Società multiculturale ? Sì, però...

L’idea di una società multiculturale è un ‘must’ in Italia. Guai a sostenere tesi contrarie, guai ad evidenziare certe forzature o storture. L’accusa di razzismo giungerebbe rapida come il fulmine. Ma la verità è che una società forzatamente ed avventatamente multiculturale qualche problema lo crea. Inutile sottolineare che i maggiori problemi si presentano, ovviamente, con l’Islam.
In Gran Bretagna lo stesso Primo Ministro Blair ha affermato, all’indomani del ritrovamento di un grosso quantitativo di esplosivo destinato alla metropolitana, che “la società multiculturale ha fallito”.
La Francia, da parte sua, non sa più come affrontare la situazione dei musulmani, che sul suo territorio sono più di 5 milioni e formano un’entità a sé stante, con molti problemi di ordine pubblico.
Da ultima l’Olanda, scioccata dallo sgozzamento, in pieno centro ad Amsterdam, del regista Van Gogh, ucciso da un estremista islamico che, in teoria, sarebbe dovuto essere un cittadino integrato. E’ di queste settimane, infatti, un acceso dibattito politico in quel paese, dove si è capito che accettare tutto e tutti, senza assicurarsi l’adeguamento dello straniero alla cultura nazionale, porta a “ghettizzare” i vari gruppi sociali, con ovvi ed inevitabili scontri sociali.
L’Olanda è infatti pronta ad introdurre esami a pagamento per gli immigrati che vogliono entrare nel paese, e il governo dei Paesi Bassi chiederà il versamento anticipato di 350 euro a tutte le persone che proveranno a sostenere gli esami di lingua, cultura e valori olandesi.

In Spagna, invece, Zapatero (che prosegue la sua opera di 'islamizzazione' della società spagnola) ha proposto di legalizzare più di un milione di immigrati clandestini, provocando le reazioni di molti paesi europei (per prima la Germania), che vedono ora nella Spagna il ‘ventre molle’ dell’Europa, visto la facilità con cui potranno entrare gli extracomunitari.

Riproponiamo lo stralcio di un’articolo di Magdi Allam, pubblicato sul Corriere della Sera, dove si affronta senza falso pudore il problema della società multiculturale.
Questo articolo è di particolare attualità anche in Italia, dove sempre più spesso si rinuncia alla nostra storia ed identità sociale per non “offendere” il musulmano di turno: quindi via i crocefissi dalle scuole, via i canti natalizi religiosi, ecc.
No, così non va. Lo straniero che viene nel nostro paese dovrebbe capire che deve accettare il modello socio-culturale che lo ospita. Solo così sarà pensabile una vera società multiculturale (sul modello americano, ad esempio), sostenibile nel tempo.

Accettare culture diverse è una ricchezza nella misura in cui queste culture rispettano la società che le ospita. L’immigrato deve accettare e fare suo il modello culturare e socio-economico del paese che lo ospita; è sbagliato accettare che possa trasferire qui il suo stile di vita e religioso. E’ il marocchino che deve trasformasi in italiano, non viceversa. Altrimenti sarà la fine della società come la conosciamo oggi.
6/2/2005

«Troppe libertà, in Olanda integrazione fallita»

