sulla base di quanto scrive J. Innes Miller in “Roma e la via delle spezie”, che la cassia (cinese kwei-shi “ramo di cinnamomo”; secondo Bretschneider era inclusa nel più antico erbario cinese, quello dell’imperatore Shön-nung, circa -2700; per le province della cassia passava la strada da Ch’ang-an, allora capitale del Nord, al porto di Cattigara, nominato da Tolomeo, probabilmente vicino alla moderna Haiphong, nel sud, in Indocina) originaria dell’Indocina e largamente diffusa in Cina era esportata dai Khasi (di lingua mon-anam o mon-khmer) dell’Assam settentrionale. Così pure vi erano i Monti Cassiani (Kun Lun del Sinkiang) e la Regione Cassiana tra Auzacia/Irkeštam? e Kashgar. Lungo questa via  correva in origine il ramo meridionale della Via della Seta, la Nan-lun, su cui può anche essere stata trasportata la cassia della Cina. E’ pure possibile  che il nome dei monti, quello della regione  ed anche quello della stessa Kashgar derivino da questo fatto (pp. 46-50).  La battaglia fra *dye/ow-/Yahweh/Giovè/Zeus  signore della tempesta (ma anche della morte e della guerra, nonché della pestilenza) ultimo arrivato  e Tifone mongolide ma anche diffuso (l’uro Vishnu) nella valle dell’Indo può essere stata la trasposizione mitologica di un attacco nucleare extraterrestre sulla valle dell’Indo (o da una pioggia “naturale” di fuoco venuto dal cielo; senonché i testi indiani parlano di vere e proprie armi che solo noi con la tecnologia moderna siamo in grado di costruire da pochissimi anni). Gli studiosi affermano che gli indeuropei sarebbero scesi nella valle dell’Indo non prima del -1500. Potrebbe anche essere che degli indeuropei siano scesi a questa data nella valle dell’Indo, ma poiché la civiltà  vallindia era terminata a partire da Mohenjo-Daro due secoli prima è evidente che i nuovi arrivati si identificarono alla greca coi distruttori, appropriandosi di un misfatto non loro. Se nuovi indeuropei si stabilirono là dove era già vissuta una civiltà indeuropea nulla toglie all’originalità indeuropea della civiltà vallindia, e i nuovi arrivati possono solo averla continuata. Indra Purandara “distruttore di città” era un millantatore o s’accanì su quel poco o niente, soprattutto niente, ch’era rimasto in piedi della civiltà vallindia.  Dopo questa catastrofe i vallindi  emigrarono a Occidente guidati dai soliti energici capi pastori mongoli  Hyksos portatori di Tifone e che nessuna colpa avrebbero se non di essere passati sulle macerie fumanti lasciate da un assassino, Yahweh, rimasto sconosciuto  fino alla mia scoperta. Qui, lo preannuncio, i risultati della mia ricerca saranno sconcertanti. Nello stesso luogo (Mohenjo-Daro “Collina dei Morti”), e nello stesso preciso momento (l’olocausto nucleare piovuto dall’alto),  i seguaci del malvagio Giavè, dio della morte, della guerra e della pestilenza, gli “Angeli” ribelli  venuti dallo spazio esterno, si sono “incontrati” con gli Angeli che si erano uniti alle  vallindie adoratrici  di Tifone (l’uro Vishnu), il dio che gli Hyksos porteranno in salvo in Egitto e Siria dove sarà venerato da Abramo/Khayan col nome di Allāh due millenni prima della nascita di Maometto.  Allāh e solo Allāh è stato il “dio” buono educatore dell’umanità dall’inizio del balzo in avanti delle civiltà, il III millennio. Sarà tattica dei seguaci  dell’Iniquo Plagiario, generale ribelle, invertito e stragista *dye/ow-, dio della tempesta, farlo apparire come continuità di Tifone, raffigurandolo con un toro, ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi o, in altre parole, Yahweh ha fatto i conti senza il sottoscritto.

 

La pittografica filistea fu elaborata certamente in Alta Siria, perché oltre a segni ispirati alla Siria (Posidone Uranio e Filisteo/Sirio) presenta punti esteriori di contatto con la geroglifica anatolica o luvico che è attestata più anticamente in  Cilicia dal 1500 (J.G. Macqueen, Gli Ittiti, Newton Compton, 1978, p. 26). E fu elaborata per volontà dei faraoni hyksos come dimostra  il segno del serekh, il palazzo del faraone, LAR(ISSA), perché i Filistei dipendevano da loro ed erano la longa manus nel controllo del loro impero. Il segno del serekh è attestato sempre  a Festo   nel XVIII secolo dello strato  MM II B del primo palazzo. Dato ciò che dirò in questo lavoro hanno ragione (seppure senza teorizzare quel che io teorizzo; in altre parole ci azzeccano solo per sbaglio) coloro  che negano la continuità della Grecia, in senso lato (cioè non solo il territorio della moderna Grecia), dall’età protostorica, come si dice, a quella “storica”.  Il fatto che dobbiamo ricostruire la storia precedente i cosiddetti “secoli  bui” con l’archeologia non è affatto vero. Abbiamo i testi, non importa in quale lingua e scrittura pervenutici (e nel Levante non ci sono “secoli bui”), che ci aiutano meglio dell’archeologia a ricostruire questo periodo. Fin dall’inizio i Filistei appaiono come fidati sudditi dei faraoni hyksos e poi della XVIII dinastia che probabilmente a partire da Tuthmosis III (e siamo nel XV secolo), che conquistò la regione siro-palestinese, ne consentono e ne favoriscono ulteriormente lo stabilirsi e il diffondersi nel loro impero, dove serviranno particolarmente da uomini di guerra sia nell’esercito che nella marina, per mantenere l’ordine sulle popolazioni sottomesse, fino ai tempi di Minosse/Yuya visir di Tuthmosis IV e Radamanto/Amenofi III. Trovo interessante l’interpretazione che Martin Bernal dà del nome della città di Atene, e cioè Athēnai da Athē-Nēi(t) che a sua volta deriva dall’egizio Ḥt Nt, “Casa di Nēit”, che era il nome della città di Sais (i cui sacerdoti avevano magnificato a Solone – secondo quanto ci narra Platone suo discendente –  la grandezza di Atene al tempo delle invasioni dei popoli del mare e il suo gemellaggio con Sais) nel delta orientale egizio e che i suoi abitanti chiamavano Athēnai. Anche lo scudo a 8 o Palladio della dea risale ad iconografia egizia predinastica della dea Nēit  (Atena Nera, EST, 1997, pp. 63-4). Dunque anche Atene (e gli Ateniesi si dicevano colonia dei Pelasgi) fu colonizzata dai Filistei col benestare  dei faraoni, per conto dei quali facevano anche i governatori.

Altri gruppi di indeuropei (che non hanno  nulla a che fare con quelli al seguito degli Hyksos) vengono dal nord del Mar Nero e, passando a occidente e a sud in senso antiorario, si sono stabiliti in area tracia (Danai) e nella Troade (Aqaiwasha/Achei), dove sono ancora attestati fra -XIV e XIII secolo. in documenti ittiti ed egizi.  Se coi primi capitribù nomadi Hylsos gli indeuropei al seguito ancora non parlavano filisteo (greco), certo più tardi, al tempo di Khayan/Abramo è possibile che si sia formata una sorta di proto-filisteo. Le prove documentali mancano, ma va detto che i yahweisti fecero di tutto per eliminare la parlata greca nell’area propriamente filistea dando al rogo i documenti scritti come la chiesa cristiana ha fatto in tutto il mondo “pagano” da lei evangelizzato. Va detto poi che gli Hyksos non sovrapposero mai la loro cultura e lingua a quelle locali quando erano superiori alla loro (il fatto invece che la Grecia fosse ad un livello più basso avvalora la tradizione  che furono i Filistei/Pelasgi a colonizzarla). Il serekh del MM II  di Festo, probabilmente  elaborato su istruzioni  degli Hyksos (come gli altri segni non attestati di quest’epoca) può aver trascritto la lingua dei Filistei, un proto-filisteo simile al vallindio. Il sillabario filisteo di Festo  fu elaborato  da un’altra scrittura degli inizi del II millennio (lo stesso vallindio probabilmente)  forse già dal XVIII secolo, periodo in cui fanno la loro comparsa gli Hyksos, perché, ancora al tempo di Amenofi III e IV,  non è una semplice scrittura sillabica di 90 segni circa, in quanto ciascuno di questi segni – analogamente a quanto avviene nella geroglifica egizia e cuneiforme accadica – può valere come determinativo iniziale o  finale, come complemento fonetico dietro ad altro segno che si legge come un nome intero (logografico) o che costituisce la parte iniziale per il nome intero. Altre volte la parola inizia come fonetica e viene conclusa con un unico segno logografico o  iniziale per l’intero nome. E’ probabilissimo che l’uso di questi segni con valore logografico che  trascrivono solo l’iniziale del nome dipendano dallo  spazio predeterminato sul Disco di Festo, e quindi dall’esigenza di abbreviare. Ma questa scrittura è originariamente nata per trascrivere una lingua diversa dal greco, perché due segni del sillabario attestato nel XIV secolo  sono incompatibili con la lettura greca. ZEY, la “nave” e  DA(L), “uomo che cammina”, si scrivono così ma vengono riletti in greco naus, nea e megas, dris, rispettivamente. Dunque intorno al XVIII secolo il prototipo probabilmente vallindio di questa scrittura, sviluppatosi autonomamente  anche in Cilicia e Alta Siria, fu  adattato al greco dei Filistei, mentre nei secoli precedenti il suo sillabario (certamente almeno in parte diverso da quello oggi attestato) serviva a trascrivere  una lingua o un dialetto differente, forse indo-hurrito.

La dominazione dei Filistei  in Grecia va  dal XVIII al XIV secolo, e in Filistea dura fino all’incipiente I millennio ma la lingua si parla ancora al tempo di Romolo signore della guerra giudeo che giunto nel Lazio adotta  a Roma come lingua internazionale e aulica di corte  il greco, che resterà in auge almeno  fino al tempo di Numa Pompilio e Tullo Ostilio e del loro cantore di corte Omero. Nel Levante qualche residuo sprazzo di luce filistea affiora fino all’incipiente Secondo Tempio, al tempo di Ezra e Neemia, nel -400. Scrive Neemia: « vidi anche alcuni Giudei che si erano ammogliati con donne di Ashdod, di Ammon e di Moab; la metà dei loro figli parlava l’ashdodeo, conosceva soltanto la lingua di questo o quest’altro popolo, non sapeva parlare giudaico. Io li rimproverai, li maledissi, ne picchiai alcuni, strappai loro i capelli e li feci giurare nel nome di Elohim [notare che ancora si ha pudore a parlare esplicitamente di Yahweh] che non avrebbero dato le loro figlie ai figli di costoro e non avrebbero preso come mogli le figlie di quelli per i loro figli né per se stessi. » (Neemia, 13,23-25) Martin Bernal suggerisce che il greco che si stava diffondendo rapidamente in tutto il Mediterraneo orientale (e che per ipotesi era già parlato in Palestina dai discendenti dei Filistei) era una plausibile minaccia per il giudeo di Neemia e che dunque con ashdodita volesse intendere il filisteo, il greco. Analogo discorso varrebbe per azzatita, la lingua di Gaza  (p. 559). Ma è evidente che i yahweisti (come i cristiani evangelizzatori che ne sono la continuazione) estirparono con la violenza fino all’ultimo dei documenti e dei parlanti greco dalla comunità di Israele, ed è per questo anche che mancano i documenti a prova che si parlasse greco.

Esiodo affermava  che « tre tribù elleniche si stabilirono a Creta, i Pelasgi, gli Achei e i Dori » (Egimio, fr. 8, in White, 1914). Anche Eschilo ritiene ellenici (cioè greci) i Pelasgi (Le supplici, 911-14).  E’ significativo che la civiltà filistea è anticamente collegata all’Arcadia (Strabone, Geografia, V,2,4; Pausania, Guida della Grecia VIII,1,4) e all’Attica (Erodoto, Le storie, 8,44). Fra le etnie greche di Creta Omero cita Pelasgi, Achei e Dori (oltre a Eteocretesi e Kìdoni), Od. 19,175ss. Secondo Esiodo (Eèe, Fr. 9 Merkelbach-West) da Elleno derivano Doro Xuto e Eolo. Secondo Apollodoro, Biblioteca, 1,7, da Xuto derivano Ione e Acheo. I Filistei hanno dato origine agli Ioni (Erodoto, Le storie, VII,94-95). Gli Achei sono affini più per il fatto di essere stati civilizzati dai Filistei/Pelasgi che per l’origine, che comunque è indeuropea, traco-frigia. Secondo Eschilo ed Euripide Danao in Argolide sopraffece i Pelasgi (« Danao… stabilì la legge che tutte le genti che sino ad allora si erano chiamate Pelasgi assumessero il nome di Danai. » Euripide, Archelao, frammento citato in Strabone, Geografia, V,2,4).  Il poeta Callino (VII sec.) riferisce a Mopso, guerriero greco della guerra di Troia, e alle genti da lui guidate un percorso attraverso il Tauro la Panfilia, la Cilicia, la Siria e la Fenicia, ciò che ricorda  il percorso dei popoli del mare al tempo di Ramesses III e ancora l’assalto dei Danai/Achei alla Palestina dalla pianura di Israel e da Silo, loro quartier generale. Dunque secondo me tutte queste tradizioni ed interpretazioni risalgono ai fatti come li narrano le fonti egizie e si riferiscono ai traco-frigi Danai/Achei come ai Danai della Grecia/Yawan. I Pelasgi non c’entrano sostanzialmente (anche gli Sherdana li troviamo da una parte e dall’altra dello schieramento, a favore e contro gli Egizi) perché i Filistei furono anche e soprattutto coloro che respinsero l’aggressione dei Danai. E i Danai/Daniti/Denen/Danuna/Tanaja e gli Achei sono gli unici fra i popoli del mare menzionati (anche altrove) che potevano parlare  greco venerando  *dye/ow- > Giove, Zeus > Yahweh zebaot, Giavè degli eserciti, il dio della guerra. Anche i Filistei appaiono come barbari in 1 Cronache e 1 Samuele, quando tagliano la testa di Saul e la inchiodano nel tempio di Dagon e Astarte probabilmente ad Ascalona. Ma poiché i testi furono riscritti dai  yahweisti è probabilissimo che questi  abbiano attribuito i loro stessi costumi barbari ai nemici Filistei. Del resto la ferocia che trapela dalla descrizione omerica parallela dei Danai/Achei  che rubano Criseide/arca e la restituiscono (cioè perdono l’arca in combattimento) per scongiurare la peste, non lascia dubbi sulla ferocia dei Danai/Achei. Dunque questi Danai alla fine sono di stirpe achea dell’area traco-frigia e dunque anche della Troade. Sono Achei. E li ritroviamo nel Lazio intorno al santuario di Diana Nemorense. I Filistei/Pelasgi sono i primi greci della storia. Secondo la tradizione greca, ottanta anni dopo la guerra di Troia (data convenzionale 1182)  i Danai in Grecia sono stati rovesciati dai Dori (il cosiddetto  ritorno degli Eraclidi; vedi anche la tradizione  secondo cui Nauplio,  per vendicare la morte di Palamede, suscita la ribellione delle mogli dei duci achei causando  in particolare la tirannide su dieci città cretesi di Leuco che bandì Idomeneo, figlio di Deucalione a sua volta figlio di Minosse,  da Creta, Apollodoro, Biblioteca, Epitome, 6) che  si sentivano eredi della precedente dominazione hyksos, dunque dei Filistei. Per alcuni  studiosi si  tratta  di un’invasione da nord-ovest per altri, e io sono con questi,  di un rovesciamento dal basso della popolazione dominata rimasta a parlare un dialetto proto-dorico. 

La guerra di Troia come cantata nei vari poemi del Levante, e dunque ingigantita e travisata, è  equiparabile ai poemi medievali riguardanti le gesta di Carlo Magno e Rolando/Orlando contro i Mori, mentre furono i  Baschi a uccidere Rolando.  Si finì col vedere la guerra di Troia come invasione dell’Asia Minore da parte dei Micenei (quelli che vengono chiamati Micenei dagli studiosi) – che nei due secoli precedenti  avevano  iniziato a “colonizzare” l’Asia Minore –  e dunque è evidente che la colonizzazione dell’Asia Minore da parte dei Greci fu vista come continuazione di questa invasione da parte dell’invincibile armata achea partita da Aulide in Beozia.  In realtà è evidente che la guerra di Troia cantata  da Omero  rappresenta prima di tutto il movimento dei popoli del mare e di terra che scendendo dall’area traco-frigia distrussero i centri del potere in Levante e nella Grecia micenea stessa, anche se un certo contingente di invasori proveniva proprio dalla Grecia/Yawan, dove una prima ondata di invasori traco-frigi che vengono chiamati Micenei (per me solo quelli del Miceneo recente) si erano in precedenza stabiliti. Costoro  distrussero Troia e gli altri centri dell’Asia Minore fino in Cilicia con l’olocausto. Tutti ugualmente barbari, anche se i “Micenei” lo appaiono meno. Poiché questi eventi si collocano (nella stessa tradizione di cui poi si servì Omero) prevalentemente in Palestina, è in Palestina che dobbiamo valutare quanto effettivamente durò questa “guerra di Troia”. Non dimentichiamo che Menelao e Paride alla ricerca di e con Elena (che non è mai stata, nella realtà, a Troia) passano dalla Fenicia. La guerra dei yahweisti in Palestina inizia decisamente nel -1178, l’ottavo del regno di Ramesses III, e termina nel -1050 con la battaglia di Afèq, col che stiamo bene negli 80 anni posteriori alla guerra di Troia, perché, grosso modo, la media fra  -1178 e  -1050 è -1100, data comunemente indicata per la comparsa dei Dori. Dunque la calata dei Dori, a ben vedere (così come la ribellione delle mogli dei duci achei), non è un fatto posteriore e senza alcun legame con la “guerra di Troia”, bensì la conseguenza diretta, immediata, della sconfitta dei yahweisti danao-achei, come è meglio rispecchiato dalla tradizione della ribellione delle mogli dei duci achei. Troia nel XII secolo, dopo l’abbassamento delle acque (per cui nel Mar Nero si usano “arche di Noè” dal fondo piatto) per la siccità da raffreddamento della Terra (dopo l’eruzione del Thera) e la crisi del Levante non può essere più quella che era negli anni d’oro. Non solo non può più controllare lo Stretto dei Dardanelli, ma nemmeno c’è più quella richiesta di metalli di un tempo, perché nel frattempo, non solo è calato dappertutto il potere d’acquisto, ma anche si sono trovati nuovi sbocchi per l’approvvigionamento soprattutto per lo stagno, che viene dalla Britannia, e col rame produce il bronzo (ma nel frattempo è il ferro che interessa maggiormente). E del resto, i popoli del mare e di terra non sono in cerca dello stagno e del bronzo, ma di cibo con cui sfamare le loro famiglie portate al seguito. Non vanno in cerca della bella Elena o di un impero ellenico, ma della sopravvivenza più elementare. Troia era ricchissima, perché si trovava fra la via Scitica (che faceva capo a Tanais dei Danai/Tanaja) e la via della Seta che faceva capo in Cilicia e Siria. Dunque l’esodo dei popoli del mare e di terra alla ricerca di un Lebensraum più ricco si sarà diretto qui, nella Troade e in Cilicia e Siria, ma per un mito che non corrispondeva più alla realtà. E tuttavia nella tradizione rimase trionfante il vecchio mito, per cui si colpevolizzò  Laomedonte, il   « grande Eurimèdonte » che « regnava sui Giganti superbi », il re  tirchio che  voleva monopolizzare tutti i traffici orientali, e attirandosi l’ira dei Greci  « il pazzo suo popolo egli distrusse, e lui stesso perì. » (Od. 7,58-60) Certo, come dirò a suo luogo, Troia c’entra con Atlantide, perché è l’unico nome che la tradizione ci ha lasciato di questa terra, anche se non ha collegato esplicitamente Atlantide con Troia. Ma la vera guerra si svolse in Palestina perché la Troia di Priamo non era più quella del tempo di Laomedonte e dei suoi predecessori. Troia, stando ad Omero, venera Posidone Uranio/Apollo troiano/Tifone, il dio dei capi nomadi e poligami (la poligamia che è rimasta presso gli islamici) Hyksos e Atena/Neith/’Anat (Ettore e le donne troiane invocano da questa dea la salute di Troia) la dea a cavallo. Il Cavallo fu lasciato dagli Achei sulle rive dell’Ellesponto come dono votivo a Posidone – che aveva costruito le mura di Troia – o ad Atena (a seconda delle tradizioni tutte sostanzialmente valide) per far credere ai Troiani che gli Achei se n’erano tornati a casa  chiedendo con quel simulacro alla divinità un felice ritorno (questo nella fantasia della tradizione, ovviamente), sicuramente  perché qui, a Troia, v’erano i Filistei/Feaci greci adoratori di Dagan che gestivano pei faraoni il traffico dei metalli lungo le sponde del Mar Nero e dei fiumi che vi sboccavano. Dunque i Feaci orientali omerici sono greci e nello stesso tempo troiani come voleva la tradizione dei popoli laziali. Dunque Enea può essere davvero sbarcato nel Lazio coi suoi  feaci/filistei/pelasgi nel XII secolo scampando da Troia ed essere il capostipite dei Prisci Latini facenti poi capo ad Alba Longa. (Naturalmente la lista dei re Albani fino a Romolo giudeo è tutta falsa e serve a creare un collegamento che non c’è.) Ecco perché a qualcuno è sembrato che sia gli Achei  che i Troiani avessero in fondo la stessa civiltà. Così l’Antico Testamento  yahweista ha  ostracizzato i Filistei, il popolo nemico per eccellenza degli Ebrei (in realtà nemico dei yahweisti e dei Danai) di cui disperdere ogni traccia, perfino il nome: « Israele… Là nacquero i famosi giganti dei tempi antichi, alti di statura, esperti nella guerra; ma Yahweh non scelse costoro e non diede loro la via della sapienza: perirono perché non ebbero saggezza, perirono per la loro insipienza. » (Baruc 3,24-28) La damnatio memoriae dei Filistei trova dunque unanimi sia la tradizione greca (dei Danai che erano sbarcati nel Lazio e avevano in mano il santuario di Diana Nemorense) che quella “ebraica” perché, come vedremo, dopo la guerra combattuta dalla stessa parte, i signori della guerra al servizio dei Filistei si ribellarono ai Filistei stessi cercando di conquistarsi un regno e Gerusalemme (non credo ad uno stato di Giuda consapevolmente ebreo contrapposto ad uno stato di Israele anch’esso consapevolmente ebreo; soprattutto credo ad uno staterello di Giuda con capitale Gerusalemme che si riteneva non dissimile dagli altri staterelli cananei della regione) divenne sede dei vincitori figli ed eredi di questi signori della guerra, che si sentivano cananei   ed elaborarono a partire dal X-IX secolo una tradizione anti-filistea. Omero ricava la tradizione dal signore della guerra Romolo (che non è uno storico, e si porta dietro quel che gli hanno insegnato) e dai suoi giudei, e tuttavia  ha un’altissima stima sia dei Pelasgi che dei Feaci (che sono lo stesso) giunti nel Lazio. Il fatto che Romolo giudeo e pragmatico abbia optato per il greco dei Filistei vorrà pur dire qualcosa. 

