Alcune delle "100 DOMANDE SULL'ISLAM" di Samir Khalil Samir, Giorgio Paolucci, Camille Eid

- Spesso si sente dire in Occidente e in certi ambienti musulmani moderati che questi mujahidin non sono veri musulmani, che la loro azione è contraria allo spirito dell’islam, che l’islam significa etimologicamente pace e tolleranza, e così via. È corretta questa precisazione?

Gli occidentali che ripetono queste affermazioni, di solito, dell’islam conoscono ben poco. Accettano volentieri queste tesi provenienti da ambienti musulmani, che in realtà non sono esatte.

Le parole islam e salam derivano effettivamente dalla stessa radice, ma non hanno un contatto diretto. Mi spiego: la radice s-l-m in arabo, come sh-l-m in ebraico e in tutte le lingue semitiche, significa "essere sano", "essere in pace" e c’è un legame semantico tra pace, salvezza, salute, eccetera. Salam, in arabo, significa pace, salama significa salute, islam significa sottomissione. La parola islam deriva dal verbo aslama, che vuol dire "sottomettersi" o "abbandonarsi a"; l’islam è quindi l’atto di abbandonarsi o di sottomettersi, si sottintende a Dio, ma non significa "mettersi in stato di pace", anche se qualcuno può, con motivazioni spirituali, aggiungere questo significato non etimologico.

La violenza è d’altronde chiaramente presente nella vita stessa di Maometto. È qui interessante anche osservare che le prime biografie del fondatore non portano il nome di sira, come saranno chiamate nel terzo secolo dell’egira, (IX secolo dell’era cristiana), bensì quello di kitab al-maghazi, ossia "il Libro delle razzie". È stato lo stesso Maometto a condurre sistematicamente, come capo politico, queste razzie, ad organizzarle e conquistare, una dopo l’altra, le varie tribù arabe. E queste si sono sottomesse a lui e al suo Dio, pagando un tributo che permetteva a Maometto di lanciarsi in nuove conquiste.

Subito dopo la sua morte (632) molte tribù si sono ribellate al suo successore, il califfo Abu Bakr al-Siddiq (632-634), rifiutando di continuare a pagare il tributo cosicché il califfo ha dovuto dichiarare loro guerra. Gli storiografi musulmani chiamano queste guerre Hurub alridda, le guerre degli apostati. Da qui è derivato l’obbligo di uccidere chiunque si tiri indietro, l’apostata che rinnega la sua fede. Bisogna tuttavia aggiungere che i compagni del califfo gli hanno fatto notare che quelle tribù rifiutavano di pagare il tributo senza per questo rigettare l’islam. In realtà le tribù consideravano Maometto più come leader politico che come profeta religioso e non erano disposte, alla sua morte, a riconoscere un altro capo.

La violenza, in definitiva, ha fatto parte dell’islam nascente. In quell’epoca, nessuno trovava nulla di riprovevole nelle azioni belliche di Maometto dato che le guerre erano una componente della cultura beduina dell’Arabia. Ma il problema è che, oggi, i gruppi musulmani più agguerriti continuano ad adottare quel modello. Dicono: «Anche noi dobbiamo portare all’islam i non musulmani come ha fatto il Profeta, con la guerra e la violenza», e fondano queste affermazioni su alcuni versetti del Corano.

- Per ribattere a chi solleva la questione del jihad, i musulmani sostengono che i cristiani hanno fatto di peggio, alludendo alle crociate o all’epoca del colonialismo.

Questo è un dibattito che lascerei agli storici, con la differenza essenziale che i crociati o i cristiani che hanno combattuto la guerra non pretendono di averlo fatto fondandosi sul Vangelo: l’hanno fatto, invece, in nome della difesa della cristianità - o così pensavano - oppure in difesa del loro Stato nazionale o anche di ciò che consideravano propri diritti. Insomma, in quanto uomini appartenenti a una cultura, a una nazione, a una tradizione, e non in nome del Vangelo.