AMSTERDAM - Multiculturalismo, addio. L’idea che fosse sufficiente concedere la libertà a tutte le etnie e a tutte le religioni, nel nome del relativismo culturale, affinché la libertà diventasse patrimonio comune, si è rivelata una mera chimera, l’inesorabile suicidio di una civiltà. Proprio l’Olanda, la patria delle libertà, il laboratorio più avanzato del multiculturalismo, è in profonda crisi. Tutti, a sinistra, al centro e a destra concordano che il multiculturalismo è una scatola vuota di valori, incapace di cementare una identità condivisa. Che l’indifferenza camuffata da tolleranza ha riprodotto il sistema coloniale dell’ apartheid , la segregazione razziale, all’interno stesso della madrepatria. Che accordare la cittadinanza senza garanzie non solo non porta all’integrazione ma accelera la conflittualità e la disgregazione sociale. Che il passaporto non è affatto sinonimo di identità nazionale. Crolla così il mito della pillarization , una struttura sociale che si immaginava potersi reggere sui pilastri dell’autonomia etnico-confessionale. Che ha invece partorito un mostro policefalo segmentato in compartimenti stagni, con i quartieri-ghetto e quelli off- limits per i non olandesi, con le scuole bianche e quelle nere. Dove la discriminazione è ufficialmente sancita dalla distinzione tra cittadini autoctoni, alloctoni occidentali, alloctoni non occidentali e, al gradino più basso, immigrati privi di cittadinanza.
Il trauma che ha segnato l’Olanda all’indomani dell’assassinio di Theo van Gogh lo scorso 2 novembre, sgozzato nel centro di Amsterdam da un terrorista islamico olandese di origine marocchina, in teoria un cittadino integrato, ha costretto l’opinione pubblica e l’intera classe politica ad ammettere che non è più possibile andare avanti nell’inganno del multiculturalismo. C’è consenso sul fatto che si sia trattato di un’esperienza fallimentare, un capitolo della storia contemporanea che deve essere archiviato. La divergenza fra destra e sinistra riguarda la modalità con cui superare l’errore del passato senza far esplodere lo scontro sociale, un obiettivo tutt’altro che semplice dal momento che non è chiaro quale potrebbe essere il modello di integrazione alternativo da perseguire.
«La politica multiculturale è oggi totalmente sorpassata nei Paesi Bassi. E’ stata una maniera pigra di pensare della società olandese. Possiamo dire che si trattava di una scatola vuota - afferma Jozias van Aartsen ricevendomi nella sede del Parlamento dove presiede il Partito popolare per la libertà e la democrazia (Vvd, membro del governo) -. Non abbiamo trasmesso i nostri valori agli immigrati.
Jaffe Vink, editorialista del quotidiano Trouw , espone un caso concreto. Dalla sua confortevole residenza ad Amsterdam spiega: «Nel nostro quartiere c’è una scuola dove il 95% degli studenti sono stranieri, di seconda e terza generazione. Ebbene, dall’interno della scuola opera una banda di giovani delinquenti marocchini che terrorizzano il quartiere. Negli scorsi mesi una famiglia olandese si è trovata costretta ad abbandonare la propria casa. Eppure il sindaco non è stato capace di affrontare la situazione. Per noi è difficile fare fronte alla violenza. Credevamo di vivere in una città, in una nazione di pace. Invece la criminalità è aumentata del 100% negli ultimi 40 anni. E’ molto difficile parlare di questo. Non vedevamo il problema, il tutto è reso ancora più difficile perché la maggior parte della criminalità è alloctona. E il 50% delle vittime degli assassini è alloctono. Secondo una previsione nel 2050 le quattro principali città olandesi saranno al 50% alloctone. Ma non c’è mai stato un dibattito democratico al riguardo». Qui i marocchini non possono continuare a vivere come vivevano nel Rif. Devono cambiare le loro abitudini. Eppure noi non vedevamo l’enorme gap culturale. Credevamo che acquisendo la nostra cultura avrebbero perso parte della loro. In più non siamo stati chiari sulla nostra cultura, sui loro doveri. Non siamo stati severi. Abbiamo avuto troppa fiducia in noi stessi». Questa la sua conclusione: «Il multiculturalismo è, come diciamo in Olanda, Madurodam (l’equivalente della Minitalia), è cosa finita. La società multiculturale non esiste. E’ un’idea sbagliata.
Il ministro dell’Integrazione Rita Verdonk, liberale del Vvd, dopo l’assassinio di Theo van Gogh ha sostenuto: «In questo Paese nessuno può essere ucciso per avere espresso la propria opinione. Siamo a un crocevia. Solo noi possiamo decidere quel che vogliamo, che strada scegliere. Vogliamo forse cadere nella spirale dell’alienazione e della polarizzazione, della paura e dell’odio?». La Verdonk ha presentato una proposta di legge per rendere obbligatorio un «corso di integrazione» per chiunque non abbia avuto almeno otto anni di istruzione obbligatoria in Olanda. Si tratta di circa 775 mila alloctoni a cui si richiederà di rinunciare alla cittadinanza d’origine, di imparare la lingua olandese, di conoscere la cultura e d’interagire con la società olandese.
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Proponiamo un’articolo tratto da Avvenire. La rivista cattolica mette evidenzia le gravi difficoltà di integrazione che deve affrontare la società francese, che ha fatto dell’integrazione tra occidente ed oriente (i musulmani in Francia sono 5 milioni) una bandiera. Che però adesso sembra creare più problemi che altro.