 

E’ evidente che gli Hyksos fanno la loro comparsa nel Levante nel XVIII secolo e con loro appaiono i  Filistei adoratori di Dagon, il dio pesce.  Abramo/Khayan è un faraone Hyksos, il penultimo e il più grande, quello che estese maggiormente l’impero, promessogli e datogli da Allāh. Abramo non viene da Ur, ma, come penultima tappa (nemmeno lui, tra l’altro, bensì i suoi predecessori capitribù degli altipiani dell’Asia centrale), dall’Urartu degli Urriti (Come si dice uno di Ur? Un Urrita. Scherzo, ma i redattori yahweisti hanno fatto lo stesso ragionamento al contrario, interpretando Urrita, Hurrita, come uno che viene da Ur), da Ḥarrān, da Mitanni, in Alta Siria. Questa è stata la tappa quasi finale degli Hyksos, che, come abbiamo detto vengono da molto più lontano, dalle steppe dell’Asia centrale passando attraverso i passi del Pamir per la valle dell’Indo, e sotto al Mar Caspio e  al Mar Nero. Abramo va infatti in Egitto ed è strettamente legato fin dall’inizio ai Filistei, di lingua greca, dialetto ionico (fece alleanza con Abimelekh e visse « nel paese dei Filistei per molto tempo. » Gen. 21,34), e prima ancora viene benedetto a Shalem da  Malkizedeq  sacerdote di El Helion (Gen. 14,18). El Helion l’“Altissimo” rimanda a Heliopolis, nel delta, dove regnavano gli Hyksos, e dove era venerato il Sole Iperione di Omero, ma anche a Proteo/Posidone Uranio dell’isola di Faro, davanti al delta, sempre in Omero. Dunque il dragone celeste cinese, il dragone dei venti  degli altipiani dei mongoli, certamente fusi insieme, portati dagli Hyksos dietro cui sono i Filistei della valle dell’Indo.

Ma  Shalem (“Pace”, e islam viene dalla stessa radice, “pace”) è Gerusalemme (nella cartina sopra la si deve immaginare poco più in alto di Ebron), fin dall’inizio la città santa di Abramo e dunque, oggi, dei soli islamici.   Secondo l’Antico Testamento Shalem era prima una città dei Gebusei mentre per me era degli Hyksos che dominavano sui Filistei. Gerusalemme, ebraico Ierushalaim greco Hierousalēm, Hierosóluma “Santa Pace”, sarà il Tempio? Santo, arabo el-Quds, Bait el-Maqdìs, la “Santa”, la “Casa Santa”. Lo stretto rapporto fra Abramo e i Filistei è sottolineato ancora dal suo acquisto di un sepolcro per Sara, dove sarà poi sepolto anche lui, a Qiriat Arba-Ebron, paese per me dei Filistei e non degli Ittiti (Gen. 23). Qiriat Arba/Hebron (dove – lo vedremo in dettaglio più avanti –  risiedette Davide,  signore della guerra, maryannu, al servizio dei Filistei) fu fondata sette anni prima di Zoan/Avaris, la capitale degli Hyksos, fondata nel 1730 ca. (Num. 13,22). Può essere vero, perché gli Hyksos scendono da nord. Nel passo citato di Numeri si parla dei figli di Anaq, che sta per Anax, Anaktos, cioè Wanax, Wanaktos, Re, secondo quanto suggerisce Martin Bernal. Altrove ho proposto che seranim, i “principi” filistei, derivi dal greco koiranes.  A Qiriat Arba Abramo/Khayan fu sepolto, io credo da suo figlio il faraone Ismaele/Apopis, nel momento in cui dovette sloggiare dal delta –  cacciato dal faraone Ahmose –  portandosi dietro il sarcofago con la mummia di suo padre. I dati biblici ebrei (da cui dipendono quelli cristiani), nonostante il travisamento operato dai yahweisti, ci dicono  che fino alla distruzione del Primo Tempio nel -586 e alla caduta della città e all’esilio a Babilonia, stando all’apparato esteriore, vi fu venerato Dagon (non lo ripeterò sempre, ma quando dico  Dagon dobbiamo sempre pensare a Tifone soprattutto; il dio di Abramo era chiamato anche  El Shaddai, ambientazione cananea del Signore della Steppa, cioè il Tifone che spazza la steppa: « Elohim parlò a Mosè e gli disse: Io sono Yahweh! Sono apparso ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe come El Shaddai, ma con il mio nome Yahweh  non mi son manifestato a loro.  » Es. 6,2-3). In tutto il territorio sotto il controllo dei Filistei, anche a Gerusalemme, furono venerati Dagon/Posidone Uranio e Derketo/Afrodite Urania –  Martin Bernal ha capito che risale agli Hyksos il culto di Posidone/Seth e Atena/Anat, Atena Nera, EST, p. 25 –  raffigurati a metà pesce e a metà umani con la corona solare e rispettivamente lunare in testa. A Gerusalemme, fino all’esilio in Babilonia, erano venerati lui raffigurato dal carro del Sole, lei con associata la prostituzione sacra (2 Re 23,11).  Poiché il dio degli Hyksos, Tifone, era il dio dei dominatori è evidente che dietro Dagon filisteo si adorava  Tifone dei dominatori. Che gli arabi abbiano mantenuto una tradizione, addirittura scritta, è più che probabile. La “tavola dei popoli” in Genesi 10 è stata redatta nella prima metà del -VI secolo: « In tutta la «tavola» c’è peraltro una grossa prevalenza delle genti tribali, specie per l’area araba, ciò che fa sospettare sostanziosi apporti da tradizioni genealogiche dell’area desertica e delle genti arabo-aramaiche…  La «tavola dei popoli» non è documento di origine specificamente israelitica (Giuda e Israele non vi compaiono neppure), potrebbe derivare piuttosto da un epicentro nord-arabico a ridosso della Mesopotamia (la Teima di Nabonedo?); appartiene comunque ad un’epoca e ad un ambiente in cui non si avvertiva l’esigenza di inserire un «Israele» nella rete dei rapporti genealogici che tenevano insieme l’ecumene di allora. » (Mario Liverani, Oltre la Bibbia, Laterza, 2a ed. 2004, p. 266) Grazie, Liverani. Giuda e Israele non vi compaiono perché questi due “stati” non sono mai esistiti se non come città-stato cananee, Samaria e Giuda, dunque da non doversi per nulla distinguere dalle tante altre città-stato cananee  (e come potrebbe una «tavola» della prima metà del VI secolo, come afferma nella stessa pagina l’Autore, non menzionare Israele e Giuda se queste fossero davvero esistite come stati ebraici, differenziandosi dalle città cananee? Solo per questioni di cronologia? Perché la «tavola» si riferisce ai discendenti di Noè? Niente affatto. Prima di tutto perché si cita un Eber che dovrebbe essere antenato degli Ebrei, e non lo è, perché non può esserlo, secondo poi perché le conoscenze storiche degli antichi posteriori al Diluvio, di Deucalione, figlio di Minosse, dopo l’eruzione del Thera, erano minime ma  non troppo lontane, quando si diffuse la scrittura alfabetica, dal tempo di Saul al nord e David al sud, signori della guerra al servizio dei Filistei, che si collocano, secondo l’Antico Testamento yahweista non molto prima e intorno all’anno 1000)  e mai nessuno dei paesi circostanti ha potuto avere rapporti con loro, con loro in quanto città-stato ebree. Gerusalemme è città ebrea e yahweista solo a partire dal Secondo Tempio. A questo punto mi chiedo, giustamente, sulla base del suggerimento di Liverani,  se oltre alla «tavola» i yahweisti  abbiano potuto manipolare materiale abramitico preesistente del Primo Tempio di Gerusalemme e anche  di provenienza nord-arabica, perché da queste parti nascerà l’Islam, e sarebbe interessante scoprire le eventuali radici comuni di  “ebrei” (prima dell’arrivo del yahweismo) e arabi (prima di Maometto) nel nord arabico. L’ipotesi che avanzo è che,  dopo aver contraffatto, come dirò, i documenti filisteo-cananei cioè greco-aramaici del Primo Tempio di Dagon a Gerusalemme, i yahweisti contraffecero, sempre al tempo del Secondo Tempio, i documenti della tradizione comune dei beduini ismaeliti (i discendenti di Ismaele/Apopis, l’arabo, il primogenito cacciato da Abramo con sua madre Agar) e edomiti-idumei, anche “ebrei” (i discendenti di Esaù, l’edomita,  il primogenito che  Isacco non benedisse, benedicendo, e quindi anteponendo nella priorità di successione, a causa della  truffa di Giacobbe, Giacobbe stesso). Dunque, è evidente perfino ad un cieco che i documenti originali appartenevano a queste genti imparentate fra loro, ismaeliti e idumei, arabi e proto-ebrei/edomiti, della vera primogenitura  da Abramo, attraverso Ismaele suo figlio primogenito e attraverso Esaù figlio priomogenito… evidentemente di Ismaele. I yahweisti indeuropei, venuti dalla regione traco-frigia e dalla Grecia/Ya(h)wan nell’Esodo… dei popoli del mare e di terra  nel XIII-XII secolo, manipolarono i documenti filisteo-cananei e arabo-edomiti senza poter  evidentemente negare la  primogenitura di quelli e  ricorrendo ad espedienti truffaldini puerili per occupare abusivamente il loro posto. E infatti nella comparazione delle tradizioni   Isacco è fuori posto, ricollegabile a Frisso che, per non essere sacrificato dal padre, viene mandato dalla madre in Colchide con l’ariete fatato dal Vello d’oro  sparendo di scena. Quanto a Giacobbe,  potrebbe esisterne traccia nelle iscrizioni egizie di epoca hyksos ma su chi vuole affermarlo cade l’onere della prova  che si tratta  proprio di lui e di un discendente di Abramo via Isacco.  Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Sono comunque sorpreso di aver fatto  una scoperta così rivoluzionaria che altri studiosi, che hanno fin dall’inizio preso un titolo di studio (la mia laurea è in giurisprudenza; come dire, una superlaurea in italiano e in logica, che ti insegna a spaccare il capello in quattro e a ragionare, perché, come dice il maestro al suo ex allievo poliziotto che andava male in italiano, in quel capolavoro di cinematografia che è “Un caso semplice”, l’Italiano non è… l’Italiano… E’ il ra-gio-na-men-to) solo per questo scopo, i semitisti, biblisti ecc. – e vengono pagati per farlo, e gli vengono dati gli istituti e le poltrone su cui leggono il giornale dello sport – non hanno mai nemmeno intravisto lontanamente nei secoli che ormai conta l’archeologia, l’epigrafia, la linguistica ecc. Non credo  all’Esodo degli Ebrei dall’Egitto. Sia l’ebreo di casta sacerdotale Flavio Giuseppe che il sacerdote egizio Manetone sapevano che c’era stato un solo esodo, e  può essere solo quello degli Hyksos, cacciati da un Mose che fu Ah-mose, primo faraone della XVIII dinastia. E gli Hyksos adoravano il dio abramitico e dunque cogli ebrei hanno solo a che fare geneticamente, semmai, ma gli ebrei verranno dopo, esattamente col Secondo Tempio, quando saranno ebrei anche in quanto yahweisti. Credo alle testimonianze egizie, come il diario di un funzionario di confine che nel 1210, anno 3 di Merenptaḥ, scrive: « Abbiamo finito per concedere alle tribù Shōsu [Beduini] di Edom il permesso di passare oltre la fortezza di Merenptaḥ che è nel Tjeku per recarsi agli stagni di Pi-Tūm di Merenptaḥ che sono nel Tjeku, onde mantenerle in vita e mantenere vivo il loro bestiame grazie alla generosità del faraone… » (Gardiner, p. 248; cf.,  identica per gli elementi che ci interessano, seppur meno bella, la versione in Liverani, p. 29) Erano gli Edomiti/Idumei –  estromessi dalla primogenitura dall’impostore Isacco e costretti ad un ruolo quasi sempre da cattivi nell’Antico Testamento e anche nell’orizzonte storico del Nuovo – e anche i Cananei e i Filistei con cui si fusero,  i proto-Ebrei! I yahweisti faranno poi credere che a Pi-Tūm, la Città di Aton, lavorassero forzatamente gli Ebrei (sotto Ramesses II) per poi emigrare (sotto Ramesses III) dietro a “Mosè”. Si trattava di beduini edomiti, nord-arabici, e non era nemmeno quella volta lì –  perché l’Esodo di Mosè non è mai avvenuto –  mentre è probabilissimo che  i beduini siano stati costretti ai lavori forzati nelle miniere di turchese del Sinai o i cananei in quelle di rame di Timna (di Timna era la moglie filistea del sacerdote yahweista guerriero Sansone, Gd 14), vicino Gerusalemme, « sfruttate direttamente dall’Egitto durante tutto il periodo ramesside. » Liverani, p. 16). Insomma il quadro che mi si illumina, grazie a Liverani, è di un mondo beduino (arabo ed  edomita/”ebreo” insieme, i sopravvissuti al  crollo del potere centrale nel Levante, all’inabissamento della “Atlantide” ideale) che, dopo quello filisteo-cananeo, ha scritto i documenti sulla storia della Palestina, da ultimo  manipolati dai yahweisti di origine indeuropea che vennero a Gerusalemme dal nord, dall’Israele di Elia, di Eliseo, di Giuda Galileo e dei suoi figli, del falso profeta egiziano-Gesù, dei pervertiti Simone di Ghiora e Giovanni di Giscala, degli zeloti, dei sicari, di Masada. Dunque, a ben vedere, più figli di puttana cristiani, che ebrei. Ritengo che dal tempo di Abramo fino a Maometto arabi e edomiti (gli ebrei compresi, in senso etnico-culturale, eccettuata la fede yahweista) hanno condiviso la medesima cultura abramitica incentrata sul culto di Dagon e Afrodite Urania esclusivamente.

Il libro di Daniele, scritto intorno al 164 a.C., è l’ultimo dell’Antico Testamento e si trova pure fra i Ketubim, gli Scritti, della Bibbia ebraica. Ebbene, in un passo  si legge a proposito di Daniele, chiamato Baltazzàr, prigioniero ebreo e poi profeta di corte a Babilonia, che  « Le finestre della sua stanza si aprivano verso Gerusalemme e tre volte al giorno si metteva in ginocchio a pregare e lodava  il suo Allāh, come era solito fare anche prima » (6,11; per chi volesse verificare la traduzione sulla Bibbia ebraica ricordo che qui il testo è in aramaico). Come Daniele, Maometto « stesso, secondo il Corano, in  origine pregava solo tre volte al giorno… «Quando, perché e come il numero delle ṣalāt prescritte aumentò dalle tre chiaramente menzionate nel Corano, alle cinque prescritte dal diritto islamico, non è ancora chiarito in modo soddisfacente» (A.T. Welsch). » (Küng, p. 160) Maometto all’inizio aveva prescritto la direzione della preghiera verso  Gerusalemme, ma dopo la rottura con gli ebrei a Medina prescrisse che fosse orientata in direzione della Ka'ba alla Mecca (Küng, p. 138). Originariamente Maometto considerava Gerusalemme il centro della fede islamica (Küng, p. 144).  Allāh, Elāh, אלה    (in semitico le doppie non vengono trascritte) in aramaico biblico, plurale elohin אלהיו, è affine all’ebraico biblico  Eloāh  אלה e אלוה che al  plurale fa elohim אלוהים che serve, come elohin, ad indicare gli dèi pagani. Purtroppo non ho un istituto. Se lo avessi disporrei o farei in modo di procurarmi un sistema di scrittura ebraica (ecc. ecc.) decente, che trascrivesse anche le vocalizzazioni. Ed è già assai ciò che ci offre Bill Gates.  Questi sono nomi propri del Dio arabo-“ebreo”. Non è un nome contratto, anche se sinceramente non sono ancora capace di darne l’etimologia (non ho l’istituto e dunque i mezzi adatti). Certamente nella mente degli enoteisti precedenti al monoteista Maometto questo dio era comunque il massimo dio venerato a Gerusalemme come alla Ka'ba degli esuli Hyksos dall’Egitto (dunque almeno Ismaele/Apopis può davvero essere stato qui e aver fondato la Ka’ba). Il  nome comune di dio c’è già ed è El,  אל. Anche Eloāh  ebraico corrisponde ad Allāh  in quanto gli “ebrei” che lavorano a Pi-Tūm protestano: « Vogliamo partire, dobbiamo sacrificare al nostro Eloāh [Eloheinu, אלהינו] » (Esodo 5,8) Infatti i muratori e carpentieri edomiti saranno sempre ostili a Mosè (e al suo Yahweh) che dovrà  fabbricare per loro in territorio di Edom il cosiddetto Serpente di bronzo  Necustan (Numeri 21,8-9), in realtà una statua di Dagon, che deve essere sempre stata a Gerusalemme nel Primo Tempio (2 Re, 18,4), ben prima del yahweista Mosè che non è mai esistito. Voglio  dimostrare (se avessi l’istituto certamente troverei qualche testo decisivo) che nei poco più di 4 secoli dal -586 al -164, data del libro di Daniele, l’usanza non solo di rivolgersi verso Gerusalemme – è troppo ovvio che un esule si rivolga verso il Tempio, che si trova in Gerusalemme –  ma anche di pregare tre volte al giorno (di sera, al mattino e a mezzogiorno, vedi Salmo 55,18),  inginocchiandosi presumibilmente nello stesso modo dei musulmani odierni, risale al Primo Tempio di Dagon. Cioè voglio dimostrare che già prima dell’esilio a Babilonia,  presso il Tempio, o comunque in Gerusalemme e intorno a Gerusalemme, i fedeli tre volte al giorno si inginocchiavano verso il Tempio stesso. Il Salmo 55 è ispirato al profeta Geremia. Fortuna vuole che Geremia, nato nel -650 ca.,  non sia andato in esilio a Babilonia (come Daniele), ma sia rimasto in Giudea e dopo l’assassinio di Godolia, che ne era il governatore per conto dei babilonesi, abbia seguito gli ebrei fuggiaschi in Egitto dove probabilmente morì. Il Salmo 55 per essere ispirato a Geremia sarà posteriore, ma anche appartenente alla cerchia di ebrei che faranno capo all’Egitto. Ora è difficile che a Babilonia e in Egitto si innovasse, indipendentemente gli uni dagli altri, inventando la moda di inchinarsi tre volte al giorno verso Gerusalemme. Ritengo dunque che ci siano buone probabilità che l’uso di inchinarsi verso il Primo Tempio tre volte al giorno fosse una pratica non solo precedente all’esilio, ma anche risalente alla fondazione del tempio stesso. Anche II Cronache 29,27-30 mi induce a questa conclusione. Se è vero che Ezechia passa per un re yahweista e dunque le sue iniziative sono sospette, è pur vero che gli si attribuisce la restaurazione del rituale originario. E poiché inginocchiarsi davanti al dio tre volte al giorno è una pratica innocua Ezechia può tranquillamente averla rimessa in funzione anche se stavolta  legata al solo Yahweh: « Ezechia ordinò di offrire gli olocausti sull’altare. Quando iniziò l’olocausto, cominciarono anche i canti di Yahweh al suono delle trombe e con l’accompagnamento degli strumenti di Davide re di Israele. Tutta l’assemblea si prostrò, mentre si cantavano inni e si suonavano le trombe; tutto questo durò fino alla fine dell’olocausto. Terminato l’olocausto, il re e tutti i presenti si inginocchiarono e si prostrarono.  Il re Ezechia e i suoi capi ordinarono ai leviti di lodare Yahweh con le parole di Davide e del veggente Asaf; lo lodarono fino all’entusiasmo, poi si inchinarono e lo lodarono. »   Nella Bibbia tanto ebrea che aramaica (credo che a partire dal X-IX secolo  la  Bibbia abramitica sia stata riscritta a Gerusalemme in aramaico e con spirito ormai anti-filisteo da parte di un clero figlio di una popolazione che si sente cananea; l’ebreo viene introdotto col Secondo Tempio dai guerrafondai yahweisti dispersi nel Sinai e a contatto con la parlata egizia) e nel Corano, dio, qualsiasi sia il suo nome, deve essere presentato come unico e dunque, sia El, אל, sia Allāh, sia Eloāh, non hanno (più) il femminile della loro originaria compagna associata ed omonima. Però  secondo Erodoto, V sec.,  gli Arabi fanno sacrifici ad Afrodite Urania che chiamano Alilàt (1,131) e a Dioniso che chiamano Orotalt, per loro gli unici dèi esistenti (3,8). Alilāt pare dar ragione ai semitisti che parlano di Allāh come di una contrazione da al-ilāh, nel senso di  dio supremo della fase enoteistica (quando si veneravano anche altri dèi in posizione subordinata) passato a diventare l’unico Dio monoteista (Hans Küng, Islam, Rizzoli, 2005, pp. 81 e 102). Ma a rendere dubbia la cosa rimane la forma aramaica  אלה, già leggibile compiutamente come Allāh.   Allāt infatti è attestata come  figlia di Allāh alla Ka’ba prima della riforma di Maometto (Küng, p. 102). Questa attestazione erodotea, che riferisce anche  che il culto era comune agli Assiri, cioè ai Siri, è significativa per indicare la possibile stretta relazione fra Dagon/Allāh e Afrodite Urania/Allāt, ma Dioniso/Orotalt potrebbe essere corrispondente al Yahweh che a Kuntillat Ajrud, avamposto giudaita del IX-VII sec. a.C. nel Negev, viene associato ad Asherah (Maier, p. 57), ovviamente sostituendosi a Dagon, e dunque saremmo, e siamo, punto e a capo. Però nella tradizione greca da me ricostruita in lavori precedenti sulla base dei raffronti con l’Egitto, l’introduzione del culto di Dioniso avviene da parte di Melampode/Yuya/Minosse, visir di Tuthmosi IV e Amenofi III, e non può che trattarsi dell’Aton poi fatto assurgere a unica e massima divinità egizia da Amenofi IV.  Allo strapotente visir Minosse/Yuya succede suo figlio Deucalione/Ay, ma a questo punto Creta è invasa dai Danai e il re Idomeneo, che partirà per il Levante (non per la guerra di Troia), non ha nessuna parentela coi primi due, né condivide la venerazione del medesimo dio. Il sacerdote guerriero (non giudice)  danao Idomeneo/Iefte fece un voto  a Yahweh, ovviamente quello che i Greci chiameranno Zeus : « Se tu mi dai nelle mani gli Ammoniti, la persona che uscirà per prima dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per Yahweh e io l’offrirò in olocausto. » (Giudici 11,30-31) Ed effettivamente sacrificò in olocausto sua figlia quando tornò vittorioso (Giudici 11,32-40) a Creta, presumibilmente a Cnosso. Infatti su Idomeneo  la tradizione greca (raccolta anche dall’Eneide) racconta una storia analoga.  Il contesto in cui si muove Idomeneo è quello derivante da “Mosè” e dunque pienamente yahweista coi suoi sacrifici umani di tipo druidico traco-frigio  su uno scenario cananeo. Non è possibile fare alcun paragone di somiglianza fra il buon Aton di Yuya/Minosse e il feroce Yahweh di Iefte/Idomeneo. Aton è la divinità evolutasi da quella  delle mogli abramitiche/hurrite dei faraoni di questo periodo, fin dalla lontana Colchide col suo dio Sole, e dunque è un perfezionamento di Posidone Uranio, Dagon filisteo, il Dragone che custodiva il Paradiso e la quercia con appeso il Vello d’oro, nell’Oriente da cui questa civiltà veniva (e veniva dai confini con la Cina settentrionale, col paese degli Arimaspi e Iperborei), mentre Yahweh è il dio  indeuropeo *dye/ow-  da cui derivano tanto  Zeus che Giove/Giavè, che calò in Palestina venendo  da nord (e poi andando a finire con i Danai in Grecia/Ya(h)wan il “Paese di Yahweh/Zeus” e con gli Sherdani in Sardegna, dove si parla una lingua anindeuropea, segno che gli Sherdani vi si sono sommersi linguisticamente come i Filistei sono stati sommersi dalle parlate semitiche in Palestina). Fra Tifone degli Hyksos e Giavè dei Danai e Sherdani non esiste alcuna relazione se non del “vincitore” Giavè sul “vinto” Tifone. Ma le tradizioni antiche non finiscono qui: « La successione esiodea dei re degli dèi Urano, Crono, Zeus ha un preciso parallelo in un testo cuneiforme ittita risalente al XIII sec. a.C., ma derivante da un originale hurrita. » (Esiodo, Teogonia, BUR, p. 30)  Ma altrove, p. 157, nello stesso volumetto, si legge:  « come mostrano bene i miti paralleli orientali (soprattutto testimoniati da fonti ittite del XIII sec. a.C., ma derivanti da originali churriti ancor più antichi, del XVI sec. a.C. …) » Dunque i testi hurriti del XVI secolo a.C. ci portano dritti agli Hyksos che sono con gli Hurriti la casta guerriera sovrappostasi agli Ittiti, nome della popolazione originaria. Rimesse le cose a posto,  continuiamo la citazione  « Anche questo testo tratta di una lotta di divinità per conseguire la supremazia; si tratta di quattro entità invece delle tre esiodee: Alalu, Anu, Kumarbi, Dio delle tempeste. Il racconto, nella parte di testo a noi conservata, inizia con il regno di Alalu; eccolo nella traduzione di Meriggi:  » (Teogonia, BUR, p. 30) Prima di continuare chiariamo che non è affatto vero che Alalu lotta per conseguire la supremazia. Egli ce l’ha già, e presumo sia il dio più antico, di nome magari Allāh. Ma iniziamo a leggere il testo (che riassumo, tagliando il non necessario a quanto ci serve), originario del XVI secolo a.C., età degli Hyksos:   « Un tempo, in anni remoti, Alalus era re in cielo… Nove anni contati Alalus fu re in cielo. Nel nono (?) anno… contro Alalus Anu diede battaglia, e … vinse … Alalus…  Nove (?) anni contati Anu fu re in cielo. Nel nono (?)… anno … Kumarpi, discendente di Alalus, contro Anu diede battaglia…  Anu (come) un uccello (?) al cielo andò. Detro gli si precipitò Kumarpi e lo prese (pei) piedi… e lo tirò giù dal cielo… [qui Kumarpi si lavora ben bene Anu che alla fine] (Dalla) bocca fuori sputò Kumarpi, il savio re, (dalla) bocca fuori sputò… » (pp. 30-31) Qui il testo si interrompe ma è evidente che Anu risputa i saggi re, che sono solo due Kumarpi (che francamente non si capisce come faccia ad essere risputato da Anu) e Alalu, che dunque tuttora regna. Dunque, eccettuato Anu l’usurpatore, le altre due divinità dovrebbero essere sempre la stessa cosa,  il dio Tifone/Posidone Uranio. Succederà ancora un dio ittito delle tempeste simile a Zeus che però è il dio dell’ultima ondata indeuropea, quella di *dye/ow-. Il  dio di Abramo/Khayan l’hyksos, un dio commisto fra Tifone e Dagon (l’asino era l’animale di Tifone e molto probabilmente fino a tutto il Primo Tempio può aver raffigurato il dio; è probabile che nel tesoro del Secondo Tempio i yahweisti conservassero, per il puro valore venale, non certo per venerazione, oggetti del Primo Tempio; e infatti Apione asserisce che Antioco Epifane – quando ebbe bisogno di raccogliere i fondi  di cui aveva bisogno, perché i templi erano le banche degli antichi re,  e magari lo sono ancora – aveva trovato nel tempio, meglio, nel tesoro del tempio, di Gerusalemme una testa d’asino d’oro, che quindi in malafede si volle ritenere adorata dai Giudei, Giuseppe Flavio, Contro Apione, 2,7) è morto a Gerusalemme  nel -586 con la distruzione del Primo Tempio (di Dagon) e la morte o l’esautorazione dei suoi sacerdoti (sia quelli rimasti  a Gerusalemme sia quelli andati in esilio, tutti  messi al bando dai yahweisti “tornati dall’esilio”), mentre la tradizione dei yahweisti imposti a Gerusalemme dall’esercito persiano finge che fino agli Oniadi la casta sadocita sia rimasta al potere (come poteva rimanere al potere la casta dei sacerdoti di Tifone/Dagon dopo l’avvento al potere dei yahweisti?). Dunque è evidente che l’unico modo perché si conservasse l’autentica tradizione di Abramo e del suo dio era solo attraverso i beduini ismaeliti ed idumei-“ebrei”  (e Maometto ebbe relazioni con gli ebrei della penisola arabica e ne sterminò diverse tribù quando ruppe con loro) dell’Arabia. Dunque, senza voler minimamente mettere in discussione la rivelazione coranica di cui Maometto fu depositario (perché lui ne è il testimone unico), io sostengo che la religione in cui credette per primo Maometto, ma già ad uno stadio ben definito, era quella del dio di Abramo/Khayan, l’hyksos-filisteo Tifone/Posidone Uranio/Dagon/Allāh/Eloāh a Gerusalemme e Ebron (con Ismaele/Apopis  anche alla Ka’ba) fin dal XVIII secolo a.C. Per molto tempo questa religione fu enoteistica, e a fianco di Allāh ci fu la sua Alilāt o Allāt, Afrodite Urania, venerata alla Ka’ba prima della riforma di Maometto. Attraverso il cugino (Waraka ibn Naufal) di sua moglie Hadiga –  che dopo sua moglie è il primo a prendere sul serio la sua rivelazione –  che « « leggeva le sacre Scritture e conosceva le dottrine dei seguaci della Torah e del Vangelo » … molto probabilmente un giudeo-cristiano dato che, evidentemente, leggeva la Bibbia in aramaico e non in greco – non vi era ancora, allora, una traduzione araba della Bibbia. » (Küng, p. 125),  Maometto disponeva delle stesse fonti di cui dispongo io  e poteva trovare conferma sui testi sacri abramitici in aramaico (se fossero stati scritti in greco sarebbe rimasto fregato), nonostante fossero già stati alterati dai yahweisti, della veridicità della sua rivelazione perché da quei testi risultava a lui, come oggi a me, che, veramente, Allāh era stato il dio di Abramo. Maometto crede in una religione storicamente vera ed è fedele testimone di questa religione storicamente vera. Quanto al fatto che Allāh sia davvero un dio io non lo credo (per il momento; sono costretto a dire “per il momento”, perché adesso per lo meno è provata la veridicità storica dell’affermazione di Allāh come dio di Abramo/Khayan, e se è vero fino a questo punto potrebbe essere vero anche oltre questo punto), ma io non credo a nessun dio. Le religioni giudea e cristiana sono invece anche storicamente false in quanto Yahweh, il dio della morte e della guerra, il Male Assoluto, non è mai stato il dio di Abramo. Quella cristiana è la più falsa di tutte perché i cristiani, attraverso il falso profeta egiziano colpevole primo della distruzione del Secondo Tempio, sono figli di Satana. Ora la strada è tracciata e io stesso, se potrò, se non potrò altri dopo di me la spianeranno per benino come un’autostrada. In sh’Allāh. Trovare la verità non ha prezzo. Per tutto il resto c’è … (ovviamente non ho nulla di preconcetto contro i cristiani; è che detesto i truffatori da quattro soldi)

