le canzoni dei soldati

(da “Naja Parla” di Paolo Monelli)

 

Come nascono queste canzoni, per imitazione di canzoni

delle altre guerre, per associazione di sentimenti; la solita rassegna, fra il paziente e il tracotante , dei guai dei soldati in guerra, il pensierino all’amorosa, la speranza di tornare a

casa, il tutto cantilenato sopra una di quelle nenie che

accompagnano così bene i piccoli lavori al campo, la pulitura

del fucile, la preparazione della buca, la lavatura della gavetta (la lavatura a secco, come per certi vestiti eleganti di signora, sabbia e carta).

Cantava dunque D’Agostini, e i soldati gli andavano dietro

volenterosi, e quelli dalla memoria più pronta presto non ebbero più bisogno di guardare le parole sul foglietto:

"Quando spara l’ottantotto

nella buca stiamo stesi

così siam da venti mesi

nel deserto a guerreggiar.

– Trenta – corresse qualcuno – L’altro giorno alla Brescia cantavano trenta".

E sì, avevamo trovato gente che si era sgrugnati trenta mesi di quest’Africa, tutti di fila.

Ma poi i versi di queste canzoni ogni soldato se li aggiusta a modo suo, questo è il bello delle canzoni dei soldati.

Quando sgancia l’aeroplano con la faccia stiamo a terra

maledetta questa guerra le sue mosche non fan dormir.

Ripetendo questa strofe alcuni cominciarono a cambiare l’ultimo verso, dicevano “la sua luna non fa dormir”. E’ vero, la luna d’Africa la si sente dormendo in fondo al ricovero,

come si sente il sole di mezzanotte nei paesi del settentrione; bisogna alzarsi alla fine e uscire fuori a guardarsi quella strana luna che abbacina quasi, tanto è chiara, eppure il deserto non se ne illumina, si beve tutta quella luce restando opaco e fosco.

Sulla gara dirimpetto (tutto il giorno era stata battuta, apparivano chiare le macchie degli scoppi, colate di detriti anneriti) si vedevano uomini uscire ad uno ad uno dal

ricovero, sedersi presso l’ingresso; non si avvicinavano al coro, non il coro li aveva svegliati, ma la luna; stavano là immobili, avvolti nella coperta, il viso tra le mani, le braccia

puntate sulle ginocchia, come pastori all’addiaccio.

"Maledetta la Marmarica

e il deserto senza fine

c’è soltanto sabbia e mine

che bisogna traversar".

La solita rassegna di cui il soldato si compiace, e ne trae motivo di orgoglio; le piaghe di quella terra , la mosca, la mina, la buca; il solito elenco delle disgrazie, le solite ingenue imprecazioni, maledetto qui, maledetto lì, porca naja, si sa che il buon soldato trova sempre da ridire su qualche cosa, un buon moccolo fa sentire meno aspro il compito, è uno sfogo, è un prender fiato, è come lo sputarsi nelle mani prima di afferrare lo strumento.

Così cantavano i soldati delle prime spedizioni in Africa, anni 1887, 1888: “Mamma mia, vienimi incontro – vienmi incontro a braccia aperte – che ti conterò le storie – che

nell’Africa ho passà. – Maledette quelle strade – quei sentieri polverosi – sia d’inverno sia d’estate – qui si crepa dal calor. – Terminate le cartucce – che ne abbiam centosessanta – combatteremo all’arma bianca – grideremo Viva il Re”.

Ma poi ecco il compiacimento per quello che si è fatto, senza jattanza, senza petto in

fuori, solo i dati di fatto, come si dice in linguaggio burocratico: dal confine fino a El Daba - sempre a piedi siamo andati - fra le mine siam passati - il nemico non ci fermò.

E si chiude con il solito pensierino per la ragazza, le pazienti ragazze aspettanti di queste cantate: Caterina in cameretta che ricama rose e fiori, ohi Carulì, Francescamaria

che incanta il metropolitano e arresta il semaforo, la biondina smortina (“è l’amor che mi rovina”), la Dosolina povera tosa: tu mia bella sta costante, tornerò di là dal mare, dopo tanto camminare, sul tuo cuor riposerò.