“Manifestiamo contro le ineguaglianze, e loro ci picchiano: Leo, 16 anni, ginnasiale parigino, non si rimette dal crollo delle sue certezze pacifiste, fraterne, di sinistra. Come tanti della sua età, nelle grandi manifestazioni studentesche in corso a Parigi contro una riforma scolastica (la legge Fillon), s'è trovato pestato e derubato da altri studenti come lui. O non precisamente come lui: gli aggressori erano tutti Blacks (neri), parola del gergo giovanile che comprende "rebeus" (maghrebini) e "renois" (africani). Coalizzati contro i "blancs", i "petits français".
Erano un migliaio, dice la polizia. Scesi dalle banlieues e dalle scuole professionali di Seine St. Denis. Le foto degli incidenti mostrano i violenti: quasi dei bambini, figli di ghanesi e senegalesi, con il cappuccio della felpa calato sugli occhi, che scalciano in dieci o venti un ragazzo steso a terra. Intervistati il giorno dopo dai giornali, si dicono soddisfatti, rievocano ghignando "le facce da vittime" dei "petits français", il "piacere di picchiare", e di "fare soldi": hanno rubato decine di telefonini, lettori di musica Mp3 e portafogli dei loro compagni. Compagni? No: "des Blancs, des bolos". Neologismo che significa, insieme "secchione" e "piccione", vittima predestinata.
È la più recente e maligna involuzione dell'annoso problema delle banlieues. I ragazzini di colore esprimono senza vergogna un razzismo estremo, in discorsi di estrema destra a rovescio. Adoratori della forza, spregiano "les blancs" perché non si difendono. Anche perché, spiega Abdel di 18 anni, "rebeus (arabi) e renois (negri) hanno tanti figli, non sai mai se chi ti picchia ha dei fratelli maggiori». E' la crisi demografica ridotta all'esito più elementare; i violenti, vengono da scuole dove i "bianchi" non sono più di 2 su dieci. E qui, il branco è pronto a distruggere moralmente quei loro stessi amici di colore che cercano di avere buoni voti, mettendoli in croce come "leccapiedi dei bianchi"; chi studia è emarginato e ridicolizzato, e il conformismo di branco - così imperioso sugli adolescenti - esercita tutta la sua forza nel trascinare verso il basso, e così perpetuare la disparità sociale, con danni incalcolabili. Il conformismo delle bande giovanili è totale e cieco: ogni minima diversità è colpita, basta un taglio di capelli "strano", o comunque diverso da quello dalla banda, per identificare la vittima come "bolo" e provocare l'aggressione. «E' come se avessero scritto in fronte: vieni a prendermi la roba», sogghigna un giovane renoi.
E' il grado zero dell'inciviltà, il primitivo "noi" contro "loro" che erutta senza freni nel cuore della società di Rousseau ("L'uomo nasce buono", ricordate?) e dell'illuminismo. Non ci sono soluzioni facili. Tante opportunità offerte ad una generazione, per vederla poi identificarsi con consumi standard e dozzinali. Tanta libertà, e la vediamo cadere schiava sotto la dittatura più spietata: quella della gang, con le sue regole anonime, senza luce e senza cuore. Tanta "integrazione", e siamo all'odio razziale. “