Dopo aver chiarito che Eloāh biblico è Allāh andiamo a smascherare la truffa yahweista all’inizio di Genesi: « Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di Elohim (plurale: degli gli dèi) videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero in mogli quante ne vollero. Allora Yahweh disse: «Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni. » C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Elohim si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi. Yahweh vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra… E Yahweh si pentì di aver fatto l’uomo… Ma Noè trovò grazia agli occhi di Yahweh… » (Genesi 6,1-8) E Giavè manda il Diluvio, sì, il diluvio di fuoco dell’olocausto nucleare. Se l’unico dio è Yahweh, e dio se esiste deve essere unico, i yahweisti non potevano ovviamente citare sia Yahweh che Eloāh. Mettendo il nome al plurale, elohim, si dava l’illusione di parlare dei popoli politeisti e pagani. La verità è invece che il generale ribelle Yahweh (o chiunque indichiamo dietro a questo nome) sterminò le truppe sotto il suo comando  che erano prima di tutto truppe del presidente legittimamente in carica Eloāh/Allāh, dunque sterminò i figli di Allāh (le loro mogli e i figli avuti da esse) che si erano uniti, contravvenendo ai suoi ordini, con le terrestri della valle dell’Indo. Quando più avanti riciterò lo stesso passo per sostenere che i figli degli dèi (cioè di Eloāh/Allāh) sono i Filistei sopravissuti all’eruzione del Thera, dirò la stessa identica cosa, perché i Filistei della valle dell’Indo erano i cosiddetti giganti, nati dall’unione degli “Angeli” figli di Eloāh/Allāh e delle vallindie nere.

Gli Ebrei, se ed in quanto edomiti/idumei, in quanto cananei e in quanto filistei, cioè quanto a razza, possono benissimo essere figli di Abramo. Se non sono anche figli del dio di Abramo potrebbe, e sottolineo potrebbe, essere a causa dell’inganno dei sacerdoti yahweisti. Se « Fin da un’epoca molto antica, il tetragramma era… diventato un  tabù, trattato in modo del tutto singolare quanto alla grafia e riservato all’uso liturgico-cultuale; normalmente, quindi, non veniva pronunciato, ma sostituito con «signore» … [e] … «cielo».  » (Maier, p. 255) può darsi che ciò dipendesse dal fatto che la casta sacerdotale yahweista più intelligente e furba del Secondo Tempio  volesse evitare che qualcuno scoprisse la verità di un dio straniero, indeuropeo, Giavè/Giove, impostosi in Palestina con la violenza delle armi sulla popolazione semitica, e dunque la massa degli ebrei rimanesse ingannata sentendo chiamare questo dio El,  Elohîm e Adonâi come in realtà veniva chiamato anche, nel senso generico di “Signore”  (il nome reale era Eloāh/Allāh), al tempo di Abramo. Se YHWH significasse semplicemente “Egli è”, terza persona del verbo haiah, essere, o “Io sono colui che sono” (Enrico Zoffoli, Dizionario del cristianesimo, Sinopsis Iniziative Culturali, Roma, 1992, voce: nome di dio, dove si legge che « Dopo l’esilio babilonese gli Ebrei, per rispetto, evitavano di pronunziarlo, per cui esso divenne ineffabile. » Più che per rispetto, io direi per “pudore”) che male ci sarebbe stato a pronunciarlo?  D’altra parte i cristiani, proprio per sentirsi più yahweisti possibile, si rifanno a Gesù falso profeta egiziano  (in realtà proveniente dalla diaspora greca di Alessandria in Egitto) scatenante la guerriglia dal Monte degli Ulivi che alla fine porta alla distruzione del Secondo Tempio. Non contenti, i cristiani verranno poi a distruggere ed insediarsi a Roma, la sede dove Dagon (dei Feaci occidentali e di Romolo) s’era ulteriormente trasferito. Essi non sono figli di Abramo, ovviamente, né del suo dio, piuttosto del Male Assoluto.

Dopo l’arrivo del yahweismo, il culto del Male Assoluto, i cristiani ne sono oggi i più aderenti rappresentanti,  mentre gli appartenenti alla religione ebraica mi appaiono quanto meno più moderati, anche perché essi non sono portati a fare proseliti, in quanto yahweisti si nasce, e inoltre non mirano, né potrebbero, al dominio sulla Terra. Un indizio della loro onestà rispetto ai cristiani può essere questo: « E’ altresì documentato che, dopo il 70 d.C., i rabbi ebbero dei dubbi sull’uso dei «Settanta»…  approntando (con Aquila) nuove traduzioni greche ad uso della diaspora di lingua greca. Spesso si interpreta questa iniziativa rabbinica come una reazione all’impiego cristiano dei «Settanta». Certo, questo fattore ha avuto un ruolo crescente nel corso dei secoli… » (Maier, p. 21) Certamente la versione greca e latina (e quelle che via via sforna la CEI in italiano per far quattrini, servendosi di che cazzo – quando ce vo’ ce vo’ si dice a Roma –  di eminenti specialisti,  se poi dal punto di vista scientifico fanno schifo? Cara CEI, c’è tutto da rifare, Antico e Nuovo Testamento vanno rivisitati tutti daccapo e da veri competenti, non quelli che ti scegli tu o che l’establishment ti impone di scegliere) dell’Antico Testamento può non corrispondere a quella ebraica di Torah, Profeti e Scritti. Non corrisponde (a parte ovviamente certi libri considerati canonici dai cristiani e ignorati dalla Bibbia ebraica) soprattutto perché solo nell’“Antico Testamento” ebraico i nomi di dio vengono dati esattamente come sono, senza fare di tutta l’erba un fascio. Così, dal confronto delle due versioni, appare evidente che il dio ebraico di Abramo e dei patriarchi fino a Mosè escluso aveva determinati nomi derivanti da una determinata storia, mentre da Mosè in poi è Yahweh. Ora, i cristiani, diabolici manipolatori, hanno fatto di Yahweh, il Male Assoluto, l’unico dio, sovrapponendolo ai nomi dell’altro venuto prima (come fa il lettore che non può verificare la traduzione dall’originale – mancando il testo originale a fronte, quello ebraico-aramaico, o comunque una chiarificazione nelle note – a capire che Dio, Dio altissimo, Signore, Elohim, e compagnia bella, possono trascrivere i nomi di due  dèi opposti, sottolineo opposti, fra loro come lo sono Yahweh e Allāh?).  I cristiani devono sapere – poi si regolino come credono –  che nella loro Bibbia fanno a cazzotti fra loro due dèi distinti, uno più antico e “buono”, Allāh di Abramo, l’altro malvagio e recente Yahweh di “Mosè” (in realtà dei popoli del mare e di terra indeuropei che invasero il Levante ma non lo conquistarono perché furono ricacciati indietro),  di cui Gesù/falso profeta di Alessandria d’Egitto sarebbe, per loro, i cristiani, il figlio.

Secondo me i Danai attaccano la Palestina dal mare e da nord, dalla valle di Israel (l’appendice 1 a Giudici dice che essi migrarono al nord, dunque erano (anche) a nord). Poi via via scendono a sud stabilendo il loro quartier generale a Silo, poi ancora più a sud dove hanno già perso  sonoramente al tempo del citrullo attaccabrighe Sansone. Sostengo dunque una teoria che non è ovviamente quella dell’Esodo, riscritto dai yahwisti del Secondo Tempio, ma ho buoni argomenti testuali – veterotestamentari –  a favore. Esodo travisa i Danai ormai sbandati del sud chiamandoli Madianiti e collocandoli nella penisola sinaitica dove li trova Mosè, ma essi venerano il dio della tempesta e della guerra Yahweh. Si tratta a mio avviso quanto meno di ricostruzione storica di un tempo passato sulla base di elementi attuali, quelli in cui i yahweisti, sconfitti e sbandati, si ritrovano tanto al nord (Israele) quanto al sud (Negev) come forsennati profeti (Elia, Eliseo) o attaccabrighe mercenari (vedi i mercenari di Kuntillat Ajrud del IX-VII secolo). Leggo in La Chiave di Hiram che dopo aver ucciso un egizio Mosè « si diede alla fuga, dirigendosi verso oriente, nella penisola sinaitica, dove fu accolto dai Madianiti (altresì detti Keniti) e dove prese in moglie Zippora, la figlia del re. In questa terra Mosè si avvicinò al dio delle tribù madianite, signore delle tempeste e della guerra, il cui simbolo era una sorta di motivo a croce che queste genti portavano impresso sulla fronte, in prosieguo noto con l’espressione «segno di Jahvè». Dopo l’incontro con Mosè sul monte Oreb questo ente divino abitatore delle montagne divenne per l’appunto ispiratore e motivo centrale del dio degli ebrei. » (Christopher Knight e Robert Lomas, Oscar Mondadori, 1998, p. 171) Ora, come ho detto, l’invasione della Palestina non venne dall’Egitto né dalla penisola del Sinai, ma è significativo che questo dio indeuropeo era già associato alla croce che si ritrova anche a Creta, non come semplice graffito, il che potrebbe avere diversi significati, anche decorativi, come la svastica, bensì attraverso due croci a bracci uguali in marmo e maiolica con  evidente connessione al culto.)

L’Antico Testamento è stato rimaneggiato (per la parte da Genesi a Salomone, 1 Re/2 Cronache; grosso modo, non sto qui a fare il riesame di tutti i testi; se mi daranno l’istituto farò questo e molto altro) e tutto il resto redatto ex novo dai sacerdoti-guerrieri yahweisti (spesso leggiamo nel’Iliade di guerrieri che in tempo di pace erano dei profeti, dunque sacerdoti-guerrieri). Questi si sono affacciati in Palestina al tempo dell’Esodo dei popoli del mare e di terra nel XIII-XII secolo a.C. Alla penuria alimentare (seguita alla carestia da raffreddamento della terra dopo l’eruzione del Thera) seguono regolarmente il fervore religioso, come nel suo lavoro bene evidenzia, con sottile ironia, B. Fagan (peccato che il suo lavoro non riguardi le età antiche di cui qui io mi occupo), e i disordini sociali. Dopo l’eruzione del Thera questo disordine sociale e religioso è portato avanti dai  yahweisti. I Danai/Achei (così li assimila Omero, ma io ritengo prevalentemente responsabili i Danai, meglio identificabili) –  animati da un  fervore religioso che doveva caricare gli animi contro un nemico da distruggere per  razziargli le fertili e ricche terre (è lo stesso principio che adottano gli angloamericani del Nemico islamico da distruggere per togliergli il petrolio ma soprattutto il territorio strategico per il dominio del mondo) –  partirono per una vera e propria crociata nella  Terra Promessa, che Yahweh gli destinava come Lebensraum, nella Terra Santa, che devastarono con un furore religioso (del clero del dio della morte e della guerra *dye/ow- >  Zeus/Giove/Yahweh  prima di tutto) contro il diverso, il nemico di Yahweh da sterminare, vecchi, donne, bambini, bestiame, mura e case, tutto, senza lasciare, dopo il loro passaggio, altro che cumuli di carne sanguinolenta e macerie fumanti. Olocausto. I yahweisti Danai non hanno forse inventato l’olocausto, come abbiamo visto, ma  ne hanno fatto una ideologia chiamata Antico Testamento, di cui il Nuovo non è che una derivazione, dove il lupo ha visto bene di  mascherarsi da buon pastore. Il nazismo dell’autore del Mein Kampf non è che una scopiazzatura dell’ideologia satanica del dio della guerra totale dell’Antico Testamento. E sono entrambe ideologie di popoli indeuropei. Tutte le ideologie totalitarie e sterminatrici nascono da questi insegnamenti, qualsiasi sia il loro colore. Le fonti omeriche non dipendono da quelle dei yahweisti come in un primo momento avevo cominciato a dubitare. All’inizio dell’Iliade sono gli Achei/Danai invasori a catturare l’arca/Criseide, poi restituita per porre termine alla peste inviata da Yahweh/Apollo, mentre nella battaglia di Afèq, del -1050, furono i Filistei/Pelasgi (che Omero definisce illustri) a vincere sugli Achei/Danai yahweisti e a portargi via l’arca (non solo, ma anche a radere al suolo il loro quartier generale di Silo, ponendo praticamente fine alla loro conquista; fine della “guerra di Troia”). Ma    a parte il fatto che Omero usa materiale estraneo per raccontare ai suoi fini la guerra di Troia, e dunque lo manipola a piacere, come possiamo appurare da altri esempi –  l’arca/Criseide viene restituita dai Danai/Achei (yahweisti) che perciò la perdono, secondo ogni verosimiglianza concordando con le originali fonti filisteo-cananee (l’arca certo non fu restituita; a chi se i Danai erano stati definitivamente sconfitti?), senza dover mettere in campo una tradizione yahweista –  vincente a questa data –  che non avrebbe avuto nessun centro urbano dove potersi sviluppare, men che meno a Gerusalemme, città di Dagon fino alla caduta del Primo Tempio. Possiamo invece ipotizzare che a partire dal X-IX secolo il clero abramitico ormai ampiamente “secolarizzato” riscriva la storia in funzione anti-filistea perché è contro i Filistei che alla fine Gerusalemme è venuta su come città cananea indipendente sotto un re discendente dai signori della guerra al servizio dei Filistei. Solo a partire dal Secondo Tempio, i yahweisti hanno riscritto la storia a loro uso e consumo senza un briciolo di verità. Sta allo storico ricostruire come avvennero realmente i fatti basandosi sugli errori dei yahweisti, perché, come si dice, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Dalla sconfitta ad Afèq e a Silo  i yahweisti sono rimasti sbandati al nord (Elia, Eliseo) come al sud (mercenari di Elefantina, Kuntillat Ajrud, ecc.)  come profeti e mercenari del loro sanguinario dio della guerra e della morte Yahweh. O sono tornati in Grecia o finiti in altre terre dell’Occidente. In tutto questo tempo i yahweisti della Palestina conservarono accanitamente le loro tradizioni mirando ad un futuro in cui avrebbero trionfato. Dopo che Dario II ebbe sconfitto Babilonia gli faceva comodo creare a Gerusalemme e altrove dei centri destabilizzatori dell’Occidente nel quadro della sua progettata invasione dell’Occidente per attuare il suo impero mondiale. I Persiani, infatti, attaccarono l’Occidente e la Grecia (ma la Grecia bene o male sventò i loro piani e li fermò; la Grecia ha il merito di aver salvato per prima la civiltà occidentale; dirò di più, ha un merito anche maggiore di Roma che invece alla fine soccombette per incuria al cristianesimo). Dario II e i suoi successori videro nei sacerdoti guerrieri yahweisti, invasi da furore bestiale contro chiunque non adorasse il loro unico dio, totalizzante, della morte e della guerra,  l’arma ideale per realizzare il loro progetto, e li insediarono a Gerusalemme incuranti dei cananei di religione anche abramitica che l’abitavano. Voglio proprio dire, si badi bene, che i yahweisti che i Persiani collocarono ai vertici di Gerusalemme nulla avevano mai avuto a che fare con Gerusalemme, e dunque non erano mai andati in esilio a Babilonia partendo da Gerusalemme. Ci furono portati – raccattati dal Sinai, dal Negev, dall’Israele pagano del nord, perché qui gli Assiri avevano deportato la popolazione originaria e l’avevano sostituita con genti venute dai quattro angoli del loro impero – dall’esercito persiano a bella posta. L’unica invasione vittoriosa della Palestina fatta dai yahweisti fu quella dietro alle armate persiane che ve li insediarono al tempo del cosiddetto ritorno dall’esilio in Babilonia. Da questo momento la redazione dell’Antico Testamento è la contraffazione di documenti filisteo-cananei (che narravano la controffensiva vittoriosa della Palestina contro i crociati yahweisti) e nord-arabici (idumei/edomiti, che raccontavano più o meno le stesse cose dal loro punto di vista) riscritti sulla base dell’interesse dei yahweisti a provare fin dall’inizio la loro conquista della Palestina, la Terra Promessa, la Terra Santa, in nome e per ordine di Yahweh, il dio Zeus di Ya(h)wan, la Grecia (voglio proporla come ipotesi; in ogni caso la Grecia non era l’unica fonte di provenienza dei Danai yahweisti).  E’ solo dal Secondo Tempio che esiste una Gerusalemme che venera Yahweh.

