Opuscolo “La dignità della donna nell’islam”: istruzioni per l’uso su come gestire le donne
Non siamo in Arabia Saudita, ma in Italia, a Segrate, dove l’imam locale ha pubblicizzato un opuscolo, distribuito presso le moschee di tutta Italia, che spiega il ruolo e i limiti della donna nell’islam. Tratto da www.liberoquotidiano.it del 22/12/2014.
Piccola antologia del pensiero islamico contemporaneo: "La poligamia costituisce una legislazione divina che ogni fedele deve considerare come tale e non contraddire"; "Perché il divorzio spetta all’uomo? Perché la situazione dell’uomo naturalmente e logicamente gli permette di avere l’ultima parola in materia coniugale"; "l’islam vieta alla donna di mettersi in viaggio da sola, senza che sia accompagnata da un parente vicino come il marito, il padre, il fratello o un altro parente con il quale è vietato il matrimonio"; e dulcis in fundo, "si ricorre all’atto di picchiarla, senza violenza, senza provocarle una frattura, o lasciarle traccie (sic!), evitando sempre i danni al viso: lo scopo è di ristabilire la disciplina e non di fare del male o provocare danni, ma di farle capire che la sua insubordinazione è inammissibile".
È con un simile arsenale di cultura, tratto dall’opuscolo “La dignità della donna nell’islam”, che l’imam di Segrate, Alì Abu Shwaima, la settimana scorsa aveva affrontato in tv un dibattito che lo vedeva contrapporsi al capogruppo della Lega Nord al consiglio comunale di Milano, Alessandro Morelli. Poi gli aveva anche fatto gentilmente omaggio della fonte del suo sapere, una copia della pubblicazione, di cui è autore il saudita Abdul-Rahman Al Sheha, edita a Riyadh dalla Lega Mondiale Musulmana.
Ecco la scarsa prova di maturità dell’islam italiano. Da un lato i fedeli di Allah si lamentano perché si sentono accusati ingiustamente di non rispettare i diritti dell’uomo e, soprattutto, della donna. Dall’altro, tutto quel che hanno da offrire al dialogo con l’Occidente è un’ottantina di pagine piuttosto sgrammaticate, importate direttamente da una regione dove le donne sono obbligate a indossare il velo, non possono guidare l’automobile e rimangono segregate a vita nel loro gineceo. L’integrazione ce la propongono come segue: "La donna deve lavorare in compagnia di donne come lei, lontano dalla promiscuità e la presenza maschile per non rischiare di diventare la preda di lupi che possono abusare di lei e calpestare la sua dignità e il suo onore".
Eppure, proprio qui in Italia, opera da anni un servizio di assistenza verso le donne immigrate incatenate in casa, costrette all’isolamento, senza la possibilità di parlare con nessuno, né di telefonare o usare internet. Alcune non possono nemmeno affacciarsi al balcone o, se viene loro concesso, sono costrette a velarsi. Così al numero verde 800 911 753, 24 ore su 24, si rivolgono centinaia di moglie e figlie, alle quali le volontarie rispondono in lingua araba, per comprendere meglio il loro disagio e tentare di salvarle dall’inferno familiare.
Peccato che nel libretto di AlSheha, a tal punto apprezzato nelle moschee nostrane da promuoverne la diffusione anche fra i cosiddetti "infedeli" perché dovrebbe rivelarsi risolutivo per confutare ogni pregiudizio circa la condizione femminile nell’islam, la realtà sia completamente ignorata. Anzi, al suo interno si rivela una prospettiva "incompatibile con la nostra cultura e la nostra Costituzione", commenta Morelli, dopo averne esaminato il contenuto. Da quelle pagine, in realtà, arriva una sfida alla società italiana, che potrebbe vedersi sconfitta "grazie all’ipocrisia e alla connivenza della politica e alla scarsa diffusione della conoscenza della cultura islamica".