Da Avvenire.it del 17/3/05
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Il Presidente del Senato, Marcello Pera, al convegno di Comunione e Liberazione ha recentemente espresso i propri forti dubbi sull’opportunità di una società multiculturale, affermando come sia estremamente pericoloso rinunciare alla propria identità sociale e culturale in nome di un multiculturalismo estremo.
Ovvero, sì alla società multietnica, ma prudenza per la società multiculturale, dato che il nostro livello di benessere sociale è il frutto del modello socio-culturale che ci siamo dati, quindi chi viene in Italia dovrebbe capire che deve trasformarsi in “italiano”, e non avere la pretesa di importare a casa nostra, ad esempio, il modello socio-culturale magrebino.
Intervento peraltro appoggiato, qualche giorno dopo, anche dal Vescovo Fisichella, rettore dell’Università lateranense e cappellano di Montecitorio, che così si è espresso: “Come altre volte, il Presidente Pera ha individuato alcuni nodi che appartengono al nostro frangente storico e lo ha fatto con una lucidità e una responsabilità che obbligano a riflettere. Le sue proposte sono di carattere culturale e toccano l’identità dell’Italia e dell’Europa, le radici della nostra civiltà. È per questo motivo che mi sento di intervenire e intervengo a difesa, perché le obiezioni che gli si fanno mi paiono sfocate o strumentali” (Corriere.it del 25/8/2005).
Abbiamo notato quindi con somma soddisfazione come le nostre opinioni sull’argomento siano le medesime del Presidente del Senato, soggetto ben più autorevole dei sottoscritti.
Riportiamo qualche breve stralcio del suo intervento, pubblicato sul Corriere.it del 22/8/05.

COLPA DEL RELATIVISMO - Sostiene Pera che è il «relativismo, la dottrina per la quale tutte le culture sono uguali, che non si possono comparare e non si possono porre su alcuna scala per giudicare se una è meglio dell'altra», l'elemento più preoccupante in questo momento per l'Occidente. «I relativisti scherzano con il fuoco», ha affermato strappando l'applauso ai circa 4 mila presenti. “C’è ancora chi crede che la democrazia sia la faccia istituzionale del relativismo morale. Questo è un errore pericoloso. Una democrazia relativista è vuota, ci fa perdere identità collettiva e ci priva di qualunque senso obiettivo del bene. “

«EUROPA, PERDUTO IL SENSO RELIGIOSO» - Secondo Pera l'Europa è il simbolo di questa crisi. «In Europa si evitano di menzionare nella Costituzione le radici giudaico-cristiane, si condanna un politico (Rocco Buttiglione), anche se si dichiara rispettoso della legge pubblica, perché sull'omosessualità afferma i suoi convincimenti morali cristiani. In Europa si perde il senso religioso dei nostri costumi e della nostra tradizione ……. in Europa si approvano leggi che disgregano la famiglia e si mettono con arroganza e protervia al voto popolare i valori della persona e della vita (la legge spagnola sulle coppie omosessuali e il referendum italiano sulla fecondazione assistita)».

«MULTICULTURALISMO GENERA APARTHEID E TERRORISTI» - «In Europa si diffonde l'idea relativistica che tutte le culture hanno la stessa dignità etica; si pratica il multiculturalismo come diritto di tutte le comunità, e non importa se genera apartheid, risentimenti e terroristi di seconda generazione. In Europa si alzano le bandiere arcobaleno anche quando si è massacrati e si ritirano le truppe dal fronte della guerra contro il terrorismo, anche quando il terrorismo fa vittime in casa nostra: il riferimento è alle marce della pace contro l'America e alla decisione spagnola sull'Iraq».

«L'IMMIGRAZIONE CI FA DIVENTARE METICCI» - «In Europa la popolazione diminuisce, si apre la porta all'immigrazione incontrollata e si diventa "meticci"». Per Pera è necessaria un’alleanza seria e salda fra laici e credenti «per riaffermare e salvare la nostra identità occidentale, democratica e liberale perché contro di noi è stata dichiarata "una guerra santa"».
«Dobbiamo difendere l'Occidente», ha aggiunto Pera, «perché le nostre libertà e democrazia non sono questioni locali, ma riguardano l'essenza della natura umana. Dobbiamo accettare la sfida e fare la nostra parte».

22 agosto 2005 Corriere.it
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Europa, fusione o confusione ?

Il meticciato spesso è solo una parola, perché nella nostra società le culture non si mescolano affatto.
Intervista al filosofo Brague.

