Il terrore ha un luogo d’origine: l’Arabia Saudita
Tutto nasce in Arabia, con la saldatura fra la stirpe dei Saud e il wahhabismo. Le tracce del loro «colonialismo» si trovano dietro colpi di stato, instabilità politica africana e persecuzioni contro gli «infedeli». L'analisi di un sacerdote, antropologo, che per nove anni è stato missionario in prima linea in Africa.
tratto da Panorama.it del 10/3/2006.
Parlare dell'uccisione di centinaia di migliaia cristiani da parte di musulmani, soprattutto negli ultimi trent'anni, significa sempre e solo raccontare morti annunciate.Un'opinione, questa, che qualunque lettore può trarre agevolmente dalla pubblicistica internazionale, visto che chi studia l'escalation dell'intolleranza islamica è sempre obbligato dai fatti a mettere in parallelo le esplosioni di violenza con l'espansione del proselitismo wahhabita saudita. Perché un altro fatto certo è che dell'estremismo islamico conosciamo la data e il luogo di nascita. È l'Arabia Saudita di fine anni Cinquanta, quando re Faysal partorì l'idea di creare un sistema per controllare politicamente e religiosamente il mondo islamico.
Il wahhabismo nasce, nel 1744, dall'unione tra Ibn Wahhab, un predicatore islamico fondamentalista, e un emiro, Muhammad Ibn Saud, al quale Wahhab iniziò a fornire una giustificazione teologica per quasi tutto quello che Ibn Saud desiderava ottenere: una jihad permanente che prevedeva il saccheggio delle altre città musulmane, l'imposizione di una severa disciplina e infine l'affermazione del proprio potere sulle tribù vicine, unificando la Penisola Arabica.
L'emiro e il predicatore suggellarono un «mithaq», un accordo che sarebbe stato onorato per l'eternità. Prevedeva il fervore religioso al servizio dell'ambizione politica, ma non viceversa. E i risultati non si fecero attendere: nel 1801 primi a essere presi di mira furono gli «eretici» sciiti, con l'assalto della città santa di Kerbala e lo sgozzamento di 5 mila fedeli. Nel 1802 fu la volta di Taif e relativo massacro della popolazione. Poi venne il turno della Mecca, con la distruzione della tomba del Profeta e dei califfi.
Lo storico arabo Said K. Aburish ricostruisce così l'occupazione saudita delle terre sacre ai musulmani del mondo intero: tra il 1916 e 1928 nella terra di Maometto ebbero luogo non meno di 26 ribellioni contro i Saud. Agli inizi degli anni Trenta, su una popolazione di circa 4 milioni di persone, 1 milione fuggirono, 400 mila furono uccise o ferite in combattimento, 40 mila furono giustiziate pubblicamente, 350 mila patirono amputazioni. Anche oggi tutti i musulmani sanno molto bene cosa significhi il «rakban», la spada che campeggia sulla bandiera degli Ibn Saud. E cosa essa comporti quando inizia a sventolare su una moschea.
Nel 1962 Faysal convocò la Conferenza islamica dalla quale fece nascere la Lega musulmana mondiale, legittimando la Fratellanza musulmana e dando inizio all'esportazione del wahhabismo. Scopi dichiarati: sostenere l'espansionismo wahhabita con il finanziamento di moschee, madrasse, servizi sanitari. E favorire l'applicazione della sharia a individui, gruppi o stati e ad «altre istituzioni».
Sui media occidentali passa in sordina il fatto che i regnanti sauditi, oltre al titolo di «guardiani dei luoghi santi», custodi cioè della Mecca e di Medina, si ritengono anche meritevoli di al-Mufada («colui che merita la devozione»), Mawlana («il detentore dell'autorità divina ultima»), Waly al-Amr («colui che decide tutte le cose»). Anche dopo la vicenda delle vignette danesi, secondo molti studiata a tavolino dagli «esperti» della Lega mondiale musulmana, la genesi del terrorismo islamico continua a essere sepolta sotto una montagna di spiegazioni politico-sociali sempre più destinate, di fronte all'evolversi dei fatti, a trasformarsi in questioni di lana caprina: il problema palestinese, la fine del socialismo arabo, il fallimento del nazionalismo riformatore nasseriano, la corruzione endemica, la crisi del patto tra sistema anglosassone e panarabismo, il rifiuto dell'egemonia occidentale... In realtà, con forse l'unica eccezione dell'Afghanistan dei talebani, i grandi movimenti di massa del fondamentalismo islamico, e i terroristi che per deviazione ne derivano, si sono affermati nei paesi islamici a più alto reddito.