Dopo la catastrofe materiale e umanitaria successiva all’eruzione del Thera il mondo occidentale, cioè come io lo chiamo, moderno (ma è occidentale e moderno fin da Abramo), faceva risalire la sua storia non più in là di Minosse  e Radamanto, quando dai porti di Festo e Cnosso, o da quelli di Gaza (dove aveva sede un governatore egizio),  Ascalona e Ashdod,  i marinai filistei partivano alla volta della Sicilia per trasportarvi Minosse alla ricerca di Dedalo o dell’Eubea per trasportarvi Radamanto alla ricerca del gigante Tizio (Od. 7,321-324). (E’ vero che l’Antico Testamento andava più in là con Abramo/Khayan e i  Filistei in Palestina, ma questo ed altri accenni ad un tempo anteriore non erano nettamente ricostruiti, anche perché la redazione finale era dei yahweisti che, oltre a manomettere la verità, conoscevano bene solo la loro “epopea” di popolo occidentale e nordico) Dei Filistei ho già detto abbastanza. I faraoni Tuthmosis IV e Amenofi III/Radamanto e il loro visir Yuya/Minosse se ne  servivano come sudditi fidati per il controllo dei turbolenti sudditi dell’Egeo e  del Levante, oltre che per esplorare il Mediterraneo a Occidente e il Mar Nero a Oriente.  L’unico documento pervenutoci dei Filistei è l’Apoteosi di Radamanto, del -1348, che attesta una perfetta collaborazione fra clero filisteo dell’Ida (dove Zeus Velkhanos deve essere l’erede di Tifone/Dagon/Posidone Uranio) e casa faraonica ancora al tempo della successione di Amenofi IV, il re eretico adoratore di Aton, ad Amenofi III. Un tempo non lontano Festo era stata la sede di un governatore egizio o filisteo su tutta Creta che adesso, nel  tritopalazziale, risiedeva ad  Haghia Triada. Quanto al disco di Vladikavkaz  è indizio che al tempo di Radamanto i  Filistei navigavano  fino alla Colchide sulle coste del  Mar Nero per riportarne indietro il ferro (oltre che l’oro), ma anche  le mogli hurrito-indiane dei faraoni (Tuthmosis IV) e dei visir (Minosse un maryannu,  signore della guerra, filisteo, aveva sposato Tuya/Pasifae e la loro figlia  Teye/Megara  era andata in moglie ad Amenofi IV). Le conoscenze geografiche sul Mediterraneo orientale e sul Mar Nero pervennero ad Omero tramite i Filistei (i Feaci omerici, che in origine avevo identificato coi Tirreni orientali e occidentali, cioè con gli Etruschi). Quando il Thera eruppe, verso il -1340, diede davvero inizio all’età moderna. Niente sarebbe più stato come prima. La terra, specie in Europa, si raffreddò e furono anni di carestia.  In seguito al periodo di raffreddamento  comparvero le foche (animali polari) sul mare “nebbioso” antistante il delta egiziano (Od. 4, 404ss). Banchi galleggianti di ghiaccio  « da lontano grazie alla caratteristica luminosità che vi si riflette » (Brian Fagan, La rivoluzione del clima, Sperling & Kupfer, 2001, p. 5)  suggerirono alla fantasia omerica « l’isola galleggiante [di Eolo]: tutta un muro di bronzo, indistruttibile, la circondava, nuda s’ergeva la roccia. » (10, 3-4) Dunque non c’è assolutamente bisogno di teorizzare che Omero sia nordico o che i poemi da lui rielaborati abbiano un nucleo di origine nordica. Tutto ciò che di nordico v’è nei poemi deriva semplicemente dal contatto di Omero con i popoli indeuropei del mare e di terra (e soprattutto con le tradizioni circolanti sul loro conto) scesi nei paesi del Mediterraneo centro orientale dopo la catastrofe, e col periodo di raffreddamento del Mediterraneo stesso. Anche riguardo al santuario di Ilizia a Pyrgi non c’è affatto bisogno di teorizzare la sua fondazione a partire da nuclei di nordici o da tradizioni nordiche. In seguito ad approfondimenti recenti (la lettura approfondita del lavoro citato di J. I. Miller, che si fonda sulle conoscenze geografiche di Tolomeo), e secondo logica, il Sole sorge a oriente e dunque se Ilizia ha aiutato Latona a partorire Apollo/Sole, deve essere venuta da oriente anche se il paese da cui proveniva era detto degli Iperborei, che suscita l’idea che venissero dal polo o giù di lì. In realtà Tolomeo sapeva che gli Iperborei vivevano all’estremo oriente della Cina settentrionale (il limite estremo della terra conosciuta), e la Cina è più che altro un paese estremo-orientale.

 

 

Secondo Brian Fagan « Le eruzioni hanno importanti conseguenze climatiche a causa della cenere che producono, che può resistere nell’atmosfera per anni. Le ipotesi che vedono un legame tra le eruzioni e il clima circolano da molto tempo. Benjamin Franklin teorizzò che la cenere vulcanica è in grado di abbassare la temperatura  sulla terra. Nel 1913 uno scienziato dell’US Weather Bureau, William Humphreys, usò i dati della spettacolare eruzione del 1883 del Krakatoa nel Sudest asiatico, per documentare la correlazione tra eruzioni vulcaniche storiche e mutamenti globali della temperatura. La cenere vulcanica ha una capacità di schermare la terra dalle radiazioni solari circa trenta volte superiore all’efficacia che ha di impedire al calore del globo di sfuggire. Durante i tre anni che potrebbe impiegare la cenere di una grande eruzione a depositarsi, la temperatura media di gran parte del globo può abbassarsi anche di un intero grado, forse anche di più. Gli effetti più marcati tendono a essere quelli che si manifestano durante l’estate successiva a un evento vulcanico maggiore… Le maggiori eruzioni vulcaniche hanno portato quasi invariabilmente estati più fredde e cattivi raccolti, fenomeni naturali non connessi con le interminabili perturbazioni della Piccola Era Glaciale… » (pp. 61-2) E ancora: « La densa polvere vulcanica  a forti altitudini diminuisce l’assorbimento delle radiazioni solari in arrivo riducendo la trasparenza dell’atmosfera, il che provoca minori temperature di superficie. Gli effetti possono essere valutati dalle misurazioni complessive prese dopo l’eruzione del Krakatoa del 1883, quando la media mensile di radiazione solare scese del 20-22 per cento al di sotto del valore medio per il periodo 1883-1938. Se un aumento della luce e del calore dispersi (radiazione diffusa) compensa in parte il calo, una fluttuazione di appena l’1 per cento dell’energia solare assorbita dalla terra può alterare le temperature di superficie anche di 1 °C. In un’area agricola marginale come la Scandinavia settentrionale, questa differenza può essere critica. Un decremento nella radiazione solare porta a un indebolimento della circolazione zonale nelle latitudini settentrionali e spinge a sud, verso l’equatore, i percorsi delle depressioni prevalenti occidentali. La bassa pressione subpolare si muove verso sud. Alle latitudini temperate settentrionali arriva una primavera più fredda e più fosca, portando precipitazioni maggiori del normale. Una prolungata attività vulcanica può avere un effetto potente. Le grandi eruzioni dal 1812 al 1815 contribuirono a spingere il minimo subpolare  di mezza estate fino a 60,7° nord, sei gradi buoni più a sud di quanto fosse nei mesi di luglio tra il 1925 e il 1934. » (Fagan,  pp. 191-2)   Come conseguenza dell’eruzione e dei terremoti  seguì un’alluvione che i yahweisti hanno trasformato incautamente nel Diluvio di Noè:  « Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli degli dèi videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero in mogli quante ne vollero. Allora Yahweh disse: «Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni. » C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli degli dèi si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi. Yahweh vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra… E Yahweh si pentì di aver fatto l’uomo… Ma Noè trovò grazia agli occhi di Yahweh… » (Genesi 6,1-8) E Giavè manda il Diluvio. Qui c’è la stessa concezione greca di un Achille figlio di Teti (questa Teti, Tetisheri, moglie del faraone della XVII dinastia tebana Tao I, dopo morta fu divinizzata come dea oracolare – tutta la famiglia dinastica era venerata sotto il nome di “Signori dell’Occidente” a Deir el-Medina dove gli operai lavoravano a costruire  le tombe reali, Gardiner, pp. 157-160 –  dai Filistei/Feaci e da tutti quei popoli intorno al Mar Nero come i Tursha, antenati degli Etrusco-Romani, che lavoravano soprattutto alla ricerca del ferro e dell’oro per i faraoni egizi) o di un Enea figlio di Afrodite, o ancora un Odisseo che Calipso sposerebbe volentieri. C’è anche l’accenno alla malvagità degli uomini, compresi evidentemente i giudici che non pronunciano giuste sentenze. I Greci lo ricorderanno come diluvio  di Deucalione, sì, ma Deucalione figlio di Minosse, cioè Ay, visir di Amenofi IV. I popoli nordici ma anche i libici i frigi, gli aramei emigrarono dalle loro terre in cerca di cibo. Fecero la loro comparsa i popoli del mare e di terra che attaccarono i paesi ricchi. Attaccarono l’Egitto in diverse ondate, una decisiva sotto Ramesses III, che li ricacciò in mare, ma si erano già  insediati nel Levante e l’Egitto divenne da quel momento una “canna rotta”. Il regno ittita sparì dalla storia.

 

 

Ma da dove vengono questi adoratori di Yahweh? Innanzitutto sono un popolo indeuropeo, perché io sono convinto che Yahweh derivi come Giove/Zeus  dalla radice indeuropea *dye/ow-. Nella cartina sopra,  si consideri la  freccia che parte dal Pamir e dalle Montagne Celesti, scende lungo la valle dell’Indo e passando per Mohenjo-daro si dirama nel Levante, Caucaso, Alta Siria, Cilicia,  Cipro,  Grecia, Creta, da una parte,  Palestina, e delta egiziano dall’altra. Questo deve essere stato il percorso degli Hyksos portatori di Tifone e dei proto-Filistei e Hurriti e Vallindi di lingua indeuropea nel XVIII secolo. Una seconda più tarda ondata di indeuropei portatori di Yahweh parte  al di sopra del Mar Nero e scende diramandosi come nella figura attardandosi in   Tracia, Tessaglia e Frigia, area di dialetto traco-frigio. Questi,  Sherdana e  Danai/Achei, che poco prima  si erano stabiliti in Grecia,  dopo l’eruzione del Thera e i suoi effetti devastanti  al tempo di Ay/Deucalione si mossero conquistando  Cnosso (e Creta) e poi da qui e dall’area traco-frigia, unendosi ai popoli del mare e di terra,  finirono di distruggere (compiendo l’opera del Thera)  la civiltà antica riversandosi in Cilicia (gli Achei omerici combattono sia nella Troade che in Cilicia) e in Siria-Palestina,  e poi sparendo nei secoli  bui che da protagonisti avevano contribuito a determinare. Ma non sparì la loro religione, che alla fine (Secondo Tempio) attecchì in Palestina e da qui, attraverso un processo di cui ho già detto altrove, passò a Roma da dove si diffuse come cristianesimo.  Vivendo ai margini dell’impero filisteo gli Sherdana e i Danai/Achei acquisirono vagamente dei costumi greci (pelasgi) come anche la lingua. In Grecia potrebbero aver assorbito il dialetto filisteo-pelasgico (proto-ionico) producendo l’arcado-cipriota (miceneo), oppure, più verisimilmente, aver costretto gli scribi locali a tenere i conti nella lingua originaria ma per conto proprio, dei nuovi padroni. Erano dunque capaci quanto meno di leggere e capire a sufficienza, e di controllare l’esattezza dei conti, anche se eventualmente non parlavano e scrivevano la lingua correntemente.  Sono quelli che gli studiosi chiamano Micenei (ma solo quelli del Miceneo recente: 1400-1200). I Danai devono essere stati ricompresi sotto il nome di Achei, altrimenti non sono fra i popoli greci di Creta (Pelasgi, Achei e Dori) e non compaiono nella  genealogia etno-linguistica della Grecia, e ciò tanto in Omero (nonostante i suoi Danai nell’Iliade assimilati agli Achei) che in Esiodo. Sono genti che potevano essere stanziate dal Danubio al Don,  scese a meridione  ed attestatesi in area traco-frigia, da cui si mossero per fondare la dinastia di Tantalo e Pelope. I yahweisti, al momento di contraffare i testi sacri del Primo Tempio, di Dagon, a Gerusalemme,  attribuirono le loro caratteristiche traco-frigie, cioè barbare, anche ad Abramo e ai patriarchi. Infatti, in modo affine ai  druidi celtici (da cui comunque bisogna distinguerli), praticavano i sacrifici umani in nome di Diana o Artemide Taurica. Si pensi ad Ifigenia sacrificata da Agamennone suo padre per avere il vento favorevole alla volta di Troia. Si pensi ancora a Idomeneo, che corrisponde al “giudice”, in realtà al sacerdote guerriero Iefte, che fa voto a Yahweh che in caso di vittoria farà in suo onore l’olocausto del primo familiare che uscendo  da casa sua al rientro a Cnosso gli verrà incontro, e infatti sacrificherà sua figlia. Idomeneo è un Danao, un Tanaja, uno che viene dalla “valle del Don” un “Miceneo” che nulla ha a che vedere con Yuya/Minosse e Ay/Deucalione visir filistei dei faraoni egizi su una popolazione pelasgo-filistea che ha come capitale Festo, poi Haghia Triada al tempo di Radamanto/Amenofi III.  Ma i yahweisti, per quanto abbiano tutto contraffatto, non hanno potuto attribuire questo misfatto ad Abramo/Khayan. Dovettero immaginare che avrebbe obbedito ciecamente all’ordine criminale di Yahweh se questo alla fine non ci avesse ripensato graziando Isacco.  Questo culto traco-frigio fu portato anche nel Lazio sul lago di Nemi dove, presso il santuario di Diana,  sacerdoti vagamente druidici  regolavano secondo consuetudine la loro successione ricorrendo nei casi estremi perfino ad un duello mortale. La migliore esemplificazione dell’arrivo dei Danai/Achei  che si sovrappongono ai Filistei/Pelasgi è data da Creta dove i Danai  sostituiscono il loro  *dye/ow- >  Zeus/Yahweh dio della guerra  e le loro classi indeuropee a Tifone/Posidone/Dagon/Zeus Velkhanos, e alle quattro classi sociali filistee dei Titani re e sacerdoti, Giganti guerrieri, Centimani agricoltori e Ciclopi artigiani. Adottarono la lineare B quando cominciarono la conquista della Grecia all’inizio del Miceneo recente. Dopo l’eruzione del Thera  presero Creta, dunque una generazione prima del 1300 (al tempo del faraone Horemhab che la tradizione di Manetone ha identificato con Danao) dove dominarono dal palazzo di Cnosso. La cosiddetta guerra dei Sette contro Tebe deve essere successiva e potrebbe essere una trasfigurazione dell’assalto all’Egitto coi popoli del mare, mentre la guerra di Troia  soprattutto una trasfigurazione delle ultime battaglie nel Levante, e in particolare della battaglia di Afèq.  Ho il sospetto che il cosiddetto «vasellame filisteo», di produzione locale ma che somiglia allo stile Miceneo III C IB, appartenga ai Danai invasori della Palestina perché gli esempi più strettamente somiglianti provengono da Tarso in Cilicia, da Cipro e da Cnosso. La produzione filistea risalendo al XVIII secolo, in qualche modo si deve confondere con quella cananea. I Filistei non arrivano nel XIV secolo, i Danai sì.

Nella cartina sotto, da Francis Conte, Gli Slavi, si può verificare che i nomi dei fiumi, dal Danubio (Istros) al Dnestr (Tiras; nella cartina il fiume e il nome è coperto dall’area tratteggiata del territorio slavo delle origini) al Dnepr (Borysthenes)  al Don (Tanais) e al Donec, fiumi della steppa scitica, sono tutti caratterizzati dalla radice dan-/don- iranica di danu “fiume” (Tascabili Einaudi, p. 322). 

Che i fiumi fossero divini per i Danai lo dimostra il fatto che Achille appena nato fu immerso da sua madre nelle acque dello Stige per renderlo invulnerabile.  Sia Achille che Odisseo venerano lo Zeus di Dodona: « In Tesprotide… c’è il tempio di Zeus a Dodona e la quercia sacra al dio. Inoltre, presso Cichiro, c’è anche la palude detta Acherusia e il fiume Acheronte, e scorre l’acqua tristissima del Cocito. » (Pausania, 1, 18,1) Si trattava di un nekyomantêion  che ci ricorda la negromante interrogata da Saul, comandante ribelle di una guarnigione filistea di 600 uomini. Iardēn, hiaròs + dan = “sacro fiume”, è dato sia al Giordano (il fiume in cui Giovanni immergeva la gente battezzandola in nome di Yahweh) che allo Iardanos (attuale Hieropotamos), che scorre vicino Festo nella piana della Messarà, e ancora ad un fiume dell’Elide (Il. 7,135), dove regnava Enomao padre di Ippodamia che  Pelope, dopo aver vinto con la frode la corsa dei carri, sposò ereditando il regno. E’ evidente che furono i Danai/Achei ad imporre questi nomi ai fiumi laddove arrivarono. Era « usanza degli antichi Celti continentali (e dei Germani) di tuffare i loro bambini appena nati nelle acque del Reno. » (F. Le Roux e Ch-J. Guyonvarc’h, I Druidi, ECIG, 2a ed. 2000, p. 163) Sulla base della mia decifrazione dell’Apoteosi di Radamanto, fiume in filisteo è JOR, per cui al limite il  Giordano,  fiume di un’area in cui dominarono i Filistei potrebbe aver avuto in origine un’etimologia filistea (“Fiume secco”? In effetti il Giordano è un fiume solo per modo di dire). Qui avrebbe predominato il dialetto ionico dei Filistei, mentre, dopo l’arrivo dei Danai e Achei nordici, cioè dorici, si sarebbe sostituita la loro interpretazione dei nomi dei fiumi principali.

E’ evidente che i nomi greci dei fiumi Tiras (così anche in Gen. 10,2) e Tanais danno il nome alle rispettive popolazioni dei Tirsenoi/Tirreni, eg. Trshw, e dei Danai/Tanaja/Danuna/Daniti, calate insieme ai popoli del mare.

Dunque credo di aver  scoperto la patria di origine dei Tirreni/Etruschi, cui vanno associati in qualche modo, soprattutto attraverso il giudice (sulla questione se si debba o no restituire ai Colchi Medea fuggita con gli Argonauti) Alcinoo di Pyrgi, anche i Mossineci a sud del Mar Nero (che saranno più affini ai Filistei come filistei/pelasgi sono i Feaci di Scherìa). Secondo Senofonte, che ne attraversò il territorio, i Mossineci hanno pelle candida e si tatuano, non si vergognano della nudità e di accoppiarsi in pubblico, vivono in torri e case di legno a forma conica dette “mossine”, hanno canoe da tre posti, i guerrieri portano caschi di cuoio di foggia paflagonica simili a tiare con pennacchio in cima, bipenni di ferro, giavellotti e aste enormi, hanno degli armati alla leggera che in improvvise sortite lanciano pietre, tagliano la testa dei nemici uccisi, mangiano delfini affettati e in salamoia e castagne bollite e abbrustolite come pane, vino che mescolato con acqua diveniva dolce e profumato, Anabasi V, 4,1-34; sono tutti elementi che in qualche modo si riscontrano nei segni del sillabario filisteo).  Agli antenati degli Etruschi, che sono anche di nuovo i Filistei di Vladikavkaz, si riferiscono certo questi elementi culturali che traggo da F. Conte: « Fra gli dei del paganesimo slavo, Chors e Simar’gl provengono direttamente dai culti delle popolazioni di ceppo iranico stanziati nelle steppe contornanti il Mar Nero. Simar’gl o Simar’g sono forme sarmatiche rinvenibili nel vocabolo marg, «uccello» in osseto moderno – lingua tuttora parlata nel Caucaso sovietico, nella repubblica autonoma dell’Ossetia del Nord e nella regione autonoma dell’Ossetia del Sud abitate dai pronipoti dei Sarmati-Alani. Il persiano, poi, usava Simurg…  L’uccello era legato a Simar’gl, uccello cane, grifone la cui missione consisteva nel proteggere l’albero della vita, produttore d’ogni semente. » (pp. 323-4 e 325)

 

 

E’ dunque evidente che il Disco di Vladikavkaz è stato ritrovato (nel Caucaso) più o meno  dalle parti da cui sono transitati i Filistei/Pelasgi (provenienti dalla Vallindia) e dove vivevano  i Mossineci, il che non vuol dire che sia scritto in greco come l’Apoteosi di Radamanto, e nemmeno che la sua scrittura sia originata in Ossetia. L’ipotesi per me più plausibile al momento è che si tratti di cultura di ritorno dalla Filistea con una scrittura eventualmente adattata a trascrivere un hurrito-iranico. E i Filistei/Feaci omerici (poi stabilitisi a Tarquinia col suo porto di Pyrgi divenendo Etruschi) per conto dei faraoni navigavano fino al Mar Nero da cui portavano indietro l’oro e i grifoni (i grifoni etruschi) che secondo Erodoto lo custodivano, come adesso erano chiamati a custodire le dimore dei defunti e i defunti stessi. Sono essi i primi  Tirreni.

Ricapitolando, su una base autoctona, abbiamo prima elementi filisteo-pelasgi (i Feaci omerici) “troiani”, poi dell’area del Dnestr/Tiras arrivano i Tursha/Tirreni di ritorno dalle guerre in Levante, insieme  magari ai Mossineci costruttori di torri, poi possiamo inserire i Sabini di stirpe celto-germanica scesi dalle montagne dell’Appennino, infine genti siro-cipriote che portano l’orientalizante.  Roma, fondata dal giudeo Romolo, in testa con Tarquinia, Cere, Pyrgi, ed altre dell’Alto Lazio, è la prima città “etrusca”. Del resto bisogna ricordare che Rasen(n)a è il nome etnico etrusco, e questo si ricollega, come ho già scritto, al Rasenw egizio, cioè alla Siria costiera.