Non dimentichiamo che l’idea delle crociate fu una reazione alle persecuzioni intraprese dal califfo fatimide al-Hakim bi-Amr Allah (996-1021) contro i cristiani d’Egitto e di Siria (che allora comprendeva anche la Terrasanta). Nell’anno 1008 al-Hakim abolì la festività delle Palme. Nel 1009 «ordinò di punire esclusivamente quelli [segretari] che tra di loro erano cristiani, facendone appendere molti per le mani e requisendo ogni loro bene». Nel marzo 1009 «spedì una lettera a Damasco in cui dava disposizione di demolire la chiesa cattolica dedicata alla Madonna, imponente e bella chiesa in verità!, che fu di fatto abbattuta nel mese di rajab di questo stesso anno». La domenica 13 agosto 1009 «fece abbattere la chiesa dedicata a Maria ad al- Qantarah, nel Vecchio Cairo. Dopo averla fatta demolire fino alle fondamenta, ne saccheggiò le suppellettili e le rovine. Nei pressi della chiesa c’erano numerose tombe e sepolcri cristiani. Dopo averli aperti tutti, i negri, gli schiavi e la plebaglia esumarono i cadaveri ivi seppelliti e ne dispersero le ossa, mentre i cani divoravano le carni di coloro che vi erano stati sepolti di recente. Nelle vicinanze della predetta chiesa ce n’era una di proprietà dei giacobiti [cioè dei copti], dedicata a san Cosma. S’impadronirono anche di quella, riducendola ad un ammasso di rovine».

Ma l’episodio più grave che provocò la reazione della cristianità fu la distruzione della Basilica della Risurrezione di Gerusalemme (chiamata in Occidente il Santo Sepolcro), iniziata il 28 settembre 1009. Al-Hakim ordinò «di farvi sparire qualsiasi simbolo [di fede cristiana] e di provvedere a portar via ogni reliquia oggetto di venerazione». «La basilica fu abbattuta fin nelle fondamenta, ad eccezione di ciò che era impossibile distruggere e difficile da asportare. Furono così demoliti il luogo detto Cranio, la chiesa di San Costantino, nonché tutti gli altri edifici compresi nel loro perimetro, mentre le sacre reliquie venivano portate via. Ibn Abi Zahir cercò in ogni modo di rimuovere il Santo Sepolcro e di farne sparire ogni traccia, riuscendo a farne spezzare e asportare gran parte». Si potrebbe continuare così a lungo ricordando distruzioni di chiese ed altre calamità contro i cristiani.

Sebbene, quindi, la prima crociata sia stata lanciata dal Papa, non si può affatto dire che fosse una sollecitazione o una conseguenza del Vangelo. Il Papa rappresentava allora l’autorità e decideva anche delle questioni politiche e militari. E questa è una grande differenza. Lo dimostra anche il fatto che le crociate non erano considerate come guerre di religione, dato che gli stessi storici arabi dell’epoca, e in particolare quelli musulmani, non le hanno mai chiamate "crociate" come viene fatto oggi ad imitazione dell’Occidente. La nuova denominazione araba di al-hurub al-salibiyya, le guerre di coloro che portano la croce, risale solo all’Ottocento, mentre era precedentemente utilizzata quella di hurub al-Faranj, guerre dei Franchi, che sottintende gli occidentali in generale.

Gli storici arabi precisavano talvolta la nazionalità specifica di questi Franchi, parlando di Alemanni, Ungheresi o Amalfitani. Tutti questi gruppi erano quindi visti dagli arabi come nazioni e popoli arrivati in Oriente per invadere la loro terra. Senza dire che durante le crociate troviamo spesso principi musulmani stringere alleanze con duchi franchi per combattere contro altri principi musulmani e duchi franchi, come in ogni tipica guerra di interessi.

Tornando al jihad, non possiamo considerare l’interpretazione "bellica" come una strumentalizzazione dell’islam. Semmai, possiamo dire che essa viene operata solo da alcuni musulmani, senza togliere nulla alla sua autenticità. Autentica, insomma, ma non esclusiva.

- C’è un aspetto particolarmente inquietante del rapporto tra islam e violenza, che i recenti avvenimenti hanno riproposto con drammaticità: è quello dei cosiddetti kamikaze che si rendono protagonisti di attentati terroristici contro i "nemici dell’islam". Il fatto più eclatante è stato l’attacco suicida alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, ma numerosi episodi si sono verificati in questi anni, in particolare in Israele, da parte di persone che si autodefiniscono "martiri dell’islam". È lecito teorizzare il suicidio in nome dell’islam? Ed è corretto, da un punto di vista musulmano, l’appellativo di "martire" per chi si rende protagonista di simili gesti?