Da Parigi, Daniele Zappalà

«Parlando di meticciato, credo che dovremmo rinunciare a proiettare i nostri sogni di oggi nel passato». Nel dibattito sulle poste in gioco dell'immigrazione, il filosofo Rémi Brague (professore di filosofia araba alla Sorbona) raccomanda più realismo e meno sofismi ispirati a tempi remoti riletti spesso con gli occhi del presente. Ciò anche sull'altra riva del Mediterraneo, dato che «gli intellettuali musulmani dovrebbero guardare di più ai veri problemi delle loro società: miseria, ignoranza, corruzione, dittatura degli individui o delle famiglie».
Professore, c'è chi evoca i rischi del meticciato per l'Europa e chi ne vanta invece i meriti…
«La parola "meticciato" è di moda, come "multiculturalismo". Queste parole servono a dar vita ai sogni politically correct delle nostre buone coscienze attraverso un'insincerità di fondo: trasferire ciò che è propriamente individuale al livello della società. Un meticcio era all'origine il figlio di genitori di razze diverse e per un individuo avere due culture è una fortuna. Ma per una società è una fortuna comporsi di due o più gruppi culturali diversi ? Parlare di meticciato, purtroppo, serve spesso a nascondere il vero problema: i gruppi di origine diversa sovente non si mescolano, ma coesistono l'uno accanto all'altro diffidando l'uno dell'altro, guardando la propria televisione, tramandando la propria storia».
Storicamente, le «fusioni» di culture hanno preso interi secoli e spesso a seguito di guerre. La politica ha oggi un ruolo da giocare ?
«Il processo oggi è più rapido e la causa principale è pacifica. Essa è demografica ed economica. In Europa, si tratta di colmare il vuoto di manodopera a buon mercato che pagherà le pensioni degli europei. Personalmente, la prima cosa che desidero dai politici è che finiscano di parlare a sproposito di "meticciato", "cultura", eccetera. Un esempio: negli anni '70, la Francia ha permesso che i lavoratori immigrati fossero raggiunti dalle loro famiglie. Si applaudì questo gesto umanitario generoso, ma si trattava anche di permettere che il denaro che queste persone inviavano nel Terzo Mondo e che contribuiva allo sviluppo di quest'ultimo restasse in Francia. Raccomanderei parsimonia di grandi parole!».
Abbiamo dei modelli a cui riferirci per schivare sia il relativismo culturale che il ripiegamento su noi stessi ?
«Se per modelli si intendono situazioni storiche, no. Non ne abbiamo e occorre inventare i nostri modelli. Gli esempi del passato che vengono sempre riproposti, o sono falsi, o sono molto brevi e sono perlopiù finiti male. Nell'Andalusia sotto dominazione musulmana, ebrei e cristiani erano cittadini di secondo rango. Gli Almohade li hanno espulsi nel 1148. Alessandria è stata screziata di greci, italiani, inglesi, con cristiani ed ebrei, ma è oggi quasi puramente araba e islamica. Occorre poi parlare della Bosnia? Il problema, naturalmente, non riguarda solo i Paesi dell'islam. Si pensi alla Boemia alla fine dell'Impero austro-ungarico: i tedeschi vi hanno ucciso gli ebrei, poi i cechi hanno espulso i tedeschi».
Le libertà fondamentali di cui l'Occidente è fiero non sono sempre riconosciute nel mondo musulmano. La vera sfida è sull'altra riva ?
«È un fatto che nessun Paese islamico abbia oggi ciò che noi chiameremmo una democrazia. Difficile dire se ciò è più legato alla cultura o al sottosviluppo. Se vi è un problema legato specificamente all'islam, viene dal fatto che per quest'ultimo il solo legislatore legittimo è Dio. E non Dio che parla alla coscienza, ma Dio che detta un Libro e invia un Profeta i cui comportamenti sono tutti considerati esemplari».
Vari intellettuali arabi deplorano che il Mediterraneo resti chiuso a livello culturale e ricordano, ad esempio, lo scarso numero di traduzioni da e verso l'arabo…
«La cultura mediterranea è un altro bel sogno. La chiusura delle due rive è - ahimé - reale. Gli europei hanno almeno un vantaggio: sanno di non sapere, sono curiosi delle altre civiltà, e in particolare dell'Islam. In francese, esistono una decina di traduzioni del Corano, e non so quanti libri sull'islam. Sarebbe bene che le università dei Paesi musulmani avessero cattedre dove si studiano seriamente le altre civiltà, non solo l'Europa».
È per le nostre debolezze interne che ci sentiamo vulnerabili verso lo straniero ?
«Certo, è unicamente per questo. Ma gli europei non sono i soli ad aver paura. Chi proviene dai Paesi dell'islam e vive in Europa, vi scopre una realtà contrastata; da una parte, prende poco a poco gusto all'atmosfera permissiva dell'Occidente e amerebbe ritrovarla nei Paesi d'origine; dall'altra, tanti scorgono il rovescio della medaglia: disprezzo della vita, vergogna verso il proprio passato, rifiuto di avere un avvenire. E hanno paura di lasciarsi trascinare nel vortice. Tutto ciò offre argomenti a chi rifiuta le idee occidentali».
L'Europa che affronta la globalizzazione, lo fa presentandosi spesso come «post-cristiana». Ci mancano dei riferimenti forti ?
«Il guaio è che oggi i modi in cui ci definiamo, e comprendiamo noi stessi, sono spesso o negativi, come "post-cristiano", o vuoti. "Moderno" è in sé una parola vuota, quando significa "recente"; ma la si impiega soprattutto per negare: "moderno" vuol dire "né antico, né medievale; né pagano, né cristiano". Le ideologie del XX secolo, il leninismo e il nazismo, erano esplicitamente anti-cristiane. È paradossale che il disgusto verso queste ideologie si affianchi oggi a un rigetto del cristianesimo, già considerato da esse come il nemico. Occorre che un riferimento culturale sia "forte"? Forse. Ma occorre, prima di tutto, che esso sia almeno positivo!».
11/09/2005