L’Esodo della tradizione greca dei Danai/Yawan dalla Grecia e da Creta verso il Levante (si pensi all’inverosimile invincibile armata achea dell’Iliade partita da Aulide in Beozia verso la Troade e la Cilicia e a Odisseo che quando non si vuol far riconoscere dice di essere un principe bastardo cretese che ha compiuto spedizioni piratiche fino al delta egizio) si lega alle testimonianze egizie. Un primo assalto è nel quinto anno di  Merenptaḥ, nel -1208 da parte di Maraye figlio del re dei Libi con i Qeheq e i Meshwesh, dal lato occidentale del delta. Dall’altra parte un movimento di cinque popoli da nord e da oriente che in senso orario discende il Levante per mare e per terra dalla regione traco-frigia  fino a irrompere in Palestina e poi ai confini orientali del delta egiziano. Si tratta di Dardani, Luka/Lici,   Aqaiwasha/Achei (a volte vengono letti Eqwesh e ricordano gli Equi poi arrivati nel Lazio) della Troade e più in generale dell’Anatolia occidentale,   Sheklesh (Siculi, che daranno il nome alla Sicilia quando ci andranno a finire) e Tyrsha (che non possono venire dall’Etruria/Tirrenia, ma ci verranno a finire). Mentre i Libici a occidente non praticavano la circoncisione, Sherdana, Sheklesh, Aqaiwasha e Tyrsha sì [dunque è da questi popoli che deriva l’usanza ebraica della circoncisione!], e da tempo immemorabile, per cui ai morti venivanono tagliate solo le mani. Ai Libici uccisi venivano invece tagliati i genitali ammucchiati e offerti, come le mani degli altri, al faraone (Gardiner, p. 245). Con gli Aqaiwasha  Achei/Danai possiamo immaginare di collocare intorno a questa data (-1208) l’aggressione capeggiata dal sacerdote-guerriero Giosuè alla piana di Israel, che,  nonostante l’intervento vittorioso  – dice  il faraone – sulla regione,  questa appare dalle iscrizioni del tempio di Karnak « desolata e non ha più seme ». Ma sappiamo che gli Egizi amano esagerare. Una nuova  invasione  avvenne nell’anno -1178, l’ottavo del regno di Ramesses III: « I paesi stranieri ordirono un complotto nelle loro isole. La guerra si diffuse contemporaneamente in tutti i paesi e li sconvolse, e nessuno poté resistere alle loro armi, a incominciare dal Khatti, Kode, Karkamiş, Arzawa e Alasiya… [sono palesemente tutte regioni anatoliche fino alla Cilicia e a Cipro] Un attendamento fu posto in una località di Amor [Siria]    ed essi devastarono e spopolarono quel paese come se non fosse mai esistito. Essi avanzarono verso l’Egitto, con le fiamme davanti a sé  [le fiamme sono quelle che il faraone gli manda contro]. La loro confederazione era formata dai Peleset, Tjekker, Sheklesh, Danu e Weshesh, ed essi  si impossessarono dei paesi di tutto l’orbe terrestre, con cuore risoluto e fiducioso: « il nostro piano è compiuto! » Ma… Stabilii il mio fronte nel Djahi [Siria e Palestina], tenni pronti ad affrontarli i principi locali, i comandanti di guarnigione e i Maryannu [guerrieri carristi]. Feci approntare le foci del fiume  a guisa di vallo fortificato, con navi da guerra, galere e navigli leggeri, che furono completamente equipaggiati, da prua a poppa con arditi combattenti che portavano le loro armi, il fior fiore della fanteria egizia… » (A. Gardiner, La Civiltà Egizia, Einaudi, 1971, p. 259) Qui sono esplicitamente nominati  i Danu, Danuna di Amarna e della Cilicia, Danai omerici, Daniti biblici.  I Peleset sono i Pelasgi, cioè i Filistei occidentali/settentrionali rozzi e primitivi della regione traco-frigia; i Tjekker li possiamo identificare coi Teucri omerici della Troade;  i Weshesh con gli  Osci che poi vennero a finire in Italia. Gardiner cita ancora gli Sherdana che sono sia fra i nemici attaccanti che fra le guardie del corpo del faraone (p. 258). Questi avevano assalito l’Egitto già all’inizio del regno di Ramesses II (1279-1212) (Gardiner pp. 235-236) E’ evidente che gli Sherdana finirono in Sardegna dandole il nome. Mi paiono per vari motivi affini ai Danai e dunque pur non menzionandoli sempre esplicitamente quando parlo dei Danai invito a tenerli sempre presenti, come gli Aqaiwasha/Achei. L’unico elmo cornuto di tipo Sherdana  è stato trovato in Bulgaria, dunque in Tracia,  vicino a Sofia, in una tomba tracia del -VI-V secolo. Nei resoconti levantini sulla guerra crociata gli Sherdana sono attestati all’estremo nord (tra Ugarit e Biblo; a Biblo arriva comunque l’influenza dei pirati gentiluomini Tjekker di Dor) e i Danai, chissà come, se non sono legati agli Sherdana, riescono ad intrufolarsi fra loro e i Tjekker nella piana di Israel.  Gli Sherdana, me lo dice il mio fiuto investigativo, devono avere culto simile a quello dei Danai, dall’arca puzzolente alla quercia oracolare di Yahweh/Zeus (Liverani, p. 28). Quando sono finiti in Sardegna vi hanno portato la loro tradizione yahweista e vi hanno elaborato dei bronzetti votivi, trovati nei pozzi sacri (della Sardegna/Purgatorio di Calipso omerica), che costituiscono una specie di Bibblia figurata (dicono gli archeologi) a partire dall’arca di Noè. In effetti, quanto all’arca di Noè, l’unica su cui posso discutere (e io ormai ho imparato a credere solo in me stesso, perché in giro c’è tanta ignoranza proprio fra i cosiddetti addetti ai lavori, e spesso più sono decantati più sono ignoranti), la navicella sarda di bronzo con figure di animali trovata nella tomba del Duce di Vetulonia, -VII sec., m’è sempre parsa un’arca di Noè. Ora, l’arca di Noè, rimanda a quanto ho scritto in altro lavoro a proposito del Diluvio del Mar Nero, che (correlato all’idea platonica di un’Atlantide nell’Oceano Atlantico che sappiamo nascondere comunque le vicende dei popoli del mare e di terra del -XIII-XII sec.), ci porta alla unica vera Atlantide possibile della storia, quella che portò all’emigrazione dei popoli yahweisti dal Mar Nero. Ora, poniamo che i sacerdoti del tempio di Neith a Sais abbiano (sulla base delle loro antiche carte e non capendo più la scrittura geroglifica né quella ieratica perché, ormai da qualche secolo era solo il demotico ad essere in uso) detto a Solone, nel -590, qualcosa che nemmeno loro sapevano orientare (l’Egitto non s’è mai troppo interessato al mondo che lo circondava) per bene e comunque l’orientavano all’egizia, e che ulteriormente Solone, attraverso l’interprete, abbia ulteriormente frainteso, e abbia ancora errato laddove diede un nome greco in base all’etimologia (da lui recuperata ci immaginiamo con quali competenze filologiche) a quegli stessi nomi che già gli Egizi avevano (con le loro competenze filologiche; del resto un nome tradotto etimologicamente è già perduto ai fini dell’identificazione geografica; occorre una trascrizione fonetica dei nomi per poterli adoperare al nostro fine) tradotto nella loro lingua. Non un’Atlantide, una Babele! E’ possibile allora che queste Colonne d’Ercole cui si riferivano i sacerdoti di Sais non siano lo Stretto di Gibilterra (qui comunque ce le mette Platone perché le Americhe sono dall’altra parte e a lui gli servono, le Americhe, per il suo trattato di geopolitica; dunque lo stesso Platone dà il colpo finale al depistaggio perché a lui Atlantide nel Mar Nero non gli serve proprio) ma quello dei Dardanelli? Tanto per cominciare i sacerdoti affermano che questa potenza, come del resto raccontano i testi di Medinet Habu, aveva conquistato la Libia e l’Egitto e parte dell’Europa fino alla Tirrenia, e tentò anche di conquistare Atene che sappiamo non essere stata toccata dal movimento dei popoli del mare. Tutto al di qua dello Stretto di Gibilterra (Timeo 25b). Ma se è tutto al di qua, anche Atlantide originaria sarà al di qua. In ogni caso i popoli del mare e di terra non vengono da paesi atlantici, né da Occidente della Grecia, e dunque sono i traco-frigi, che vengono dal Mar Nero, e probabilmente possono transitare coi carri pieni di donne e bambini proprio perché quelle acque (nei vecchi testi dei sacerdoti di Sais, non necessariamente al tempo di Solone o di Platone) in qualche modo s’erano abbassate ed erano diventate sentieri fangosi che univano le due Colonne dello Stretto dei Dardanelli e tutto lo Stretto con lo stesso Mare di Marmara abbastanza prosciugato. E’ per questo che i Traci (Achei, Danai, Sherdana, Peleset) poterono dare l’assalto a Troia, altro che invincibile armata partita da Aulide. Ma allora quello del Mar Nero non fu un Diluvio. Piuttosto una conseguenza del raffreddamento terrestre con abbassamento delle acque e siccità. Poi c’è la confusione fra la potenza di “Atlantide” che avrà potuto avere Troia come città emblema, e gli invasori popoli del mare e di terra che invece, dominando sulla Libia, l’Egitto, la Tirrenia (qui si riferisce a Sheklesh, Sherdana e Tyrsha ma anacronisticamente perché costoro vennero dopo), distrussero Atlantide e il Levante.

« Allora infatti quel mare [che io per ipotesi chiamo Mar Nero]  era navigabile [dunque se non lo è più vuol dire che le acque si sono abbassate e sono divenute fangose], e davanti  a quell’imboccatura che, come dite, voi chiamate colonne d’Ercole [Stretto dei Dardanelli], aveva un’isola, e quest’isola era più grande della Libia e dell’Asia messe insieme [così come le definivano l’Asia e la Libia gli antichi; certo ci sarà pure un’esagerazione da parte dei sacerdoti o di Solone ecc. sia nella stima dell’isola di Atlantide sia in quella, se ho ragione, del Mar Nero; ma è anche possibile, e da verificare, che tutte le isolette dell’Egeo davanti allo Stretto fino a Creta potessero  in qualche modo essere o essere considerate una grande isola prima di frammentarsi con l’eruzione del Thera e i terremoti connessi]: partendo da quella era possibile raggiungere le altre isole [all’interno del Mar Nero] per coloro che allora compivano le traversate, e dalle isole a tutto il continente [Asia] opposto che si trovava intorno a quel vero mare [Mar Nero]. Infatti tutto quanto è compreso nei limiti dell’imboccatura di cui ho parlato [il Mare di Marmara] appare come un porto caratterizzato da una stretta entrata: quell’altro mare [il Mar Nero], invece, puoi effettivamente chiamarlo mare e quella terra che interamente lo circonda [Asia] puoi veramente e assai giustamente chiamarla continente. » (Timeo 24e-25a) Per capire la mia teoria occorre prima di tutto ricordare che se Solone ha avuto questa tradizione dai sacerdoti di Sais comunque Platone ha travisato volutamente tutto perché non gli interessava Atlantide come fatto storico (che noi da tempo attribuiamo al –XIII-XII secolo e al movimento dei popoli del mare e di terra: J. V. Luce ne dà un’esposizione assai esauriente in La fine di Atlantide Newton Compton, 1976) bensì per la sua teoria geopolitica di Repubblica Timeo e Crizia. In ogni caso, se qualcosa è davvero avvenuto,  è avvenuto in area traco-frigia perché è da qui che scendono i popoli del mare e di terra.

Io ho solo sentito parlare di e non ho mai visto un curragh né un coracle, ma questa  navicella sarda vi somiglia moltissimo, apparendo leggerissima, con un’intelaiatura di legno ricoperta da pelli di animale,  col fondo piatto, utilizzata per lo più per la pesca sui fiumi e sui laghi. Solo i pazzi cristiani come Brendano coi più grandi curraghs  si avventuravano dall’Irlanda alla ricerca del Paradiso a Occidente. Posso immaginare dunque che i popoli del Mar Nero spostandosi in seguito verso nord e verso Occidente abbiano prestato ai Celti sia le corna degli Sherdana che i curraghs e i coracles del Mar Nero.

 

Gli stessi Danai devasteranno l’Occidente arrivando forse fino all’Irlanda coi Tuatha Dé Danann “Gente della Dea Dana” e oltre, se la testimonianza di Plutarco (De facie in orbe Lunae 26) dice il vero sull’esistenza di Greci in isole anche più a Occidente e a Nord. Si direbbe una febbre da evangelizzazione cristiana – se si pensa che costoro portavano come insegna la croce sia pure a tau –  ante litteram che ha preceduto le devastazioni cristiane di due millenni dopo. Ecco ancor più confermato ciò che ricavo dai poemi omerici e cioè un cristianesimo, nemmeno tanto paradossalmente, nato prima e più pericoloso dell’ebraismo. La versione dei fatti incisa sui rilievi del tempio di Medinet Habu doveva corrispondere anche ai documenti filisteo-cananei conservati dal clero di Dagon nel suo Primo Tempio a Gerusalemme. Nonostante le loro manipolazioni di questi documenti i yahweisti non ci impediranno di ricostruire i fatti esattamente come avvennero. Ovviamente l’attacco alla Palestina, come dice lo stesso faraone, precedette quello all’Egitto e dunque si colloca prima del 1178.

Già al tempo di Amenofi IV, il faraone teosofo ritiratosi nella sua Amarna, l’Egeo e il Levante erano in subbuglio e i pirati  iniziavano a colpire il Levante. Si alzavano grida di aiuto ma il faraone era tutto intento ad adorare Aton e se ne fregava (più o meno come gli imperatori esteti e filosofi del II secolo che hanno mandato in malora l’impero romano e l’hanno dato in mano ai cristiani). Gli bastava che qualcuno mandasse tributi, chiunque fosse, vecchi re o nuovi re impostisi ai primi, non faceva importanza. E intanto il Levante andava a fuoco. Ci furono giudici (ebraico = suffeti, greco = basilées) in Canaan, sia prima sia dopo l’eruzione del Thera. Si trovavano fra l’incudine delle comunità cittadine e di villaggio (di cui erano a capo)  che pagavano i tributi al faraone, e il martello dei funzionari anche locali, del palazzo governativo o dei principi (possiamo chiamarli wanaktes perché erano in gran parte filistei) che ritiravano i tributi in nome e per conto del faraone. Più la situazione si faceva critica più cresceva il malcontento popolare che, non potendosela prendere con l’asino, finivano per prendersela col basto, come avrebbe detto un personaggio del Satyricon. Rimase di loro un ricordo negativo anche perché, quando alla fine fu decapitato il palazzo e la rete di funzionari reali, le comunità che sopravvissero alla catastrofe, divenute indipendenti, continuarono ad avere come unico interlocutore, che adesso chiedeva i tributi per proprio conto, il suo o i suoi basilèes (Martin Bernal suggerisce che il nome derivi dall’egizio p3 sr, titolo comune  del visir, “funzionario”, che  in origine era sottoposto al wanax, al re, p. 76). Dunque più che iniqui i giudici dovettero chiedere alle loro comunità lacrime e sangue nel loro stesso interesse. Era soprattutto sgradevole la loro posizione in quanto  prima dovevano pretendere i tributi per conto del faraone e poi (anche il reclutamento forzato) per la difesa di Canaan dagli invasori. Fino a Omero ed Esiodo i giudici sono individui  che  « con prepotenza contorte sentenze sentenziano, e scacciano la giustizia, non curano l’occhio dei numi » (Il. 16, 387-8), « ingordi di doni, emettono verdetti con ambigue sentenze » (Opere e giorni, 221), « con torte sentenze … incuranti dell’occhio divino » (250-1), « ché il popolo paghi le malefatte dei giudici che, meditando luttuosi propositi, deviano le loro sentenze dal giusto con ambigui discorsi. Attenti a questo, o giudici, mangiatori di doni, raddrizzate le vostre parole, scordate del tutto i torti giudizi. » (260-4) e oltretutto vengono pagati per farlo e così vengono detti addirittura «mangiatori del popolo» (Il. 1,231). Dunque gli “iniqui” giudici cananei, insieme alle assemblee cittadine e di villaggio cui soprassedevano, furono da subito gli organismi locali  che dovettero reagire all’aggressione dei popoli del mare organizzandosi per la difesa e il contrattacco. I redattori yahweisti della Torah e poi del rimanente Antico Testamento rivisitarono tutta la storia facendo degli aggrediti (i giudici cananei e i Filistei) gli aggressori di Canaan. Credo di essere il primo a sostenere ciò, come anche – come vedremo –  che dei primi “re di Israele unitario” non v’è traccia perché erano signori della guerra al servizio del Filistei. I Danai, i Daniti della sedicente tribù ebrea di Dan,  condussero la prima guerra santa di sterminio in nome di un dio razzista, immorale, disumano, assassino, privo di qualsiasi scrupolo, il Male Assoluto, Yahweh. Danai e Sherdana sono la forza prevalente d’invasione. A sud c’erano già i Filistei e più a nord, fino alla piana di Israel e oltre ci sono i Danai (che inglobano i pirati gentiluomini Tjekker/Teucri che controllano i porti fenici e nel 1050 fanno sentire la loro influenza fino a Biblo), e poi da Biblo a Ugarit e oltre gli Sherdana. Danai e Sherdana, al tempo di Giosuè/Gesù (le due versioni del nome corrispondono all’identico originale), conquistarono  una testa di ponte a nord dei Tjekker, nella piana di Israel (Giudici appendice 1 fa migrare i Daniti al nord),  mentre alla fine del conflitto, intrappolati,  sono ridotti a difendersi al sud, dove si trova la Filistea,  guidati da un sacerdote-guerriero deficiente  di nome Sansone. Si portano dietro il loro “dio”, probabilmente un antenato guerriero defunto e mummificato, in un sarcofago o arca, che emana effluvi mortali.

 

 

 

Nel punto in cui la valle di Israel toccava quella del Giordano, a Bet-Shean (nella parte alta di questa cartina) gli Egizi avevano stabilito la residenza di un governatore a tutela di un terreno demaniale agricolo chiamato Yarimuta  che nel XIV, in tempo di crisi, sfamava perfino quelli di Biblo, molto più a nord (iscrizione LA74, Liverani, p. 387). Siccome i faraoni, come abbiamo visto, consideravano i Filistei come i più affidabili fra i loro sudditi, è evidente che anche in questo punto nodale del controllo egizio sul Levante vi fosse un presidio filisteo. E infatti le prime guerre seriamente ricostruibili avvengono coi Danai  che irrompono nella piana di Israel e contro il presidio filisteo di Bet-Shean che dispone di carri di ferro (« tutti i Cananei  che abitano nel paese della valle hanno carri di ferro, tanto in Bet-Shean  e nelle sue dipendenze, quanto nella pianura  di Israel, יזרעאל. » Giosuè 17,16). Israel non trascrive esattamente Israele, ישראל, ma è talmente simile che mi suggerisce che Israele nasca da qui. Tutto il resto è manipolazione yahweista. Laddove l’iscrizione ramesside dice che i popoli del mare si accamparono in Siria potrebbe riferirsi a quello che nell’Antico Testamento yahweista è il quartier generale di Silo (l’attendamento degli Achei omerici dove le varie tribù militari si incontrano intorno all’arca puzzolente di Yahweh e a druidi altrettanto puzzolenti, colleghi di Calcante, che con le loro profezie tentano di prendere il sopravvento sui veri e propri duci militari come Agamennone e Menelao). Ma l’iscrizione ramesside fa apparire l’assalto  a  Canaan come devastante e già assolutamente compiuto prima dell’attacco all’Egitto, mentre dai testi manipolati dai yahweisti risulta che la lotta fu dura, ma continuò fino alla disfatta dei yahweisti, perché nella battaglia di Afèq (-1050) i Danai yahweisti persero l’arca/Criseide, ma i Filistei non la restituirono nonostante contenesse  la pestilenziale mummia del loro dio-feticcio della morte e della guerra assimilabile al siriano Reshef e al greco Apollo. Essi infatti nello stesso anno rasero anche al suolo il quartier generale di Silo, costringento i Danai yahweisti allo sbando.

I yahweisti  si vantano di aver abbattuto 600 Filistei al tempo del “giudice” Samgar (Giudici 3,31). I giudici, come ho già spiegato, nella verità storica, sono solo cananei, quelli aggrediti. Gli aggressori sono guidati da delle specie di druidi, sacerdoti guerrieri. Poiché i yahweisti hanno manomesso tutto  è possibile che un determinato nome di giudice vada messo ora dalla parte dei Cananei, ed è un vero giudice, ora dalla parte dei Danai, ed è un druida guerriero.  Se davvero furono sconfitti, questa storica eroica di difesa del territorio di Canaan e dei suoi abitanti da parte del presidio filisteo colto di sprovvista (dalle iscrizioni che riguardano l’arrivo dei popoli del mare risulta che tutti furono colti di sorpresa, tranne gli Egizi del delta; il che non è vero perché alla fine anche l’Egitto dové sopportare la presenza di barbari ospitati al suo interno come accadde esattamente ai Romani coi popoli germanici) dall’arrivo dei predoni Danai è stata un’impresa epica  come quella dei 300 di Leonida nel tentativo di tenere la posizione fino all’arrivo dei rinforzi dalla Filistea, visto che da Amenofi IV i faraoni non hanno più quel potere che avevano un tempo e comunque si preoccupano sempre più di  se stessi e di salvare l’Egitto. Della ferocia dei Danai parlano l’infinità di città, fortificate e non, date alle fiamme insieme alla popolazione inerme, salvando solo, si può credere a Omero, le donne altocinte, dalle belle gambe lunghe, da usare come concubine (come Agamennone e Achille fanno con Criseide e Briseide rispettivamente, anche se Achille preferisce Patroclo; mentre gli Hyksos/Filistei di Troia sono poligami normalmente, gli Achei/Danai, come il loro dio Yahweh, sono normalmente sessualmente invertiti; Achille venera il santuario dello Zeus di Dodona i cui profeti sono gli Helli/Selli «che mai lavano i piedi, e dormono in terra» (Il. 16, 235), il che ci riporta a El, nome del dio generico ebraico, che certamente a Dodona e in genere nell’area traco-frigia era Zeus/Yahweh). E sarebbe una lettura istruttiva per quei cristiani in buona fede che ancora credono a questa religione del male assoluto. La loro  ferocia era gratuita, come si ricava da questo esempio: « sconfissero a Bezek diecimila uomini. Incontrato Adoni-Bezek a Bezek, l’attaccarono… lo catturarono e gli amputarono i pollici delle mani e dei piedi. » (Giudici 1,4-6) Quella di 600 uomini era certo l’unità tattica standard dei  Filistei, quattrocento che combattono e duecento che custodiscono le salmerie e magari in un secondo tempo possono rimpiazzarne duecento che retrocedono dalla battaglia, fra morti, feriti ed esausti. Evidentemente la rabbia forsennata dei yahweisti era un fiume in piena se anche  il generale Sisara coi suoi 900 carri ferrati fu  sconfitto presso il monte Tabor (Liverani fornisce un altro sito, secondo me totalmente fuori posto) al tempo in cui era “giudice” la profetessa o dovremmo dire la druidessa Debora  (Giudici 4). Ma  il Canto di Vittoria di Debora gli si strozzò in gola perché le cose cominciano ad andare male per i Danai a partire dal giudice Gedeone, che tanto per cominciare aveva un nome cananeo, Ierub-Baal. Egli fece flagellare i 77 anziani di Succot, demolì la torre di Penuel e uccise gli uomini della città (tutti costoro vengono presentati come Ebrei) perché si erano rifiutati di fornire l’aiuto alimentare ai suoi uomini stanchi e affamati (Giudici, 8,4-17). Abimelek, suo figlio,  regnò per tre anni su un territorio “ebraico” che comprendeva Sichem, dove era il tempio di Baal-Berit e il cui governatore si chiamava Zebul. Costui lo informa che la città gli si sta ribellando. Egli fa un agguato all’ingresso della città e uccide molti nemici, torna ad Aruma mentre Zebul caccia Gaal e i suoi fratelli. Il giorno dopo essendo usciti di nuovo fuori i ribelli, Abimelek tornò a Sichem, ne uccise tutti gli uomini e rase al suolo la città cospargendovi sopra il sale.  Diede fuoco alla torre di Sichem con dentro i rifugiati. Poi andò a cingere d’assedio Tebez e stava per appiccarvi il fuoco quando una donna dall’alto gli tirò in testa una macina e gli spaccò il cranio (Giudici 9). Mi pare evidente che Ierub-Baal/Gedeone e suo figlio Abimelek combatterono contro centri in precedenza occupati dai Danai yahweisti (“ebrei” in senso religioso) riconquistandoli.  Abbiamo ancora  il duce (non giudice) danao Iefte, che fece un voto  a Yahweh: « Se tu mi dai nelle mani gli Ammoniti, la persona che uscirà per prima dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per Yahweh e io l’offrirò in olocausto. » (Giudici 11,30-31) Ed effettivamente sacrificò in olocausto sua figlia quando tornò vittorioso (Giudici 11,32-40) a Cnosso, perché  si tratta di Idomeneo, che la tradizione greca ha voluto riallacciare ai dinasti egizi (al visir Minosse/Yuya e a suo figlio il visir Deucalione/Ay), mentre era un danao signore di Cnosso, sul quale la tradizione greca (raccolta anche dall’Eneide) racconta appunto una storia analoga.  Montanelli ha scritto giustamente che una nazione ha bisogno di eroi quando le cose vanno male, ed uccidere un familiare per vincere una guerra è sicuramente segno che le cose vanno male. Sansone, che non era in realtà un giudice ma  un sacerdote-guerriero, un nazireo consacrato in perpetuo a Yahweh, era un attaccabrighe e un puttaniere, oltretutto deficiente, perché si faceva fregare ripetutamente dalle prostitute, filistee per giunta, con cui si accompagnava. Le mire di “conquista” dei Danai terminano miseramente coi loro ultimi Calcante (da Eli e i suoi figli a Samuele; dal che deduciamo facilmente che contro i veri giudici cananei combatterono questi sacerdoti-guerrieri, questi druidi, portatori della  croce a “tau” di Yahweh) che vengono sconfitti dai Filistei nella battaglia di Afèq del 1050 i quali gli catturano l’arca-sarcofago del loro putrido dio e radono al suolo il campo di Silo (il quartier generale) alla stessa data (Knight e Lomas, p. 178). I Filistei  ripresero il controllo della regione e sistemarono un loro caposaldo anche a Sichem, intorno a cui sorgerà tutt’al più lo staterello nordista cananeo che qualcuno avrà magari anche chiamato  di Israele. I yahweisti rimasero sbandati in zona (tanto al nord quanto al sud,  come dei folli profeti di sciagure in nome del loro dio assassino (vedi Eliseo ed Elia al nord e i Madianiti al sud) o come mercenari guerrafondai al servizio di chiunque li pagasse (Elefantina, Kuntillat Ajrud, ecc).