Come è successo a Giava, ricca e, fino ad allora, pacifica regione indonesiana. Nel 1996 viene fondata la wahhabita Laskar jihad, nel novembre 1998 iniziano a bruciare le chiese. Nel dicembre dello stesso anno, e dopo una trentina di giorni delle solite manifestazioni indette nelle moschee finanziate dai sauditi, saranno 500 le chiese date alle fiamme nella sola Giava. A queste vanno aggiunte le 22 chiese bruciate e 13 cristiani uccisi nella capitale Giacarta, il giorno di Natale di quell'anno.
Un Natale di sangue anche per la città di Poso, nella regione di Sulawesi, con 180 case e negozi appartenenti a cristiani distrutti in un solo giorno. Ma a Poso i cristiani non avevano ancora visto il peggio: il giorno di Pasqua 2000, oltre a una gravissima serie di violenze anche su donne e bambini, alle quali la polizia assiste senza intervenire, altre 800 case e negozi di cristiani vanno in fumo. Un mese dopo il 23 maggio 2000, i cristiani sono di nuovo assaliti dalla solita folla islamica e questa volta muoiono 700 persone.
Basta seguire la cronologia delle persecuzioni islamiche anticristiane per scoprire che esse sono avvenute, e continuano ad avvenire, in paesi, anche europei, dove la convivenza tra le fedi non presenterebbe particolari problemi, se non fosse gravata dall'espansionismo wahhabita. Il problema fra Occidente e Islam sembra quindi destinato a coagularsi soprattutto sul come e dove il wahhabismo troverà, magari dentro le ampie maglie delle democrazie avanzate, terreno per porre i segni del suo imperialismo.
Finora sappiamo che, per molti esperti, i segni del wahhabismo si trovano dietro colpi di stato, come quello a danno del Pakistan di Zulficar Alì Bhutto e a vantaggio del fanatico Zia ul Haq e la sua sharia; e anche alle radici dei fragili equilibri di intere nazioni africane.
Dopo il Sudan, primo e tragico banco di prova del modulo wahhabita di alleanza tra spada (il generale Bashir) e l'Islam (il teologo al-Tourabi), è stato il turno di Nigeria, Benin, Camerun, Burkina Faso, Somalia, Eritrea, Kenya. Con la guerra afghana ha saputo organizzare e finanziare un network mobile internazionale che si è visto all'opera in Cecenia, Bosnia e Algeria.
Nelle aree da loro controllate la convivenza tra le fedi è impossibile, la libertà di culto è improponibile, le minoranze sono perseguitate, i diritti elementari di libertà sono negati. Su questo orizzonte certamente pieno di nuvole, avverte Nigrizia, la più antica e più autorevole rivista terzomondista italiana, «ragionando di Islam e di Occidente, vanno evitate due opposte prese di posizione, entrambe comprensibili, ma parziali e quindi fuorvianti. La prima vede nelle innegabili difficoltà una sorta di destino segnato che porterebbe le nostre rispettive civiltà a un rinnovato scontro frontale senza rimedio. La seconda finge di non avvedersi della delicatezza e della complessità dei problemi rifugiandosi in un generico e ingenuo atteggiamento fiducioso e conciliante».
In altre parole, c'è ancora un margine per trattare. Ma bisogna fare presto. Lo scrittore premio Nobel Vidiadhar Naipaul ha scritto: «Bisognerebbe esigere risarcimenti dall'Arabia Saudita. Bisognerebbe ritorcergli l'argomentazione: se una nazione viene attaccata da terroristi islamici, tutti i paesi islamici sono responsabili e devono pagare. Non tocca alle vittime pagare, tocca agli aggressori». Forse è una ricetta un po' dura. Ma almeno è chiara.