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La scuola islamica di V.Quaranta, a Milano
Il fatto: a Milano, in V. Quaranta, sorge una scuola islamica. E’ una scuola non ufficiale, non riconosciuta, che però insegna a ben 500 bambini le sure del Corano ed il pensiero di Maometto, tralasciando i programmi ufficiali del Ministero dell’Istruzione. Ora la scuola è stata chiusa, ufficialmente per motivi igenici, ma in realtà perché, molto semplicemente, è illegale. Tant’è che pare vi sia un fascicolo, per ora contro ignoti, presso la Procura della Repubblica di Milano, per la mancata frequentazione dei bambini di una scuola regolare.
La rabbia con cui i genitori di questi bambini hanno affrontato questa chiusura, e le motivazioni che portano, dimostrano la vere intenzioni dei musulmani riguardo all’integrazione nel nostro Paese: siamo noi che dobbiamo adeguarci a loro, non viceversa. E per dimostrarlo cominciano a fare lezione di Corano in strada.
Riportiamo un articolo apparso su La Stampa il 19/9/05, che rende bene l’idea della situazione.

MILANO. Italiane con il velo. Musulmane convertite e madri arrabbiate. Arrabbiate perchè hanno chiuso la scuola islamica di via Quaranta, 500 studenti, il Corano importante quanto la matematica. La scuola, mai riconosciuta, è stata sigillata da una settimana ufficialmente per problemi igienici ma si capisce che è poco più di un pretesto. Questa assemblea in un liceo di Milano dovrebbe essere un’occasione di dialogo. Il provveditore Antonio Zegna propone che tutti gli studenti vengano spalmati nelle varie scuole pubbliche dove già ci sono 19 mila studenti di origini arabe. Per tre ore la settimana, dopo il normale programma didattico, verrebbe insegnata la lingua e la cultura islamica. Ma i genitori della scuola di via Quaranta non si fidano. E più di tutti non si fidano un gruppo di donne italiane, convertite all’Islam da anni, il velo in testa come ogni buona musulmana, decise a rivendicare una cultura acquisita con la conversione e il matrimonio. Mara Pitto che adesso si fa chiamare Sara, tre figli piccoli, è la più arrabbiata: «Voglio che i miei figli studino il Corano come voi studiate la Bibbia e gli ebrei la Torah. Insegnare il Corano non vuol dire allevare terroristi».