Con la fine della vera guerra di Troia, con la battaglia di Afèq in cui i Danai persero l’arca e il loro quartier generale di Silo, con la fine  dei Danai/Achei, ai quali si addicono le parole di Odisseo, « noi, cui Zeus appunto donò che di giovinezza a vecchiaia dipanassimo il filo d’aspre guerre, finché a uno a uno moriamo! » (Il. 14,85ss), si apre una nuova pagina nella storia della Palestina. I Cananei, lavorando fianco a fianco dei Filistei, sono diventati come loro, si sono fusi con loro,  le loro donne si sono unite ai Filistei e ai loro maryannu carristi. I Cananei sono ora un popolo orgoglioso dei propri successi. A questo punto deve essere accaduto  quello che accade sempre. I capitani di ventura filistei o cananei al servizio dei Filistei, avendo sposato loro e i loro guerrieri donne cananee, vogliono portare avanti gli interessi indigeni (ma soprattutto i loro propri interessi) contro l’occupante, che ora è solo filisteo. Già Saul si ribella al governatore della fortezza filistea di Gibea ed è suo figlio Gionata a sconfiggerne la guarnigione. Saul  all’inizio della ribellione comandava seicento mercenari (1 Sam. 13,15). Anche  Davide all’inizio fu a capo di seicento mercenari come capitano di ventura al servizio del re filisteo di Gat.  Eli e i figli di Eli e  Samuele non furono giudici degeneri che si misero a fare solo i sacerdoti. Furono, come i precedenti, sacerdoti-guerrieri  yahweisti che volevano crearsi un potere politico, ma perdevano il controllo sui loro stessi seguaci che evidentemente provavano orrore, e ce ne voleva, per la loro efferata violenza druidica. L’equivalente Calcante non ha certo uno strapotere all’interno della coalizione di Achei/Danai che rapiscono Criseide/arca nella battaglia di Afèq, subiscono la pestilenza e devono restituirla per farla cessare. Egli chiede il soccorso di Achille per pronunciare il suo vaticinio, altrimenti Agamennone lo lascerebbe steso morto al solo aprir bocca. I capitani di ventura sono atei per definizione e non stanno certo ad ascoltare i profeti. E del resto in  Palestina prima del loro arrivo, nel XIV-XIII secolo « il mondo della politica sembra il più  «laico» che si fosse mai visto in tutto il Vicino Oriente  » (Mario Liverani, Oltre la Bibbia, Laterza, 2° ed. 2004, p. 22)  Però i seguaci di Yahweh zebaot (Giove degli eserciti) sono tanto pieni di furore religioso che avranno cercato a più riprese di prendere la mano ai vari condottieri. I Danai  si portavano dietro questi sacerdoti che trasportavano  in battaglia il loro dio in un’arca in cui è facile vedere una bara, un sarcofago pestilenziale, che manda le sue maledizioni come le celebri mummie dei faraoni che uccidono chi viola il loro riposo eterno. Avranno perfino adorato un loro eroe divinizzato e mummificato all’egizia.  I mercenari semiti  in Egitto lo chiamavano “Reshef il combattente”, dio della morte, della guerra, della pestilenza, che è poi  l’Apollo diffusore della peste all’inizio dell’Iliade.  Reshef era identificato anche con Seth e Baal-Tifone, divinità aborrite dagli Egiziani perché simbolizzanti le forze caotiche contrarie a quelle solari ed era affine al  dio della tempesta indeuropeo, Giove/Zeus. Queste identificazioni sono distorte dalla confusione egizia fra culto di Tifone (odiato perché erano odiati, a torto, gli Hyksos) e quello di Yahweh. Chi dice che i poemi omerici non traspirano aria di medioevo non ha capito nulla. Rifacciamoci allo spirito delle crociate, bandite (in cerca di un Lebensraum per i diseredati d’Europa che in patria davano solo fastidi,  per brama di ricchezze da accaparrare per la Chiesa, che si faceva anche ago della bilancia della politica europea, e con spirito assassino smanioso di vedere versato il sangue dell’infedele) da un papa cattolico, Urbano II, erede degli yahweisti maledetti del nord,  dalla distruzione del Secondo Tempio in poi, dal falso profeta egiziano (Gesù dei vangeli) in poi. Chissà quante volte un soldato crociato avrà dovuto trattenere, lui soldato, un frate dal massacrare e violare donne e bambini infedeli. A Saul, Davide (nonostante fosse un cinico assassino), Salomone, fecero schifo questi zelatori sacerdoti di un dio assetato di sangue come e più di quelli dell’America precolombiana, e li fecero letteralmente fuori come Saul i sacerdoti yahweisti di Nob. Tutto inizia quando Samuele ordina a Saul di colpire gli Amaleciti e votare allo sterminio tutto quel che appartiene loro: « non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini. » (1 Samuele, 15, 3; io credo che i genitori che permettono che i propri figli siano indottrinati all’empia religione giudeo-cristiana siano degli assassini  indegni di vivere nel consesso umano e civile, perché nessuna ignoranza è ammessa quando si tratta di educare i propri figli.) Non che Saul si sia comportato bene, perché sterminò il popolo degli Amaleciti, ma almeno risparmiò una vita, quella del re Agag, e poi il bestiame migliore. Samuele, venutolo a sapere, “divorzia” da Saul ed ha già in mente di ungere un suo sostituto (è il principio delle profezie che annunciano l’avvento di un nuovo re: prima o poi si trova uno senza scrupoli disposto ad assassinare il re legittimo per far piacere al sacerdote yahweista di turno), ma intanto disse: « «Conducetemi Agag, re di Àmalek.» Agag avanzò verso di lui tutto tremante, dicendo: «Certo è passata l’amarezza della morte!» Samuele l’apostrofò: «Come la tua spada ha privato di figli le donne, così sarà privata di figli tra le donne tua madre.» Poi Samuele trafisse Agag davanti al Signore in Gàlgala. Samuele andò quindi a Rama… » (1 Samuele 15,32-34) … con la coscienza tranquilla di aver fatto un’azione da vero uomo! Ma per chi ama la catarsi nei film di violenza, eccola! Poiché il partito di Samuele vuole destituire Saul aiutando il proscritto Davide e Saul lo viene a sapere,  « disse a Doeg:   «Accostati tu e colpisci i sacerdoti.» Doeg l’Idumeo [gli Idumei, come gli Arabi, i veri discendenti di Abramo, fanno sempre o quasi sempre la parte dei cattivi] si fece avanti e colpì di sua mano i sacerdoti e uccise in quel giorno ottantacinque uomini che portavano l’efod di lino. Saul passò a fil di spada Nob, la città dei sacerdoti: uomini e donne, fanciulli e lattanti; anche buoi, asini e pecore passò a fil di spada. Scampò  » solo Ebiatar (1 Samuele 22, 18-20), che verrà estromesso (forse anche soppresso, dato quel che combinò contro la sua regalità) da Salomone. Quanto è bello vedere che c’è una giustizia al di sopra del malvagio Giavè. Ora, questi preti intrallazzatori, che vogliono stare al di sopra del potere costituito perché si sentono investiti del potere di Yahweh, hanno cercato di seminare zizzania fino a trovare un capitano di ventura  abbastanza malleabile e corrotto e lo hanno trovato in Davide, la belva umana.   Saul vuol farsi il suo piccolo regno a nord e non sa nemmeno cosa significhi ebreo, né glie ne potrebbe fregare di meno. I suoi sudditi sono  Cananei, la prevalenza, che al momento  del crollo del potere centrale dovettero difendersi da soli o sotto la guida di un giudice dagli attacchi dei Danai e degli altri popoli del mare.  Il conflitto fra Davide e Saul non è tanto il conflitto fra due capi mercenari uno infedele, l’altro fedelissimo ai Filistei, quanto il tentativo del un sacerdozio profetico yahweista di crearsi un potere al di sopra della casta guerriera. Notiamo bene che poiché la storia l’hanno scritta i yahweisti, è probabilissimo che la loro  presenza storica a quest’epoca, dopo la disfatta di Afèq, sia del tutto infondata. Certamente loro intenzione era di dimostrare la loro presenza in ogni tempo e dappertutto, e soprattutto la loro necessità di esserci nella storia di Israele. Dunque tratterò di questa storia avvertendo che Samuele è sicuramente fuori di posto o comunque assai sospetto in tutte queste vicende. Ormai i sacerdoti yahweisti sono dispersi  nelle aree marginali all’estremo nord e all’estremo sud dove resteranno latitanti a predicare sciagure e fare i mercenari fino a che rispunteranno dal nord a distruggere il Secondo Tempio. Comunque rileggerò criticamente il testo yahweista quanto meno per evidenziare la violenza gratuita che esso manifesta. Samuele lo spietato unge Davide lo spietato –  che pare aver accettato di essere uno strumento nelle sue mani –   contro Saul.  A parte ciò non c’è molta differenza fra Saul e Davide nei confronti del culto, segno che anche allo schifoso Davide riusciva a far schifo –  e ce ne voleva – il clero yahweista con la sua mummia puzzolente. Se Saul mostra una totale avversità verso il clero e, pur spregiando la religione, è disposto ad essere lui l’intermediario fra la divinità e il suo popolo guerriero, Davide, che oltretutto è un falso ipocrita, non si fida dell’arca, che ha ucciso uno dei trasportatori coi suoi microbi pestilenziali (ma l’arca fu catturata dai Filistei, e certo non restituita, a chi poi, visto che i Danai erano disfatti? I Filistei avrebbero potuto porla come trofeo nel tesoro del Primo Tempio, a Gerusalemme; ma il fatto che Davide stia ancora discorrendo di portarla a Gerusalemme puzza; la cosa più plausibile è che l’arca fu distrutta dai Filistei per non nuocere più e in quanto oggetto immondo di un dio immondo, per cui  evidentemente nel Secondo Tempio gli ebrei, questa volta ebrei, hanno dovuto metterci una copia fatta da loro e certo senza i poteri dell’altra, ammesso che ne abbia mai avuti), e la tiene in deposito fuori Gerusalemme per tre mesi e non  costruirà il tempio, pur asserendo a parole che lui vive in un palazzo di cedro e che dunque a maggior ragione lo meriterebbe Yahweh. Da quel che segue della storia di Davide e il clero yahweista dubito assai che l’arca sia mai entrata in Gerusalemme sotto Davide o sotto lo stesso Salomone, per il semplice fatto che tanto pericoloso era il clero yahweista che fu tolto subito di mezzo in Giuda. Dunque non solo Saul spregiò la religione yahweista ma anche Davide e Salomone, che non pensarono mai di realizzare, né mai realizzarono un tempio per Giavè. Il Primo Tempio esisteva già ed era quello di Allāh, cioè Dagon/Tifone. Davide e  Salomone furono poligami  e le loro mogli straniere portavano con sé culti stranieri. Inoltre Davide e Salomone, come tutti i sovrani intelligenti, si adeguano ad osservare il culto locale nel Primo Tempio, di Dagon. Non erano razzisti come i sacerdoti di Giavè che proibivano i matrimoni con le straniere perché poi queste avrebbero indottrinato ai loro culti pagani i loro figli eredi al trono. Davide e Salomone, atei capitani di ventura, non veneravano Giavè. Davide, risiedendo a Qiriat Arba/Ebron, luogo santo di Abramo/Khayan, non ha dovuto ossequiare Yahweh (come invece sostiene Liverani) e  a maggior ragione dopo essersi  stabilito a Gerusalemme, città di Dagon. Tiene il clero sotto il suo controllo. Ebiatar, l’unico sacerdote yahweista scampato alla strage di Nob (ma sarà vero? Io non ci credo; Saul ha sterminato tutti i yahweisti) in cui Saul stermina il clero yahwista, viene associato da Davide a Sadoq sacerdote del clero locale (filisteo, come ho già detto) di Gerusalemme, ma  si mette, insieme a quell’Innominato e innominabile di Ioab/Iobate di Bellerofonte (capo dell’esercito), dalla parte di Adonia, che voleva il posto di Salomone. Davide quando lo viene a sapere nomina Salomone suo successore e gli affida il compito di punire i ribelli. Salomone si circonda di persone fidate e cioè  di Benaià comandante della guardia del corpo costituita da arcieri cretesi e lancieri filistei e di Sadoq, sacerdote del clero “pagano” (licenziando Ebiatar o forse meglio eliminandolo fisicamente visto quel che gli aveva combinato, « adempiendo la parola che il Signore aveva pronunziata in Silo riguardo alla casa di Eli. » 1 Re 2,27) E cioè la fine del clero yahweista discendente da Eli. A riprova che anche Salomone spregiò Giavè c’è l’ennesimo fatto che diede ordine a Benaià di uccidere Ioab nonostante avesse afferrato i corni dell’altare all’interno della tenda di Giavè. Da questo momento v’è un solo sacerdote (sacerdote  di Eloāh/Allāh) a Gerusalemme, Sadoq, ed un solo comandante dell’esercito, Benaià. Dunque, riassumendo, l’unico sommo sacerdote di Gerusalemme fu Sadoq, che non era yahweista, non era della casa di Aronne e nemmeno apparteneva ai leviti. Certamente era sacerdote di Dagon al momento in cui fu nominato sommo sacerdote. Come ho scritto altrove, la storia degli Ebrei è la storia di un dio, Yahweh, che vuole conquistarli e di un popolo che non vuol essere conquistato perché si trova bene con gli dèi pagani, e quando si mette con lui si trova male e malissimo. La storia dei due pseudo regni separati di Israele e Giuda è un continuo di riprovazione di Yahweh verso di loro e minacce di estinzione, che avverrà quando deve avvenire, comunque tardi (naturalmente le profezie di estinzione sono state scritte ad estinzione avvenuta). Le lamentele continue del clero yahweista sono una riprova del paganesimo sostanziale della storia di Israele e Giuda fino all’esilio in Assiria e Babilonia. Vi sono dei passi veramente degni di riso sguaiato, come questo: Abiam di Giuda « Egli imitò tutti i peccati che suo padre aveva commessi prima di lui; il suo cuore non fu sottomesso al Signore [Yahweh] suo Dio, come lo era stato il cuore di Davide suo antenato. Ma, per amore di Davide, il Signore suo Dio gli concesse una lampada in Gerusalemme, perché Davide aveva fatto ciò che è giusto agli occhi del Signore e non aveva traviato dai comandi che il Signore gli aveva impartiti, durante tutta la sua vita, se si eccettua il caso di Uria l’Hittita.  » (1 Re 15, 3-5) Dunque il primo assassino è Giavè stesso, complice il clero yahweista che gli mette in bocca le parole. Adesso, visto che c’è molto materiale su Davide, vediamolo in dettaglio. Credo che Davide sia stato fin dall’inizio a capo dei seicento della guardia del corpo del re filisteo di Gat (1 Sam. 27 e 28,2) e abbia combattuto contro Saul, sconfitto e ucciso nella battaglia di Gilboa cui Davide certo partecipò coi suoi dalla parte dei Filistei. Le armi e la testa di Saul finiscono inchiodate nel tesoro di un  santuario filisteo, presumo quello di Dagon e Derketo ad Ascalona (1 Sam. 31,9-10; 1 Cron. 10,9-10). Attribuiscono probabilmente i yahweisti ai Filistei, inconsapevolmente, quelli che sono i loro feroci costumi (come attribuire ad Abramo la possibilità di uccidere suo figlio Isacco perché lo vuole Yahweh). I Filistei mantengono la loro posizione e la rafforzano anche durante il regno di Davide che secondo la tradizione biblica, licenziato  dai sospettosi capi filistei, avrebbe  combattuto contro i Filistei. Se così fosse, Davide avrebbe faticato per ritrovarsi un pugno di mosche in mano, il che non è credibile. Io credo che Davide sia stato uno dei più turpi capi di popolo della storia. Non mi stupisco che  Israele (l’Israele filoamericana e stupida) si riconosca in lui e nemmeno che  la Chiesa (degna di un processo di Norimberga) riconosca in lui l’unto di dio, perché è vero che dall’albero riconoscerete i frutti e un albero marcio dà frutti marci. Tutta la religione giudeo-cristiana è una colossale truffa (che per fortuna ho potuto smascherare – in buona compagnia di altri studiosi per lo più fuori dell’establishment – per benino) che mette sul piedistallo il male assoluto.  Come tutti i capitani di ventura Davide taglieggia i territori su cui passa (con un cerimoniale che ricorda quello della mafia: « andate da Nabal e chiedetegli a mio nome se sta bene… ») prendendo ciò che vuole, anche nel territorio di Giuda che all’inizio è l’unico a sostenerlo (1 Sam. 25, 4-12ss). Tanto poco i mercenari di Saul seguivano Davide che,  morto Saul, Abner, capo delle milizie, ne nominò duce il figlio superstite, Is-Bàal (2 Sam. 2,8-10). La guerra fra i due eserciti mercenari (gli Israeliti e i Beniaminiti si riconoscevano nel successore di Saul mentre dalla parte di Davide c’era solo la “tribù” di Giuda; a proposito delle tribù  greche  Murray sostiene che  « furono originariamente divisioni militari, e presumibilmente anche le fratrie… »   p. 72) fu lunga (vi sono  similitudini col duello degli Orazi e Curiazi nella rincorsa di Ioab, Abisài  e Asaèl dietro ad Abner, ma poiché questa è una tradizione  indeuropea  si tratta certamente di varianti indipendenti sul tema) e si concluse con l’ordine di Davide dato a Ioab di assassinare  Abner che se ne tornava a Macanàim dopo essere venuto a colloquio con lui a Ebron. Ma Davide giurò e spergiurò, si stracciò le vesti, seguì la bara e pianse sul sepolcro intonando un canto, digiunò: « Tutto il popolo, cioè tutto Israele, fu convinto in quel giorno che la morte di Abner figlio di Ner non era stata provocata dal re. » (2 Sam. 3,37). Dopo Abner non rimane che ammazzare Is-Bàal e non c’è dubbio che questo giovò a Davide anche qualora non l’abbia ordinato. I due capi mercenari, beniaminiti, di Is-Bàal se la vedono brutta e passano dalla parte di Davide portandogli la testa del loro duce.  Davide  dà ordine ai suoi “giovani” e « questi li uccisero, tagliarono loro le mani e i piedi e li appesero presso la piscina di Ebron. » (2 Sam. 4,12) Omero, che conosce la storia di Davide, fa fare questa fine al traditore Melanzio nell’Odissea.  Con questi metodi terroristici  Davide ottiene la sottomissione delle “tribù” di Israele e dei Beniaminiti, e dunque è ormai tanto potente che potrebbe svincolarsi dai Filistei e conquistare Gat. Ma è probabile che sia diventato signore di Gat dopo la morte del suo signore filisteo che certo prima di morire lo designò alla successione. Decimò i Moabiti con un metodo che ricorda il letto di Procuste (2 sam. 8,2), ecc. ecc. Ma nonostante la sfilza di vittorie e annessioni attribuitegli, il regno di Davide rimane una modesta formazione politica sotto l’egemonia dei Filistei. Mentre Ioab  era a capo di tutto l’esercito di Davide, Benaià, figlio di Ioiadà, probabilmente un greco, era a capo delle guardia pretoriana costituita da Crete(s)i  e Pele(s)tei (2 Sam. 8,16-18 e 20,23).  Al momento di uscire da Gerusalemme a causa della rivolta di suo figlio Assalonne, Davide è preceduto dalla guardia pretoriana di seicento uomini guidati da Ittài  di Gat,  costituita da Crete(s)i e Pele(s)tei (2 Sam. 15,18). Dopo tentativi di usurpazione vari Davide riesce a passare  il trono di Giuda a Salomone di cui pure manca ogni traccia storico-archeologica, ma il perché in gran parte si spiega col fatto che i primi “re” proto-ebrei sono stati dei capitani di ventura al comando di tribù militari e dunque viventi nelle tende come i primi soldati di Roma quando Roma era grande. Cominciò a diventare piccola quando i suoi soldati si fecero case in muratura, come scrive più o meno Montanelli. Ma non è questo che qui mi interessa trattare. Ora è chiaro perché i cosiddetti re del cosiddetto regno unito israelitico (Saul, Davide, Salomone) non hanno a supporto alcuna documentazione epigrafica ed archeologica. La verità è che questi erano dei capitani di ventura al comando di  truppe mercenarie al servizio dei Filistei o, ora lo possiamo dire apertamente, Filistei essi stessi. La storiografia nazionalistica ebraica (che non operò diversamente da tutte le storiografie nazionalistiche di tutto il mondo, compresa quella italiana, che ha voluto vedere i “primi italiani” fin dal lontano medioevo, ad esempio in Berengario Marchese del Friuli) ha visto in questi Brancaleone e nelle loro ribellioni ai Filistei (motivate da tutt’altro fine che quello della nascita di Israele) i primi re ed inventar loro una sede – Gerusalemme – che divenne ebrea solo dopo il “ritorno dall’esilio” in Babilonia.

Mentre i Danai finivano così miseramente la loro conquista, i Filistei, e i Cananei con essi, si ritrovavano ad essere, in un Levante martoriato dalla guerra santa, la prima potenza mondiale (questo deve aver intuito Sabatino Moscati, attribuendolo ai Fenici, smentito  erroneamente da Fernand Braudel), dominatrice dei mari.  Forse soprattutto per “colpa” di Omero, la cosiddetta “guerra di Troia” (che dovette riguardare il conflitto fra staterelli filo-ittiti e achei  dell’Asia Minore; ma sulla via di Troia erano i percorsi marittimi e commerciali dei Feaci/Filistei e dei Tursha/Tirreni, gli antenati degli Etrusco-Romani, alla ricerca del ferro e dell’oro, il quale proveniva fin dalla lontana terra del Mare Giallo, presso gli Iperborei e gli Arimaspi), divenne la sintesi emblematica della fine di un mondo (quello ittita prima di tutto) anche per i vincitori che, tornati a casa, quei pochi che non erano morti in battaglia o sulla via del ritorno, vi venivano ammazzati come bestie al macello dai nuovi signori che avevano intrallazzato con le regine o, scampati all’agguato mortale, riprendevano  il mare in cerca di un luogo dove rifarsi una vita. Se prima dell’“età assiale” avevano navigato in Occidente, fino alla Sicilia, per conto di Minosse, adesso navigavano per conto proprio fino all’Adriatico, in fondo al quale fondarono Spina, e al Tirreno, dove fondarono Pyrgi e Cere, portandovi la loro letteratura (in scrittura pittografica, soprattutto corsiva,  o già alfabetica pennellata su lino, pergamena o papiro) sotto forma di poemi epici cavallereschi (quelli sulla guerra nel Levante), canti conviviali e amorosi, insomma tutto ciò che poté analogamente circolare nelle corti medioevali prodotto dai menestrelli, e qui,  sulle coste laziali fino ad Alba Longa, questa letteratura  continuò a svilupparsi autonomamente grazie ad aedi filistei (e indigeni che ne appresero l’arte) di cui Omero non fu che l’ultimo e il migliore in assoluto, il primo autore della civiltà occidentale –  e in Italia –  e il primo autore greco. La civiltà greca, in assoluto, nasce in Italia, assai prima della colonizzazione greca, dopo la battaglia di Afèq, in cui il Levante, in nome e per conto della Civiltà, combatté e vinse il primo round (come direbbe Montanelli; peccato che non abbia capito che appunto nella guerra di Troia il primo round lo vinse proprio l’Oriente) contro il Male Assoluto. Come ho scritto sopra, dopo l’eruzione del Thera che ci diede Madre Natura, la storia non sarebbe più stata la stessa. La storia nel breve periodo è un insieme di alti e bassi, ma nel lunghissimo periodo è un fiume in piena che travolge gli argini e si scava l’alveo in discesa.  Due grandi rivoluzioni segnano il cammino dell’uomo, la scrittura e l’organizzazione della società. L’età antica è quella della scrittura logografico-sillabica e sillabica, l’età moderna quella della scrittura alfabetica. Da un punto di vista marxiano potremmo dire che la società della scrittura logografico-sillabica ha dato vita a società piramidali e teocratiche oppressione dell’uomo. Al vertice è il faraone-dio in terra o il clero onnipotente, e alla base gli uomini-animali, forza lavoro, schiavi, sudditi dell’uomo-dio o dell’uomo unico interprete della volontà di dio. Solo chi sta al vertice ha il tempo libero e il diritto di dedicare la sua vita allo studio di una scrittura difficile da apprendere, che mantiene dunque il segreto del potere accessibile  per diritto di casta solo a coloro, e ai loro discendenti, che lo detengono. In queste condizioni un ricambio sociale è utopistico. Quando invece si diffonde la scrittura alfabetica, questa diviene accessibile a tutti e nasce la democrazia, ovvero si ribalta la situazione, vengono tagliate le teste dei re, i papi vengono rovesciati dai loro troni, le statue di tutti gli dèi buttate giù dai loro piedistalli, i templi (e le banche da essi custodite) dati alle fiamme, il popolo regna sovrano. La scrittura alfabetica ci darà una società democratica. Se ho ragione, Madre Natura ha dato una spinta in questa direzione con l’eruzione del Thera e quanto ne seguì. Quanto scrivo potrebbe sembrerebbe in contraddizione col male del giudeo-cristianesimo che era da venire proprio in seguito all’eruzione del Thera e all’emergere del  yahweismo, ma, come dice più o meno Cesare, spesso gli dèi mandano delle difficoltà proprio a coloro che vogliono favorire, mentre rendono la vita liscia a chi detestano; possiamo intendere il giudeo-cristianesimo come l’ultimo sussulto del male – si dice che il veleno sta nella coda –  anche se questo male dura ancora ai nostri tempi, ricordando sempre che la storia è lineare solo nel lunghissimo periodo, mentre nel breve è costituita da  flussi e riflussi; ad esempio, la Rivoluzione Francese è indubbiamente nel senso della sovranità del popolo, ma se la storia si fosse subito allineata alla Rivoluzione Francese, o addirittura non fosse andata nel senso contrario, il nostro mondo non sarebbe quella cosa immonda che ancora è. Ma diamo tempo al tempo, perché il tempo gioca a favore della democrazia.