Queste cose piacciono ai soldati, queste parole, queste arie; e se qualche volta, trascinati da un ritmo facile e allegro s’inducono anche a cantare canzoni composte dai borghesi e che hanno sentite alla radio, canzoni di cui non capiscono le parole e le ripetono senza pensare al senso (“inchiodata sul palmeto – veglia immobile la luna – a cavallo

della duna – sta l’antico minareto”; chissà cosa crede che sia un minareto, il poeta di questa quartina, forse una specie di torre Eiffel, e la luna, altro che inchiodata, cammina per il cielo, grazie a Dio, quando sarà arrivata su quella palma là sarà finito il turno, guai fosse inchiodata, non si smonterebbe più di vedetta; oppure “l’alba spunta già – e se devi andar – per le vie del mondo – non tardar – ogni studentin, gaio soldatin – lascia il libro e l’Università” (brr); oppure quel “ciao ciao mio bell’alpin” (che mandava in bestia tutti gli alpini degli undici reggimenti) – se dunque qualche volta si lascian prender dal ritmo e cantano anche loro queste stupide parole, ritornano poi sempre alle canzoni vecchie “per un bacin d’amore, successer tanti guai”, “sul ponte di Bassano bandiera nera, la mejo gioventù va soto tera” (e in terra d’Albania quelli della Julia vi fanno la necessaria correzione: “sul ponte di Berati bandiera nera…”), “la Dosolina la va di sopra, la si mette al tavolino”; o inventano parole nuove da cantare sopra un'aria antica e nota.

Così hanno fatto gli alpini del settimo reggimento in Albania. Un soldato ignoto, fratello d’armi e d’ispirazione di quel Domenico Borella che scrisse le parole della canzone

del Montenegro, e le intonò sull’aria di una vecchia canzone di miniera (“Cansone omoristica del terzo reggimento alpini alla conquista del Monte Nero”), un alpino ignoto del

7° sull’aria del Testamento del capitano compose una lunga tiritera, dedicata alla memoria del colonnello Rodolfo Psaro, comandante del 7°, morto in prima linea con i suoi.

Il colonnello fa l’adunata, negli occhi tutti el ne gà vardà,

e poi ha detto ai veci alpini, di tener duro n’ha comandà”.

L’alpino che scrive i versi vuole esprimersi in italiano, ma la canzone l’ha pensata nel suo dialetto montanaro, che riaffiora ed ogni tanto si afferma, specie quando la commozione è maggiore. I suoi alpini gli fa risposta,

“Sior colonnello se tegnerà” e scarpinando sulle montagne

in prima linea i s’à portà.

E per do mesi i a tegnù duro in mezzo a un freddo da far giassar, scoltando sempre le sue parole

“sacrificarsi ma no mollar”.

La tiritera è lunga, perché i soldati sono pazienti, sono lunghe le notti intorno al fuoco del riposo; e poi bisogna contare tutte le cose per bene come sono successe, senza

saltare nulla ed in ordine.

E i suoi alpini gli manda a dire

che no ghe riva né pan né vin.

E il colonnello gli fa risposta:

“Questo l’è niente pe’ i veci alpin”.

E i suoi alpini gli manda a dire

che no i gà scarpe per camminar.

E il colonnello gli fa risposta

“No serve scarpe per restar là”.

E i suoi alpini gli manda a dire

che dal gran freddo no se pol salvar.

E il colonnello gli fa risposta

“Con la mitraglia ve podè scaldar”.

E i suoi alpini gli manda a dire

che adesso manca la munission.

E il colonnello gli fa risposta

“Na baionetta vale un cannon”.

E i suoi alpini gli manda a dire

posta da casa no i vede rivar.

E il colonnello gli fa risposta

“il Re vi manda a salutar”.

Proprio pignoli questi alpini, meticolosi, non tacciono nulla di quello che gli manca o li tormenta, questo non vuol dire che si debbano avvilire o perdere d’animo (difatti dice la strofe seguente: “E un altro mese sti veci alpini – ha tegnù duro senza mollar – ed ogni giorno i greci ’ tacava – senza esser boni mai de passar”), ma bisogna bene che il superiore sappia come vanno le cose. E a tutte le pignolate dei suoi soldati il colonnello trova la giusta risposta, e l’ultima è la più bella, quando l’ho sentita la prima volta mi son sentito proprio un nodo alla gola. Da tre mesi gli alpini sono lassù sulla montagna, le cose vanno male:

E i suoi alpini gli manda dire

che massa pochi sono restà.

E il colonnello va su da loro

“Niente paura eccomi qua”.

E la mattina s’è levà il sole

e le montagne el gà indorà,

il colonnello co i veci alpini

tutti era morti, ma i era là.

 

 

 

 

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