Gli uomini con la barba lunga come quella del Profeta applaudono convinti, alla faccia di chi crede che le donne, per di più ex infedeli, siano considerate meno di niente dalla cultura islamica. Sara con il microfono in mano non la ferma nessuno e anche lei minaccia di fare quello che hanno già fatto altri genitori: «Se non riaprite la nostra scuola torniamo al Cairo». Lo dice con enfasi, come se l’Egitto fosse la terra dei padri e soprattutto di queste madri infuriate in difesa di una cultura che è diventata loro, anche se alla fine sulla carta d’identità hanno scritto che sono nate a Sesto San Giovanni o a Saluzzo. Monia Falsetta sposata Salem, Ahmed Salem, egiziano dal ‘90 in Italia, non porta il velo ma le sue idee sono precise: «Sotto casa mia a Cesano Boscone c’è una scuola elementare. Sarei felice di mandare mio figlio se insegnassero l’arabo e il Corano. Non mi interessa che passi tutta la vita all’ombra di via Quaranta. Però voglio che abbia un’impronta, che impari a conoscere la cultura del padre. E’ un problema di tradizione».

E’ un problema e basta per i dirigenti scolastici di Milano, alle prese con questa grana che non sembra avere soluzione. I genitori della scuola di via Quaranta minacciano di accamparsi davanti alla scuola sigillata, a fianco della moschea passata al microscopio da mille inchieste giudiziarie sul fondamentalismo. Le argomentazioni sono decise, a sentire Atef, egiziano, in Italia da 17 anni, perfettamente integrato, titolare di una impresa di pulizie: «Mia figlia che ha 11 anni rischia di sapere tutto del Risorgimento e nulla della nostra Storia. Non voglio che torni in Egitto come una turista. Se non posso farla studiare come vuole la nostra cultura, la rimando al Cairo». Dal palco dove siede il meglio della scuola milanese obiettano che i loro figli sono nati in Italia, che vivranno in Italia, che si formeranno una famiglia in Italia. Argomentazioni che si scontrano con l’ira di questa mamma velata, nata all’ombra della Madonnina anche se crede in Allah: «Inostri figli la conoscono già la vostra cultura. Viviamo qui, camminiamo per le vostre strade e guardiamo la vostra televisione. A noi interessa non perdere la nostra cultura». Dice «nostro» e «vostro» come se ci fosse uno scontro di civiltà, quella cosa che piace a qualche politico integralista come il più radicale tra i fondamentalisti. A scuotere i nervi ci sono poi le coincidenze. A volerci credere. La scuola islamica di via Quaranta è stata chiusa appena tre giorni prima dell’inizio dell’anno scolastico. Contemporaneamente è stato inauguarato il nuovo centro per l’educazione ebraica Merkos, scuola parificata e insediata nella nuova sede concessa in affitto dal Comune di Milano. «Perchè a loro sì e a noi no?», chiede Ahmed, egiziano, un figlio di 4 anni e mezzo che si chiama Sayed e che frequenta l’asilo in via Quaranta. «La risposta ufficiale è che nella scuola ebraica si insegna il programma italiano... Ma non scherziamo che è soprattutto un problema di razzismo...». Di fronte a posizioni così inconciliabili sembra impossibile trovara una mediazione. Il provveditore dice che «è importante che sia iniziato il dialogo. Faremo altri incontri». I genitori dei bambini non arretrano e chiedono di avere un’altra sede per fare scuola ai loro figli. «Nel nome di Allah il misericordioso, lasciate che i nostri figli possano studiare».

Il muro contro muro sembra destinato a non finire mai. Tra i più preoccupati ci sono gli educatori. Come Lidia Acerboni, professoressa d’italiano in pensione, per due anni insegnante alla scuola di via Quaranta: «La partenza delle famiglie è una sconfitta per tutti. Non voglio colpevolizzare nessuno, ma se i genitori manderanno i loro figli in Egitto, vuol dire che abbiamo fallito tutto». Paolo Branca, islamista e docente in Cattolica, uno dei ponti di dialogo con la comunità musulmana di Milano, punta invece l’indice sulla qualità della scuola di via Quaranta: «Non è garantito un insegnamento adeguato...». E racconta di professori improvvisati pagati 600 euro al mese e programmi abborracciati. Qualcuno durante l’assemblea propone di votare. Tutti alzano le mani per rimanere in via Quaranta. «Non è un ghetto solo perchè si insegna il Corano. Nella scuola cattolica si insegna il catechismo, è un ghetto anche quello?». Alla fine il più moderato è l’Imam di viale Jenner e di via Quaranta, Abu Imad: «Ci aspettavamo che le autorità italiane ci aiutassero di più. Sarebbe stato un ottimo esempio di convivenza».
24/9/05



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