"Canta che ti passa" era il motto, un poco sfottente, del Fante di tutte le armi.
II Fante, giocondamente menefreghista, allorché sentiva levare la voce e bestemmiare, e imprecare, di lontano ammoniva l’altro: - canta che ti passa - salvo, un attimo dopo, a sacramentare peggio.
II consiglio, comunque, contiene una grande verità, che il canto è balsamo ad ogni ambascia, come è espressione di ogni gioia.
La nostra vita comincia con uno strillo, che subito la madre placa con il monte roseo della vita, e poi col soavissimo cantar della ninna-nanna. Canta la giovinetta innamorata, di tra i gerani e la mortella; canta il forzato oltre le sbarre della segreta buia; canta l'artiere a scandire la sua fatica; e tutti, allora, sono poeti: quando l’uomo della selva tremò la prima volta d’amore, disse la sua voglia con la prima canzone. In ogni tumulto del cuore umano, la canzone sale ad esprimere la gioia o il dolore: inno erotico o funebre, bellico o giocondo, sempre rappresenta il modo perfetto di dire. Quando l'emozione fa groppo alle parole, si sprigiona il canto, dalle solitudini nervose alla opacità congestionata delle cattedrali. Ne "Le origini del linguaggio” Zaborosky dice che "il canto è stato uno dei mezzi di espressione dei primitivi"; e prima di lui Lucrezio affermò che “l’uomo imparò a parlare dal canto degli uccelli".
Non v'è, crediamo, chi non abbia memoria di essere stato turbato, talvolta, dal ritornello di una canzone che improvvisamente si è levata e lentamente è svanita, giù, nella strada; e ha ricordato un volto: luci d'amore velate dal battito frequente delle ciglia; e un fulgore di capelli; e uno scrigno bianco tra due labbra rosse.
Canta, e si placa l'ambascia, e la gioia finalmente sfocia, e vibra con le matte capriole del ritornello che commenta e conclude.
E' più facile sentire una bella voce che un coro discreto. Quel prepotente individualismo che caratterizza il nostro temperamento latino, se portava, in tempi lontani, nei sabati della paga, alle sbornie solenni per cui il tenore malfermo tentava "di quella pira", ci dona ancor lo strazio dei cantori isolati, che se appena hanno un filo di voce gonfiano la gola, e a chi li ascolta... gonfiano la sopportazione. Se poi avvenga che una compagnia di amici tenti una canzone, è di tutti fare a gara per primeggiare, per gridare più forte degli altri; e a nessuno passa per la mente che il canto corale ottiene effetto e fusione solamente quando ogni cantore sia disciplinato all’altro, attaccando a tempo o accompagnando con discrezione; così succede che al ritornello nasce una straziante confusione e il coro va alla malora. Solamente i montanari, dalle Alpi agli Appennini, sanno piegarsi all’umiltà della fusione, e trovano il modo di unirsi con la necessaria discrezione. Ciò deriva, bisogna riconoscerlo, da una tradizionale abitudine al coro e dalla sensibilità musicale che, col canto, lentamente ma sicuramente si forma. Non è affatto vero che per ottenere un bel coro – intendiamo un maschio coro — occorrano belle voci. Giungiamo persino ad affermare che non è necessario escludere nemmeno coloro che non hanno "orecchio", perché certe disarmonie portano colore nel canto.
La guerra ha fra l’altro insegnato come i soldati sappiano improvvisare cori stupendi, nei quali ogni cantore prende quasi immediatamente il tono che più si confà, ben presto emulando coloro che, per ragioni etniche, sono più portati al canto corale. E questi sono gli Alpini.
Intendiamo i montanari dalle Alpi agli Appennini: chi non ricorda, ad esempio, la stupenda canzone corale degli Abruzzesi ricordata da D'Annunzio ne Il Trionfo della morte: "Tutte le funtanelle se sò seccate"? Il montanaro un po' rude, poco armonioso e niente affatto lirico, isolatamente non vale nulla, ma in coro è impareggiabile, perché è disciplinato, perché è discreto, perché tende meno a individuarsi, sapendo rinunciare all’orgoglio dell’"io" per la disciplina del "noi". Sulle Alpi e sugli Appennini non nascerà un Caruso, ma anche i Carnera si adattano a cantare, per così dire, in rango; e ne nasce, per esempio, la cadenza stupenda del "Testamento del Capitano”, la cui ultima strofa sembra un inno religioso, solenne come una cattedrale.
Questa virtù deriva dal dono ineguagliabile della solitudine. I montanari hanno lunghe ore di marcia per il carico e lunghi ozi nelle cucine calde, o nelle stalle, presso le miti vacche da latte. Cantando vincono la montagna, dimenticano la fatica, popolano la solitudine, nobilitano la sosta. Allora si leva, dapprima, la voce tremula di una fanciulla; e se non ci sono fanciulle (come, vivaddio - o purtroppo, secondo i punti di vista - non ce n'erano in guerra) se non ci sono fanciulle, dicevo, uno dei cantori alza il falsetto; gli altri attaccano poi, raccogliendo il richiamo, commentando la frase.
Gli Alpini, dunque, per le ragioni etniche a cui abbiamo accennato, si trovarono naturalmente ad essere non solamente i cantori più valenti, ma anche i possessori di un vasto repertorio. Quel benedetto spirito di corpo, che dettò - tra l’altro - il "chicchirichì" ai Bersaglieri, il pappino alla Fanteria buffa, la Fanteria prolungata ai granatieri, la vaselina alla Sanità, nonché le innumerevoli brigata "scappa" "fuggi" eccetera, determinò qualche reazione ... corale e soprattutto molti adattamenti.
Anche per l'opportunità di adattare differenti luoghi e vicende diverse, le canzoni subirono varianti, infiorettandosi in mille guise, qualche volta fino a snaturarsi. I nomi e le località mutano secondo le preferenze e le raccolte più autentiche, che vengono prese dalla viva voce e non dai testi stampati, non pretendono di essere originali: sono fedeli al ricordo, e nulla più.
(da “Almanacco del Combattente - Anno 1935”)