Con l’alfabeto a disposizione  hanno cominciato a far sentire la loro voce le assemblee cittadine. Tersite omerico non è un brutto deforme e ridicolo, piagnucolante mentre Odisseo lo bastona con lo scettro di Agamennone, come le mie professoresse greciste delle medie e del liceo mi insegnarono (avevano così poco capito Omero – ovviamente apprendendolo da “degni cattedratici” –  che analogamente piangevano sul povero Polifemo accecato che parlava col suo ariete e gli chiedeva come mai lui, sempre così pronto ad andare in testa al gregge ora, che sotto portava il peso di Odisseo, fosse così lento, forse perché piangeva la sorte del suo padrone?). Tersite è la nascita della città democratica, e non a caso dice contro gli arbìtrii del potere, a gran voce, le stesse cose che dice  Achille contro Agamennone, ma mentre Achille, il più colossale uomo che combatta a Troia, vigliaccamente  si ritira dalla guerra e sopporta in silenzio che gli sia tolta Briseide nella sua tenda, Tersite ha il coraggio di dirle a gran voce e di dare appunto del vigliacco ad Achille. Naturalmente non è ancora venuto il tempo del potere del popolo (Omero ha cercato di riprodurre la realtà di un tempo assai più antico; in più  doveva far ridere la massa popolana laziale – prima ancora che della Magna Grecia e della Grecia orientale – che conosceva il greco! e l’ha accontentata) e Tersite ci rimette, contro un potere troppo  più forte di lui, ma, ripeto, Tersite è una gran bella figura. Tersite calza alla perfezione con la Roma che va democratizzandosi al tempo di Tullo Ostilio.

La differenza fra la Roma (e in genere la Tirrenia) mercantile ricca e atea, spregiatrice degli dèi, del VII secolo di Tullo Ostilio e la Grecia povera e dunque bigotta di Esiodo e di tutto l’oriente in generale, segna un altro punto di svolta,  perché a Roma, cantata da Omero, nasce per la prima volta, realmente, l’uomo occidentale, la città, la vera democrazia. L’alfabetizzazione è diffusa, gli archivi di palazzi e templi sono pieni di rotoli di papiro e di lino, la grande città di Roma ha fatto una grande svolta democratica inserendo le classi inferiori nell’esercito oplitico. Ettore non è un principe aristocratico come Achille a capo di un branco di selvaggi. E’ un generale dell’esercito romano. E’ evidente che qui c’è un profondo cambiamento. Non si tratta di selvaggi orgogliosi di ubbidire ad Achille, ma di un generale orgoglioso di comandare l’esercito romano. Il popolo ha davvero vinto. Se l’Oriente da Esiodo in là è attaccato alla vita presente misera e si crea due inferni, uno in questa e uno nell’altra vita di cui non v’è certezza, l’uomo romano e occidentale italico vive nel Paradiso in terra e non si cura dell’al di là.  Dunque l’uomo moderno nasce ancor più con Omero, a Roma. E’ Roma l’ulteriore pietra miliare della storia dell’umanità. Mentre Ghilgamesh si preoccupa dell’immortalità, per Odisseo l’immortalità sono l’amore degli amici, dei sudditi, della moglie, dei genitori, del figlio. Mentre Circe vorrebbe renderlo immortale a vivere in eterno con lei sulla sua isola incantata (io personalmente non me lo sarei fatto dire due volte), Odisseo preferisce tornare a casa sua, anche se è ben consapevole di trovarci molto meno di quanto dio ha poi risarcito (ma si può parlare di risarcimento di soldi e ricchezze; quale risarcimento è quello di dare a Giobbe altri figli in sostituzione di quelli persi?) Giobbe, una moglie vecchia venti anni di più, un figlio che non lo riconosce, servi allo sbando, sudditi divisi in opposte fazioni, un padre pieno di acciacchi, la madre morta (gli amici persi sotto le mura di Troia o negli abissi marini o nella gola di Polifemo). Eppure, l’uomo occidentale, preferisce, breve e problematica che sia, la vita che gli è toccata in sorte e la assapora momento per momento e la valuta tanto più in quanto ce n’è una sola e breve. Omero è il primo autore moderno della storia dell’umanità. Il guaio è che è stato seguito, ancora oggi, da tanti autori antichi.

Diciamo dunque che l’arrivo nel Lazio e nella valle del Po (forse anche fino alle Colonne d’Ercole prima che vi arrivassero i Fenici e comunque in concorrenza coi Fenici) della civiltà filistea coincide con l’XI secolo, lo stesso in cui la tradizione colloca lo stabilimento delle più occidentali colonie fenicie. Dunque Braccesi potrebbe aver ragione a sostenere una presenza greca anteriore a quella fenicia alle Colonne d’Ercole, ma si tratta di presenza filistea. Una letteratura affine, riguardante gli avvenimenti epici dei Filistei e Cananei nella guerra contro i popoli del mare, deve esserci stata in tutte le lingue e scritture del Levante. E’ da questa letteratura (in  filisteo e aramaico soprattutto) che derivano molto materiale sia l’Antico Testamento che i poemi di Omero, anche se, per i motivi che ho detto, entrambi rialeborano questo materiale per scrivere di argomenti diversi con finalità diverse. Il dialetto omerico ha una base ionica ed eolismi che in base alle conoscenze attuali dobbiamo riportare alla Troade. Dunque Omero si esprimeva col linguaggio epico dei Filistei troiani che erano sbarcati nel Lazio probabilmente con Enea secondo la tradizione antica. E’ possibile che fra i profughi al seguito di Enea vi fossero dei cantori di corte che scrissero e cantarono nel Lazio le gesta delle vittime troiane dell’olocausto compiuto dai popoli del mare e di terra, ma Omero si servì per lo più di materiale che cantava la guerra vittoriosa dei Filistei e Cananei di Palestina, anche in filisteo, ionico, e i suoi poemi sono dall’inizio alla fine (anche se redatti a blocchi distanziati nel tempo) interamente concepiti da lui, salve le manomissioni greche successive, trascurabili nell’Odissea,  non irreparabili nell’Iliade. Come ho già scritto, Omero si propone di celebrare la grandezza di Roma, città fondata dal  giudeo signore della guerra Romolo,  in greco, perché di lingua greca, filisteo-pelasgica, è l’originaria civiltà del Lazio che Romolo trova al suo arrivo e per primo decide di adottare come lingua dell’élite (come tutti sanno, al momento di morire si parla la propria lingua, perché è il momento in cui non si può fingere, e Cesare parlò greco, dicendo “Anche tu, Bruto, figlio mio!”), perché il greco è la lingua internazionale e Greci sono i suoi interlocutori preferiti cui sono rivolti i poemi al fine di sottolineare la comunanza culturale, al fine di creare una civiltà globalizzata di cui Roma sia il faro, al fine di dissuadere i Greci dalla pirateria barbarica (specie dopo che Roma  ha tolto agli Euboico-calcidesi il monopolio del porto di Pyrgi) in nome della  Civiltà, e perché i Greci vengano ad investire i loro capitali nel Lazio. Ma questa celebrazione di Roma viene fatta senza arroganza, in sottofondo, e al contrario i poemi sono la celebrazione della grandezza passata della Grecia che si riallacciava alle attuali colonizzazioni dell’Asia Minore con gli Achei della Troade ad aprire la pista. In ciò c’è una sovrastima della grandezza della Grecia, in realtà inferiore a Roma (basti vedere la situazione in cui vive il contemporaneo Esiodo che pure vive vicino alla parte più florida della Grecia; e c’è una sovrastima anche nella “grandezza” passata di un popolo che era stato, coi Danai/Achei, un barbaro distruttore di città fiorenti e civili e massacratore di popolazioni innocenti) e una sottostima della reale grandezza di Roma e del mondo etrusco che ruotava intorno a Roma.  C’è un secondo motivo non meno importante, e cioè che da poco Tullo Ostilio ha distrutto Alba Longa e vuole riappacificarsi con questa nazione che vantava, giustamente, origini greche, filisteo-pelasgiche e troiane allo stesso tempo. Ebbene, il matrimonio fra il troiano/romano Paride e la greca/albana Elena, nonché il rappacificamento finale fra il greco/albano Achille e il troiano/romano Priamo aprono e chiudono il messaggio di unità fra Romani da una parte e Albani e Greci dall’altra. E ancora una volta sono i Greci, sono gli Albani a vedersi celebrati come vincitori, mentre risultano nella realtà gli sconfitti.

Il cratere ceretano di Aristonothos, del 675 circa, è la rappresentazione visiva di questo messaggio (che Omero mette in versi) che paragona la barbarie di Polifemo (uccisore dei supplici e stranieri che gli chiedono  protezione e sostegno) accecato da Odisseo e compagni, su un lato, alla guerra navale commerciale (definita dai Greci pirateria, ma erano loro inizialmente a fare guerra di corsa contro i navigli dei Tirreni, cioè gli Erusco-Romani, anche nelle stesse acque dei Tirreni, di cui avevano già precluso la via al Mar Nero), sull’altro lato, che si svolgeva nel mare antistante l’emporio di Pyrgi soprattutto fra Euboico-Calcidesi ed Etrusco-Romani. Poiché Omero nel Viaggio d’Odisseo celebra il santuario di Ino-Leucothea pirgense,  regnante Numa Pompilio, non è da escludere che il passaggio dell’emporio sotto controllo tarquiniate (qui risiedeva stabilmente dal 657 Demarato corinzio, grande uomo d’affari e padre del futuro re Tarquinio I, ma già prima vi era considerato un’autorità e dunque possiamo immaginare che diciotto anni prima abbia potuto commissionare il Viaggio d’Odisseo con l’episodio di Polifemo e palesi accenni antieuboici; ma ora preferisco mettere in secondo piano questa ipotesi meno probabile e le antepongo quella di Numa Pompilio, che pone sotto il patrocinio di Roma, insieme al successore Tullo Ostilio, i poemi omerici nella loro globalità), e poi ceretano, sia avvenuto dopo una battaglia navale di cui le cronache  etrusche potrebbero un giorno darci notizia.  Essendo Pyrgi città emporica che dava spazio a tante rappresentanze commerciali, poteva darne e certamente ne diede anche a Roma. Mi basta dunque sottolineare l’interesse di Roma per questo emporio e il sostegno che certamente diede quanto meno finanziario, per il successo dell’impresa, condotta materialmente dagli Etruschi, ma non escluderei anche dai Romani (penso alle implicazioni della Stele di Lemno su cui ho scritto anche nel lavoro precedente su questo sito). Numa Pompilio fu dipinto come re religioso e probabilmente doveva passare sotto silenzio dalla storiografia romana il fatto che avesse anche solo finanziato un’impresa militare.

Il greco parlato da Omero appartiene dunque al più antico dialetto greco attestato, il filisteo-pelasgico. Abbiamo dunque due monumenti della civiltà linguistica filistea, l’Apoteosi di Radamanto della metà del XIV secolo e i poemi omerici che coprono il secondo e terzo quarto del VII secolo. Il dialetto cui appartengono va definito sostanzialmente come Ionico, una cui variante è l’arcado-cipriota (miceneo). Omero non ignora l’esistenza dei Dori perché li cita come popolo dell’isola di Creta. Il fatto che non entrino nell’economia dei poemi è ovvio. Mentre i poemi ruotano intorno alla guerra di Troia (cioè più esattamente alla battaglia di Afèq e alla distruzione del QG danao di Silo da cui venne asportata l’arca) cioè alla fine del mondo antico, i Dori vengono dopo e rappresentano l’attualità. Per quanto Omero abbia certo tentato di ricostruire un passato così lontano cercando di non incorrere in anacronismi (del tipo far portare l’orologio alle sue comparse)  sono convinto che non dovette fare nessuno sforzo per eliminare i Dori dalla scena in quanto non facevano parte della tradizione giunta nel Lazio prima o nello stesso tempo in cui essi comparivano in Grecia.  Omero, Omar, etrusco Umar, è il nome datogli da sua madre nobile giudea discendente da Romolo o comunque da uno dei  compagni della sua straordinaria avventura umana  (facilmente definibile anche  come etrusca). Nacque probabilmente ad Alba Longa da padre di discendenza filistea di Alba Longa. Poiché la guerra di Troia era divenuta il simbolo della catastrofe fra i due mondi con Enea troiano eppur greco (Dionisio d’Alicarnasso) considerato capostipite dei Latini, si perse di vista il  quadro complessivo della situazione. Dunque non fu  invenzione greca quella  secondo cui Romolo e Remo furono « condotti a Gabii per imparare l’uso della scrittura e tutto ciò che solitamente devono apprendere i fanciulli di nobili origini. » (Plutarco)  o « furono inviati a Gabii… perché vi ricevessero un’educazione di tipo greco… le lettere, la musica e l’uso delle armi greche finché non divennero uomini. » (Dionisio d’Alicarnasso) Il recente ritrovamento nella necropoli di Gabii (a Osteria dell’Osa) di una fiaschetta della prima metà dell’VIII secolo con incise rozze lettere greche fa riflettere. Che sia la prima attestazione dell’alfabeto greco? Ovviamente il tutto va rielaborato, e significa solo che i primi aristocratici romani (e prima di loro quelli laziali, sabini) andavano a Gabii e altri centri albani dove potevano apprendere il greco e i canti epici o conviviali dagli aedi di corte filistei e discendenti di filistei anteriori e posteriori  ad Omero che era uno, il migliore, fra tanti. Cicerone nelle Tuscolane ci dice che nelle Origini di Catone si legge che « i convitati solevano nei banchetti cantare accompagnati dal flauto le virtù degli uomini illustri », ciò che corrisponde all’omerico kléa andrôn. Gli ambasciatori trovano  Achille « che con la cetra sonora si dilettava… cantava glorie d’eroi. » (IX, 18-189) Il latino era rozzo ai tempi di Omero e continuava ad essere rozzo nel III secolo. I fini pubblicitari erano inseguiti da Numa Pompilio e Tullo Ostilio che finanziarono le opere di Omero e i fini pubblicitari continuavano ad essere inseguiti dai « primi annalisti », che scrivevano in greco, e con gli stessi metodi epici e con scarso o nullo interesse per la verità storica. Del resto la colonizzazione greca dell’Italia arrivava fino alla Campania e dobbiamo ammettere la possibilità che i Greci abbiano cercato di attestarsi in un primo momento anche più a nord a controllo del Tevere. E infatti Pyrgi appare un emporio in gran parte e dapprima in mano a Greci e la tradizione del “greco” Enea a Lavinio a sud del Tevere completa la forcella greca a controllo di questo fiume. Dunque non a caso Omero nel primissimo canto dell’Iliade da lui concepito, il XV, rievoca il ratto delle Sabine (nella parte di greche – dunque filistee – indigene arroccate sul Campidoglio) da parte dei Romani nella parte di troiani nuovi arrivati dal mare.  C’è stato poi chi, come il poeta Similo,  ha messo in relazione  Sabini e Celti al tempo della presa del Campidoglio e l’ha attribuita ai Celti. Celti che in un primo tempo ho associato ad Achille e altri achei come li raffigura Omero. E invece si tratta, oltre che dei Sabini, dei giganti filistei. Il termine giganti non indicava la loro statura bensì la loro casta guerriera, ma il passaggio alla grande statura è stato breve. Achille è un gigante  (in quanto figlio di una dea e di un mortale), e anche Nausicàa è una gigantessa (perché figlia di Alcinoo e Arète della casta dei giganti Feaci/Filistei) filistea.  Secondo Omero i Feaci un tempo risiedevano in  Oriente, vicino ai Ciclopi (Od. 6,5ss; 7,321-324), ed erano imparentati coi Giganti.  I Giganti della Palestina (Baruc, 3,26; Genesi, 6,4: dove si capisce che il Diluvio è quello di Deucalione figlio di Minosse, e cioè generato dall’eruzione del Thera, vista come una punizione divina per i peccati dei Giganti, cf. Od. 7,58ss), come il gigante filisteo Golia del tempo di Davide, sono gli eroi “dell’antichità, uomini famosi”  figli degli dèi (elohim in ebraico) che si univano alle figlie degli uomini. Cioè gli eroi dell’epopea omerica, Achille figlio di Teti, Enea figlio di Afrodite, Odisseo che Calipso vorrebbe per marito. Questo popolo di eroi e giganti è andato distrutto con l’eruzione del Thera, e i loro brandelli sono confluiti nella tradizione dei  superstiti della guerra di Troia (tanto achei che troiani) che trovano una nuova patria ad occidente. La concezione è identica a quella greca e infatti Golia era filisteo, cioè di origini greche. Perìbea, figlia di Eurimèdonte re  dei Giganti, si unì a Posidone (divinità che identifico decisamente col filisteo Dagan), generando Nausìtoo da cui discendono   Rexènore, padre di Arète, e Alcinoo.  I Feaci dunque sono Giganti, sono Filistei.  Odisseo, incontrando Nausicàa, la paragona per la sua altezza ad un fusto nuovo di palma (« Se dea sei tu, di quelli che il cielo vasto possiedono, Artemide, certo, la figlia del massimo Zeus, per bellezza e grandezza e figura mi sembri. Ma se tu sei mortale, di quelli che vivono in terra… Mai cosa simile ho veduto con gli occhi, né uomo né donna: e riverenza a guardarti mi vince. In Delo una volta, così, presso l’ara d’Apollo, vidi levarsi un fusto nuovo di palma… » 6,150-163). La descrizione omerica vale come quella di Achille, descritto grande e grosso per suggestione del fatto che è un gigante in quanto figlio di una dea e di casta guerriera. Ma la genesi di Achille è quella di un guerriero che in origine apparteneva alla tradizione filistea attraverso Tetisheri dea oracolare dei Filistei/Feaci orientali e dei Tursha/Tirreni altresì orientali al servizio dei faraoni a partire dalla XVII dinastia tebana.  I Feaci/Filistei occidentali (da distinguere da quelli che prima vivevano in oriente, a Troia) appartenevano alla casta degli eroi o giganti, figli degli dèi, e cioè degli indeuropei filistei (Od. 7,201-206), e delle figlie degli uomini, cioè delle cananee  (la tradizione si sposta da oriente a occidente).  Se ci si fa caso, la maledizione contro Cam che ha visto nudo il padre Noè si riversa contro suo figlio Canaan che dunque verrà sottomesso dai discendenti di Sem e Giafet (entrambi di razza bianca – semiti e indeuropei sono entrambi di razza bianca –  perché l’Antico Testamento  ignora i gialli, meglio, fa finta di ignorarli perché sono i Mongoli dell’élite di Khayan il Gran Khan degli Hyksos). Ciò corrisponde alla supremazia dei figli “degli dèi” discendenti da Seth (da cui discende Noè) sulle figlie “degli uomini” discendenti da Caino. Dunque se è vero il contrario, e cioè che i Sabini e  i Filistei erano già sul Campidoglio prima dell’arrivo di Romolo coi suoi giudei, allora abbiamo una visione realistica di una presenza greca sulle coste laziali anteriormente alla presa di possesso di Romolo. Caduta nelle mani di Romolo l’area della futura  Roma  (vedi il mio lavoro precedente su questo sito)  i Greci rivali di Romolo saranno da questo confinati ad Alba Longa che diverrà città greca. Ora, i Romani avevano bisogno di una lingua per esprimersi con la popolazione indigena e a livello internazionale e hanno subito optato per il greco. La cosa del resto era scontata in quanto morta la prima generazione dei giudei nessuno avrebbe potuto insegnare l’aramaico ai figli nati dalle mogli sabine ovvero filistee, e dunque furono queste ad  insegnare il greco ai loro figli.  Comunque certamente  Romolo si pose il problema ed optò subito per il greco e  suo pronipote Tullo Ostilio lo seguì in tutte le sue riforme, escludendo il semtico di Romolo e dei suoi compagni. E la ragione è chiara. Se di una lingua straniera ci si doveva servire per dare voce internazionale a Roma, questo era il greco della parte sconfitta ma integrata nella popolazione romana e tanto più integrata in quanto riscattata sul piano culturale  dedicandole non meno che ai Greci esterni i poemi omerici.  Ma ancora coi re “etruschi” che erano etruschi per modo di dire  (Demarato, padre del primo re “etrusco” Tarquinio I era corinzio e l’Etruria era sotto influenza culturale greca), Roma ebbe cultura greca.  E a maggior ragione dopo la cacciata dei re e l’instaurazione della Repubblica. E a maggior ragione al tempo dello scontro con Cartagine. Credo che da Omero, VII secolo, al III secolo con la guerra di Taranto,  272 a. C., con l’arrivo a Roma del primo autore latino, il greco Livio Andronico traduttore dell’Odissea (e ancora due carmi del III secolo il carmen Priami e il carmen Nelei documentano un interesse particolare per il ciclo troiano e per il mito di Neleo), vi siano quattro secoli in cui se il latino era, e doveva essere la lingua ufficiale, pubblica, le aristocrazie devono già aver avuto, conservato, familiarità col greco, almeno fino a non troppo tempo prima, altrimenti non si sarebbero buttati con tanta facilità su una lingua straniera. Dopo l’impatto di Roma con la Magna Grecia il greco divenne accessibile (magari solo all’ascolto se non nel parlato) anche agli strati più bassi della popolazione romana. Se all’aristocrazia romana non fosse già stato familiare il greco vedo poco verosimile che di punto in bianco gli annalisti romani si sarebbero messi a scrivere in greco dal III secolo (Fabio Pittore combatté contro i Galli Insubri nel 225-222 a.C.): « La prima manifestazione di storiografia romana, che segue immediatamente alla cronaca degli Annales pontificum, è quella dei cosiddetti « primi annalisti », anteriori a Catone o comunque non sensibili al suo influsso. Costoro, che scrissero le loro opere in lingua greca, vollero quasi continuare le cronache pontificali, elencando, anno per anno, le vicende che si erano svolte a Roma. … L’uso della lingua greca, che veniva ritenuta la lingua della cultura diffusa nel bacino del Mediterraneo (il latino rimaneva circoscritto – dice Cicerone – suis finibus, exiguis sane), ci mostra uno dei fini dell’annalistica: quello di diffondere le idee di Roma, e, soprattutto, di giustificare la sua politica espansionistica dopo la II guerra punica. In ciò l’annalistica replicava alle tendenze di una storiografia filocartaginese, in cui si distinse Filino di Agrigento (III sec. a. C.). A quest’opera, ispirata soprattutto a criteri di pubblica utilità, si accinsero personaggi per lo più assai in vista della vita politica romana, senatori e magistrati, in gran parte personaggi di rilievo anche nelle vicende che andavano narrando. Tipico dell’annalistica doveva essere il tono (quasi epico) di esaltazione, il gusto del meraviglioso e del favoloso: tali caratteristiche si ritroveranno, in parte, e con ben altra prospettiva, in Livio. La partecipazione diretta agli avvenimenti più vicini a loro rendeva gli annalisti assai poco credibili, per non parlare degli intenti propagandistici che spesso falsavano la reale visione storica dei fatti. D’altronde, per le vicende più lontane, ugualmente essi non erano attendibili: a supplire le lacune della loro informazione, spesso, nelle loro opere, inserivano leggende e favole, come Fabio Pittore, cui Polibio rinfaccia appunto la poca fede nel suo racconto, contrastante con il prestigio del personaggio. » (Armando e Antonio Salvatore, Storia della letteratura latina, Loffredo editore, Napoli, pp. 66-7) La verità è che le aristocrazie ricordavano il greco come loro lingua di casta e preferivano tornare ad usarlo, come lo usa Cesare in punto di morte. Com’è noto il greco si diffuse come lingua della parte orientale dell’impero romano ma era anche la lingua dell’élite nella parte occidentale. L’Iliade appare stesa in una prima parte, seria e con una conclusione tragica (morte di Ettore) ma con finale di riappacificazione fra l’uccisore Achille e il padre Priamo per celebrare la fondazione di Roma. Successivamente viene aggiunta una parte abbastanza comica laddove i duci Greci sono tutti malridotti dalla battaglia o dove gli dei si azzuffano fra loro da una parte e dall’altra dello schieramento. La mano può adesso attribuirsi sempre ad Omero. Solo la massa avrebbe accolto con entusiasmo un poema comico, e la massa romana adorava questo genere, ma doveva parlare greco per capire, e adesso sappiamo che parlava o almeno comprendeva il greco, specie nell’area albana (oltre ai Greci della Magna Grecia ecc.). Solo così si potrebbe comprendere la caricatura degli eroi Greci, col fatto che i Latini stessi in gran parte si sentivano greci e accettavano volentieri di ridere su se stessi. In questo caso anche l’Iliade sarebbe, eccetto qualche libro interpolato (di cui ho detto) e qualche interpolazione qua e là, praticamente tutta omerica.  I Filistei/Pelasgi iniziarono nel Lazio una civiltà greca, erede di quella filistea orientale, secoli prima della civiltà greca e della fondazione della colonia di Ischia nel 775 a. C. da parte degli euboico-calcidesi che vi acquistavano e lavoravano il ferro. I nobili guerrieri filistei possedevano armi innovative di ferro. Il generale Sisara, sconfitto dal “giudice” Debora, possedeva 900 carri ferrati (Giudici 4). Sarebbe curioso che in età posteriore, un popolo  a oriente, e in contatto con gli Ittiti, e ricco come quello dei Filistei, si privasse di questi mezzi bellici d’avanguardia. Non mi spiegherei altrimenti perché i Filistei (quelli che finora ho sempre considerato Tirreni orientali e poi Tirreni occidentali) viaggiavano alla ricerca del ferro fino al Mar Nero e poi non lo avrebbero impiegato in guerra, visti oltretutto i loro successi militari per tutto il periodo del cosiddetto regno unitario di Israele. I Filistei occidentali si  trasferirono  sulle coste laziali, a Pyrgi, a nord del Tevere, perché a Occidente nel frattempo s’era spostato l’asse dell’economia e della storia, che ruotava intorno al ferro dell’Etruria anche laziale, della Sardegna e della Spagna, e ciò anche se quanto ad armatura i nobili filistei preferissero cavallerescamente il bronzo: Il “gigante” Golia possiede armi di bronzo e  a Pyrgi filistea, Eurialo, per farsi perdonare dell’offesa recata a Odisseo, gli regala una spada di bronzo (8,403).  La  battaglia di Afèq (1050 a. C.) segna la fine di un’epoca e cioè la fine dei guerrieri omerici che si spostano col carro armati di bronzo e l’inizio dei guerrieri moderni che si sposteranno a cavallo armati di ferro, anche se ciò non avverrà dappertutto subito. Oswyn Murray colloca intorno al 1050 il momento di passaggio dal bronzo al ferro nell’impiego quotidiano (La Grecia delle origini, Il Mulino, 1996, p. 24). L’aristocrazia per lungo tempo continuò a preferire armature di bronzo per  un conservatorismo cavalleresco, ma l’Odissea inizia con l’arrivo alla corte di Telemaco di Atena sotto le spoglie di Mente re dei vicini Tafi  che di ritorno dalla stessa Pyrgi, dove ha caricato ferro, è diretto a Cipro per scambiarlo con bronzo. Le risultanze archeologiche confermano che le importazioni dall’emporio di Al Mina sull’Oronte (dove fianco a fianco operavano Fenici  Ciprioti ed Euboici), sono di ferro grezzo per armature, manufatti metallici, tessuti, oggetti in avorio, monili preziosi, dunque  beni di lusso richiesti dalle aristocrazie. L’adozione dell’alfabeto greco da quello fenicio è avvenuta secondo Erodoto in ambito beotico-euboico (V, 58-61), dove più tardi operò Esiodo, probabilmente per la via di Al Mina come propone Murray (pp. 120-123). Ora  da Al Mina partiva la navigazione commerciale che arrivava fino a Ischia, la più antica colonia greca (euboico-calcidese) a occidente, fondata nel 775 primariamente per l’acquisto e la lavorazione del ferro, vicina a Pyrgi, antico scalo ugualmente degli Euboico-Calcidesi (prima che verso il 675 passasse nelle mani dei Romani o degli Etrusco-Romani) secondo quanto ho  ricavato dai poemi omerici e già scritto altrove. Dunque  l’una e l’altra ipotesi (di Erodoto e Murray) mi vanno bene per dimostrare che, se a Pyrgi la scrittura alfabetica non arrivò anche prima (e indipendentemente da questi due centri di diffusione), dai traffici dei Filistei e dei Fenici, vi arrivò subito dopo la sua adozione da parte degli Euboico-Calcidesi. Ma qui devo subito affermare che, per quel che mi consta, non solo la scrittura alfabetica in assoluto è attestata per la prima volta proprio nel Lazio (e non in Grecia o ad Al Mina, a parte ovviamente la scrittura fenicia che però non è puramente alfabetica e comunque non ci interessa), ma anche indipendentemente dall’ambito beotico-euboico e di Al Mina  il che potrebbe chiamare in causa  origini filistee (i Filistei già stanziati in Italia e in contatto con quelli della Filistea avrebbero indipendentemente  acquisito la scrittura dai Fenici  nel Levante o sulle coste laziali) anteriori alla colonizzazione greca. Si tratta di un vaso con iscrizione di cinque lettere che trascrivono un nome etrusco o italico trovato in una tomba (482) muliebre del 770 a.C. a Osteria dell’Osa nel Lazio (Murray p. 13). Se subito dopo ci mettiamo l’iscrizione sulla “coppa di Nestore” a Ischia, di circa cinquant’anni dopo, ne deriva che la civiltà greca sboccia prima di tutto in Italia e da qui si diffonde attraverso i traffici marittimi verso la Grecia. Si cita la “coppa di Nestore” per  dimostrare che i poemi omerici,  scritti in Grecia (cosa che io per primo ho messo in discussione),  da qui sono subito diventati un best seller letto perfino nella lontana Italia. Ma Joachim Latacz s’è soffermato parecchio sulla testualità, affermando che « Si arriva alla testualità solo con un istituzionalizzato impiego del testo a fini conservativi: con la registrazione e la tesaurizzazione di dati, eventi, conoscenze, azioni, ecc. in forma di registri, catasti, elenchi, raccolte di leggi, cronache e così via. Perché si possa capire, volere e raggiungere questo grado di alfabetizzazione, occorre in ambito psicologico «una volontà di ricordare» che si concretizza in un’«attività di raccolta e conservazione» [Wimmel 1981, 6,9] » (Omero, Laterza, p. 17). Mentre Roma combacia perfettamente con questo quadro fin dall’età regia, la  Grecia è da questo punto di vista un deserto: « Per tutta l’età arcaica e gli inizi dell’età classica, interi settori della vita pubblica e privata rimasero estranei all’influsso dell’alfabetizzazione: per esempio, si deliberava per mezzo di dibattiti pubblici, e senza l’aiuto della scrittura: la deliberazione finale non fu regolarmente registrata in forma scritta fino alla metà del V secolo. » (Murray, p. 127) Nel Lazio c’è il buon vino dei Castelli Romani e il popolo ama da sempre bere nelle osterie e in occasione delle varie sagre paesane, tanto che Fenice lo da a bere  ad Achille (« E tu spesso la tunica mi bagnasti sul petto, risputandolo, il vino, nell’infanzia difficile! » 9,490-1) E ci credo che così l’infanzia è difficile! Chissà quanti Nestore, vecchi sputasentenze, forti solo a chiacchiere e a bere,  ci saranno stati nelle locande di tutto il Lazio da cui la locanda  pitecusana ha preso il suggerimento (l’acqua fa mal il vin fa cantar, si legge sulle tazze da vino in Friuli; la “coppa di Nestore” fa il paio con queste cose: “Vada alla malora la coppa di Nestore, anche se ci bevi bene! Chi a questa coppa beve, presto lo coglierà desiderio di Afrodite dalla bella corona”). Nemmeno è da escludere che Nestore sia il locandiere rivale dell’autore di questi versi. I personaggi dei poemi omerici sono in gran parte  presi dalla strada e certo già personaggi tipici delle cantate popolari dei predecessori di Omero di tradizione filistea in Italia. Comunque, alla luce di questi sviluppi della mia ricerca è evidente che le tradizioni sulle guerre palestinesi pervennero a Omero tramite scritti poetici cavallereschi filistei e aramaici, e dunque è possibilissimo che Omero abbia rielaborato questo materiale adattandolo alla sua “guerra di Troia”. Da qui deriverebbe quell’eterogeneità di tempi e tecniche di guerra mentre i poemi omerici furono opera di un solo autore. Forse Omero leggeva ancora testi scritti nella pittografica filistea, purtroppo su materiale deperibile (nel 1050 a. C. l’Egitto esporta a Biblo, per la missione del sacerdote di Amon-Ra Unamon, fra le altre cose, « dieci pacchi di buon lino dell’Alto Egitto, cinquecento rotoli di papiro di buona qualità, cinquecento pelli di bove » Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto, Einaudi tascabili, p. 602) e li trascriveva in scrittura alfabetica su materiale analogo. Che si possano rinvenire prima o poi nel Lazio stesso documenti su argilla cotta o altro materiale resistente in scrittura pittografica filistea? Dunque, fermo restando che sempre di  lingua greca si tratta, la civiltà greca ha il suo primo cantore in Esiodo, la civiltà filistea  il suo ultimo cantore in Omero. Ma poiché la civiltà di Omero è stata adottata anche dalla Grecia, occorre dire che Omero è il più antico autore greco di tutti i tempi e la civiltà greca è nata in Italia (per diretta filiazione dalla civiltà filisteo-pelasgica occidentale) prima che in Grecia. E’ difficile che nell’età in cui i filistei erano stanziati nel Lazio potessero aver noie dai Fenici, ma poi erano scesi dai monti i Sabini a controllare il guado del Tevere e dunque erano gli indigeni a mantenere il controllo del territorio, fino all’arrivo del signore della guerra Romolo che  fondò  Roma e divenne in brevissimo tempo il signore del Lazio. I greci furono respinti in aree marginali come Alba Longa, ma la cultura greca divenne patrimonio dell’aristocrazia romana per lungo tempo fino a ricongiungersi con la conquista della Magna Grecia.

