Immigrazione islamica: la polizia svedese lancia l'allarme



Dan Eliasson, capo della Polizia svedese, denuncia come sempre maggiori zone del paese siano ormai inaccessibili alla polizia. Situazione confermata addirittura dai sevizi segreti svedesi. Ma per le elite progressiste è solo fumo negli occhi.
Tempi.it del 11/7/2017


La Svezia è fuori controllo, quasi persa, e ad ammetterlo è Dan Eliasson, il capo della polizia, che in tv descrive una situazione da guerra civile, con intere aree del paese sfuggite all’autorità dello Stato, e conclude con un disperato appello ai cittadini: «Aiutateci, aiutateci!». «Ad essere fuori controllo è lui», reagisce rabbiosa la stampa progressista, ma c’è la conferma di Anders Thornberg, capo dei servizi segreti (Säpo), che alza addirittura l’allarme parlando di terroristi e spiegando che «dai 200 monitorati nel 2010 si è passati a qualche migliaio», capaci di colpire in Svezia e altrove, soprattutto le decine di foreign fighter di ritorno dalla Siria. Ma perché improvvisamente i vertici di polizia e servizi rompono il muro di omertà? La ragione si desume da un servizio della Nrk, la Rai norvegese, che lo scorso settembre ha svelato come ogni giorno in Svezia tre agenti si licenzino e l’80 per cento pensi di cambiare lavoro. Eliasson ammette che le aree “vietate” a polizia e pompieri sono diventate 61, sono sempre più estese e 23 di queste, attorno alle città più grandi, sono considerate “particolarmente rischiose”. Da lì la polizia si è ritirata: commissariati chiusi e controllo, de facto, demandato a 200 gang che armano almeno cinquemila delinquenti. Persino le ambulanze chiedono di entrarci con attrezzature da zona di guerra.

I “populisti” di Sd (Sverigedemokraterna), schizzati al 18 per cento nei sondaggi, spingono per l’intervento dell’esercito a Malmö, e Adam Marttinen, responsabile giustizia del partito, spiega che occorre ridare pieni poteri alla polizia, revocare la nazionalità agli estremisti, impedire i programmi di accoglienza per i terroristi di ritorno dalla Siria ed espellere chi delinque. Tutto il contrario della ministra della Cultura e Democrazia, Alice Kuhnke, che alla TV di Stato accusò i comuni di non fare abbastanza per accogliere nuovamente chi era andato a combattere. La città di Lund che propose ai terroristi di ritorno una casa, dei sussidi e lavoro socialmente utile, pareva infatti un’eccezione, ma una recentissima inchiesta di Expressen ha svelato una realtà inquietante: decine di fanatici che avevano postato sui social loro foto con teste mozzate e nemici uccisi sono stati riaccolti in Svezia e vivono protetti con un nuovo nome concessogli dalle autorità. Delle preziose risorse da proteggere, pare. Pentiti? A leggere le interviste non sembra proprio. Per il governo però la situazione è “sotto controllo”, non c’è overdose di migranti e il terrorismo non colpisce la Svezia. No? E la strage di Stoccolma? L’imbarazzante sito internet che il governo usa per controbattere alle cosiddette “fake news populiste” spiega che si è trattato di «un sospetto attacco terroristico, ma i motivi non sono ancora chiari».

Emblematico di questo negazionismo di Stato il caso della ministra degli Esteri Margot Wallström, che dopo le stragi di Parigi del novembre 2015 (130 morti) suggerì che fossero una reazione alla «frustrazione» per la situazione palestinese. Ma le comode spiegazioni, nota la giornalista Annika Rothstein, non reggono più: «La Svezia – dice Rothstein, che collabora con Israel Hayom e Jerusalem Post – è notoriamente contro Israele, filopalestinese e neutrale in ogni conflitto, eppure oggi è nel mirino. Evidentemente la spiegazione è un’altra e non è la povertà, visto che una famiglia di migranti di 4 persone, oltre alla casa, riceve più di 3.000 euro in sussidi al mese». Annika spiega come la Svezia, che già nel 2014 aveva circa 400 mila musulmani su 9 milioni di abitanti, tra il 2015 e il 2016 ha accolto altri 150 mila migranti «da paesi dove le opinioni sulle donne, la sessualità, l’eguaglianza e la separazione tra Stato e religione sono molto diverse dalle nostre.C’è un inevitabile scontro di valori, e ci si rifiuta di ammettere che esso può solo intensificarsi: vediamo l’impennata dei delitti d’onore, gli stupri coperti dalla polizia e dai media e la segregazione sessuale accettata per accontentare i fanatici».
Dopo le violenze sessuali di massa che fecero scalpore a Colonia, Rothstein scoprì che anche in Svezia la polizia, pur al corrente di atti simili, avesse deciso di non parlarne perché i sospettati erano qualificati come “rifugiati”. Supposizioni? No, il capo della polizia di Stoccolma, Peter Agren, ammise alla stampa che «è un tema sensibile. Abbiamo paura di dire la verità perché potrebbe favorire la propaganda populista».

Significativo anche il “caso Trump”, scoppiato quando il presidente americano, parlando di estremismo in un comizio il 18 febbraio scorso, ha detto: «Guardate cosa succede in Germania, a Bruxelles, in Svezia, a Parigi…». Governo svedese e mass media mondiali si sono affrettati a ridicolizzarlo: in Svezia non succede niente e nulla succederà. Pochi giorni dopo un tir lanciato da un islamista uzbeko sulla folla a Stoccolma ha dimostrato che si sbagliavano, ma Trump si riferiva ad altro: parlava di un documentario di Ami Horowitz, trasmesso da Fox negli Stati Uniti, in cui poliziotti svedesi ammettevano la loro impotenza rivelando che, anche in caso di inseguimento, le loro auto si fermano all’entrata dei quartieri a rischio, dove circolano armi da guerra e droga ma gli estremisti sono intoccabili poiché chi osa farlo è accusato di razzismo.

Amun Abdullahi, musulmana scappata dalla Somalia e diventata giornalista della radio pubblica svedese, pensava fosse giusto raccontare come gli estremisti di Al Shabaab reclutassero giovani nelle periferie di Stoccolma. Ma «anziché ringraziarmi, i colleghi di sinistra mi dicevano di stare zitta e cominciarono a ostracizzarmi. Ero odiata e accusata di dire cose che, seppur vere, favorivano la destra». Minacciata e delusa, Amun è tornata in Somalia perché «Stoccolma è più pericolosa di Mogadiscio». Stessa sorte per Hanif Bali, deputato musulmano di origine iraniana che rivela: «Si parla di dialogo ma quando dico cose positive sugli ebrei ricevo fiumi di email minacciose da immigrati arabi e gente di sinistra, è davvero pericoloso parlare».


HOME