Dopo il “ritorno dall’esilio”, per volontà dei persiani, il culto introdotto a Gerusalemme fu  quello yahweista, estremista, egoista e razzista. Basti vedere il comportamento disumano di Ezra e Neemia, che imposero lo scioglimento dei matrimoni misti, fra ebrei e straniere: « Tutti questi avevano sposato donne straniere e rimandarono le donne insieme con i figli avuti da esse. » (Ezra 10,44). Questo clero yahweista non poteva avere nulla a che fare con Sadoq, il sommo sacerdote di Davide che venerava Allāh. Del resto, con l’arrivo al potere dei Maccabei, probabilmente esistevano « i presupposti di fondo per il successivo esodo di un gruppo sadocita, che – col concorso di altri dissidenti – darà origine alla comunità di Qumran. » (Johann Maier, Il giudaismo del secondo tempio, Paideia Ed., 1991, p. 194) Se così fosse, a maggior ragione, questo “clero sadocita”   non aveva nulla a che fare con Sadoq, perché quella  del deserto di Qumran è una comunità di esaltati manichei  yahweisti, e il falso profeta egiziano s’era rifugiato qui coi suoi 4000 dopo la disfatta dell’assalto a Gerusalemme dal Monte degli Ulivi (« Sul punto di esser condotto nella fortezza, Paolo disse al tribuno: «Posso dirti una parola?» «Conosci il greco? –  disse quello – Allora non sei quell’Egiziano che in questi ultimi tempi ha sobillato e condotto nel deserto i quattromila ribelli?» » Atti, 21,37-38). Dunque il falso profeta egiziano veniva dalla comunità di Alessandria, che parlava greco e aveva redatto la versione greca dell’Antico Testamento. Le fonti filisteo-cananee di Genesi riguardavano certamente l’impero universale –  il primo di cui si sente parlare nella storia –  dato da Allāh  ad  Abramo/Khayan, il Gran khān dei nomadi della steppa mongola.  Genesi riscritta dai yahweisti vuol fare degli Ebrei una razza semitica a sé. Anche i libri successivi che narravano la controffensiva filisteo-cananea fino alla vittoria finale furono riscritti dai yahweisti diventando l’epopea di una mai avvenuta   conquista della Palestina da parte loro (e nemmeno da parte dei Danai). La  Torah esistente, che è quella di Ezra,  « dovette soggiacere alle riforme avviate sotto Ezra/Neemia, così come non è da escludere che abbia effettivamente un qualche fondamento storico la tradizione farisaico-rabbinica che con la sua «Torah orale» si richiama a Ezra come ad un secondo Mosè. La più tarda tradizione giudaica associò infatti Ezra essenzialmente a due iniziative: al ripristino dei ventiquattro scritti biblici, che erano andati bruciati nella distruzione del tempio, ed alla fondazione delle tradizioni extra-bibliche (4 Ezra 14); inoltre, le disposizioni ascritte agli «uomini della grande sinagoga» (Neem. 8-10) erano riguardate come il fondamento dell’ordinamento rabbinico. » (Maier,  p. 66) Dunque i yahweisti ebbero mano libera per rivedere e ritoccare come vollero, e in successive occasioni, gli originali testi sacri del Primo Tempio di Gerusalemme. E alla loro “conquista”, i yahweisti, senza alcun pudore,  aggiunsero quelle più antiche dell’Hyksos  Abramo/Khayan. E non gli bastò, perché, già che ci stavano, perché non rivendicare una genealogia fino a Noè (peccato che il suo diluvio era quella causato dall’eruzione del Thera che, secoli dopo Khayan, aveva alla fine provocato l’Esodo… dei popoli del mare e dei Danai), anzi fino ad Adamo? Il Secondo Tempio fu distrutto soprattutto a causa dei yahweisti del nord guidati dai sessualmente invertiti falso profeta egiziano (il Gesù dei vangeli), Simone di Ghiora e Giovanni di Giscala coi loro zeloti e sicari. Sia la tradizione rabbinico-farisaica che quella cristiana attuali sono figlie del yahweismo.    E’ evidente che, devastata la civiltà cananea,  integratasi la civiltà filistea in quella locale, ebraica, con la sua damnatio memoriae ad opera del clero yahweista del Secondo Tempio (e probabilmente già dal X-IX secolo anche del Primo Tempio) e delle sue filiazioni, scomparve quasi perfino il ricordo dei Filistei, i nemici storici degli Ebrei. Se per caso ebrei  e filistei odierni si sentissero, e magari forse si sentono, di perpetuare l’antica presunta rivalità, leggendo questo mio lavoro e magari verificando se ho ragione con studi e ricerche proprie,  capiranno che fondamentalmente  sbagliano. Loro combatterono fianco a fianco dalla stessa parte contro i Danai e il loro Yahweh signore della guerra portatori di morte. I Danai erano il nemico che essi insieme vinsero, anche se poi vinse Yahweh, ma solo per colpa degli esaltati e  intrallazzatori sacerdoti e profeti yahweisti e dei furbi Persiani, che ne sanno sempre una più del diavolo.  La religione è, sempre, tutta falsa (lascio in sospeso il giudizio su quella di Maometto), ma contro gli sciocchi uomini può essere un’arma peggiore della bomba nucleare, e questo i Persiani, di ieri come di oggi (attento Bush!), lo sanno.

I Filistei di Troia e altrove portarono Dagon nel Lazio intorno all’XI secolo se non prima  e qui resistette fino a che il signore della guerra giudeo  Romolo (ancora era in piedi a Gerusalemme il Primo Tempio) fondò Roma, e quattro anni dopo celebrò questo evento con giochi, e in particolare con corse di carri (perché il cavallo è sacro a Dagon/Posidone) da tenersi ogni secolo a venire. Romolo non era certamente un letterato come tutti i capitani di ventura, né uno storico, ma sapeva distinguere fra bene e male, e scelse il greco, dei filistei. Romolo incentrò questi giochi solenni intorno al culto di Dagon, un cui altare era sotterrato alla metà del Circo Massimo. Più tardi i Romani lo chiamarono  Conso, dio del grano come lo era Dagon, derivandolo  da Consualia, le feste secolari per la celebrazione della “Fondazione” di Roma. Nelle corse dei cavalli in onore del defunto Patroclo  c’è una contestazione, e Menelao impone ad Antiloco un giuramento: « Vieni qui, Antìloco, alunno di Zeus – questo è l’uso – dritto davanto al carro e ai cavalli, e la frusta flessibile prendi in mano, quella con cui guidavi, e toccando i cavalli, per Ennosìgeo (Posidone/Dagon) scuotitore della terra giura che non impedisti il mio carro volutamente e con dolo. » (23,581-5) Dagon, ovvero Posidone, è stato adottato come sommo dio degli etrusco-romani. Egli infatti è Proteo omerico e Vertumno. Con la cacciata dei re etruschi da Roma e poi con la scomparsa della civiltà etrusca  Dagon è morto definitivamente, in Occidente. Dovunque regnava Dagon i cristiani yahweisti ci si sono imposti distruggendone i templi, prima a Gerusalemme, dove si sono installati abusivamente insieme agli ebrei, poi a Roma dove c’è il Vaticano. Come Caino (o, dovremmo dire, il rompiscatole nomade Abele), come Remo, come l’Antinoo, l’Oppositore di Odisseo/Romolo. Alla fine dovrà sloggiare da un luogo da lui solamente profanato (insieme a tanti altri luoghi) grazie all’ignoranza degli uomini.

Fin da Genesi non mi piace Yahweh, col suo gelido occhio da Polifemo che pare quello di una telecamera nascosta pronta a cogliere in fallo l’automobilista indisciplinato o l’operaio che non lavora abbastanza, che comunque viola la libertà di movimento dell’individuo e perfino la sua coscienza. Non mi piace la sua falsa infallibilità, che pare quella spiccicata del Papa, che anche quando ha ordinato di massacrare gente inerme per procurare un Lebensraum alla sua orda di sacerdoti-guerrieri, e l’ordine è stato eseguito dai suoi yahweisti invasati, non prova rimorso, perché lui non sbaglia mai. E’ gelido e freddo calcolatore, dio della morte e della guerra. Amo invece il serpente del giardino dell’Eden, perché suscita nell’uomo il dubbio e l’amore, fisico. Il dubbio è l’anima di  una mente pensante: Cogito ergo sum, dice il filosofo Cartesio. Là dove la mente è gelida e il sangue non scorre, là c’è Yahweh con la sua morte e non vi potrà mai essere umanità. Là ci sarà la peggiore dittatura. Il dio Dagon, il Serpente, il Dragone Tifone che il sacerdozio di Yahweh crede di condannare relegandolo a custode del giardino del Paradiso, mantiene tutta la sua signoria originaria, perché di quel Paradiso era il dio originario. Un dio intelligente, prima di tutto, e dell’amore, in quanto è con la mela che Eva seduce Adamo, e poi nascono dei figli. Senza la mela e il Serpente, Adamo ed Eva sarebbero rimasti nel Giardino come due pupazzi a far da tappezzeria per il piacere dell’asessuato e invertito Yahweh.

Sono quasi due millenni e mezzo che l’ideologia del Male Assoluto domina larga parte dell’umanità e, grazie a pochi paesi, praticamente tutta la Terra. La politica folle degli USA di abbattere gli Stati sovrani laici (seppure di religione islamica) mediorientali, membri dell’ONU, mira a creare il pericolo islamico per poi avere la scusa di abbattere questo pericolo islamico e così conquistare il mondo. Io non credo in Yhaweh perché so benissimo che si tratta di un dio da barzelletta e un dio così non può esistere. Ma un filo rosso di Arianna nel Labirinto della storia umana c’è, che unisce il passato più remoto al presente attuale. Genesi apre la Bibbia e Apocalisse la chiude. Anche in Apocalisse torna il Dragone, per l’appuntamento dello scontro finale, e io con tutto il cuore spero che tutto il male profetizzato da quel falso porofeta che non è altro di Giovanni di Giscala ricada sui maledetti yahweisti cristiani. Il Dragone è il simbolo della riscossa di coloro che a suo tempo persero, perché era l’insegna dei soldati romano-germanici alla fine dell’impero distrutto dai cristiani, dunque, oggi, l’insegna di tutti i popoli e stati laici. E’ l’insegna anche di tutti coloro che sono stati martirizzati dai cristiani e dagli stati cristiani USA (per me la Babilonia di Apocalisse) in testa. E’ l’insegna della Cina (e Russia e Cina sono alleate e fanno le manovre militari congiunte), e dei Turchi,  mongoli venuti dalle steppe dell’Asia centrale come Abramo, adoratori del cielo che scopa la steppa. E dietro alla Turchia moderna, paese laico (chissà ancora per quanto) guidato da un partito islamico si celano  forse Gog e Magog di Apocalisse. Per essere precisi Ezechiele dice che « Gog nel paese di Magog è  principe capo di Mesech e Tubal » (38,2), dunque le parole chiave sono Mesech e Tubal, che nella “tavola dei popoli”  di Mario Liverani, Oltre la Bibbia, sono collocati a nord e sud in Turchia. Sarà vero, non sarà vero. Ai cristiani sperimentarlo, se credono di portare fino in fondo la loro crociata finale, per loro.

Profezie dei pazzi cristiani a parte, c’è un motivo fondamentale che mi induce a prevedere   la vittoria finale degli islamici, che erediteranno la Terra. Come storico mi sono interessato anche alla filosofia, che da una parte si identifica con la scienza e ne viene abbondantemente superata, dall’altra di occupa della serenità dell’animo. Da questo punto di vista la filosofia migliore, per me, è quella degli epicurei e materialisti, che negano dio. Detesto i miracoli perché non amo che la mia vita o qualsiasi cosa io desideri stia in mano ad un altro. Non mi piace vivere con quel sentimento di vita sospesa poi regolarmente deluso perché dio non interviene. Del resto i miracoli di Yahweh e di suo figlio Gesù e di tutta la cricca di impostori cristiani, oltre ad essere solo truffa, sono la prova che questo dio non è onnisciente perché ogni tanto è costretto a correggere coi miracoli la sua sistemazione del mondo. E se non è onnisciente non è nemmeno onnipotente. Non sono islamico, ma mi immagino dalla fede che gli islamici hanno in Allāh, che questo dio abbia talmente bene regolato la vita degli uomini da non aver bisogno di fare miracoli, cioè di intervenire modificandolo l’ordine che ha dato a tutto fin dall’inizio. L’islamico è consapevole davvero che il suo dio è perfetto e non gli chiede nulla perché sa già che quel che è stato concesso lo è stato dall’inizio dei tempi. Da questo punto di vista la visuale mia come ateo e di un islamico hanno gli stessi effetti: la serenità assoluta dell’animo. Allora, datosi che non esiste dio o  questo è Allāh, l’individuo si concentra solo su ciò che vuole e desidera con maggiore fiducia in se stesso e con molta maggiore probabilità di raggiungerlo. In più gli islamici hanno  un vero Paradiso che li attende, pieno di meravigliose e giovani donne, mentre ai cristiani  (oltre all’Inferno in  terra) rimane un noiosissimo Inferno di là, dove sono costretti ad ascoltare all’infinito i concerti degli Angeli come  il  Papa è costretto a sorbirsi quelli degli uomini. No, grazie, odio i concerti e affini. Se mi sarà concesso vivere in un III millennio da laico, bene, altrimenti, che vinca il Dragone! In sh’Allāh.

 

Fine

 

 

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