Nel Corano si allude una sola volta al suicido, nella sura delle Donne (IV,29): «O voi che credete, non divorate vicendevolmente i vostri beni ma commerciate con mutuo consenso e non uccidete voi stessi. Allah è misericordioso verso di voi». A questo unico riferimento coranico si aggiunge una serie di hadith: ne conosco almeno sette e tutti condannano il suicidio. Uno di questi riferisce che il profeta si è rifiutato di pregare sul corpo di un suicida, in un altro si prescrive che il cadavere di un suicida venga bruciato finché rimanga soltanto cenere, cosa abominevole nella mentalità musulmana. In definitiva il suicidio non trova nessuna giustificazione nella tradizione islamica. Ma il problema si è posto con drammaticità in tempi recenti a seguito dei numerosi episodi che hanno visto in azione terroristi che hanno scelto di morire procurando la morte di altre persone e dichiarando di farlo per una "causa islamica".

È interessante ripercorrere alcuni dei pronunciamenti che si sono susseguiti a proposito di quei fatti e che segnalano l’importanza assunta dal dibattito all’interno del mondo islamico. Lo sheikh Muhammad Tantawi, rettore dell’università di al-Azhar e considerato una delle più alte autorità del mondo sunnita, in una fatwa pronunciata il 2 dicembre del 2001 ha ribadito che il suicidio è da condannare in ogni caso. Ma pochi giorni dopo un altro famoso sheikh egiziano, Yusuf al-Qaradawi, lo ha accusato di formulare considerazioni astratte sottolineando la sua incapacità di applicare le norme classiche a una situazione storica come quella attuale che vede l’islam minacciato in varie parti del mondo. Secondo Qaradawi «nessuno può sostenere che sia illegittimo lottare con ogni mezzo contro l’occupazione (israeliana)», e che «il jihad sulla via di Dio e la difesa della terra, della patria e delle cose sacre è oggi un obbligo per tutti i musulmani più che in qualsiasi altra epoca del passato [...], in Palestina, nel Kashmir e in altre zone calde del mondo».

A questo "diverbio teologico" ha fatto seguito due un autorevole pronunciamento contro la liceità del suicidio da parte del decano della facoltà della sharia dell’università del Kuwait, Mohammed Tabataba'i. A distanza di qualche giorno il capo degli ulema sciiti del Libano, lo sheikh Habib Nabulsi, ha legittimato le gesta dei kamikaze dichiarando testualmente che la fatwa emessa da Tantawi «non ha nessun significato e nessuna legittimità nella giurisprudenza islamica perché non fa riferimento al diritto ma alla politica (cioè alla posizione del governo egiziano, del quale Tantawi sarebbe succube, N.d.R.) e perché i suoi obiettivi sono opposti a quelli della umma», e quindi contrari ai veri interessi dei musulmani.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca il comunicato finale emesso al termine del summit tenutosi a Beirut nel gennaio del 2002 e a cui hanno partecipato oltre 200 ulema sunniti e sciiti provenienti da 35 Paesi: «Le azioni di martirio dei mujahidin sono legittime e trovano fondamento nel Corano e nella tradizione del profeta. Rappresentano anzi il martirio più sublime dato che i mujahidin le compiono con totale coscienza e libera decisione ». Nel documento gli ulema affermano di parlare «a partire dalle loro responsabilità religiose, e in nome di tutti i popoli, riti e Paesi della nazione islamica» per dare indicazioni precise in merito alla causa palestinese. A loro avviso non si deve considerare l’attentato come gesto a sé stante, ma in base allo scopo per il quale viene compiuto, che può essere ricondotto nella categoria del jihad perché si vuole proteggere o liberare un territorio musulmano in pericolo.

Questa visione non si limita peraltro alla legittimazione delle azioni messe in atto dai kamikaze ma investe anche il campo dell’educazione: ho presente, ad esempio, molti libri che circolano nelle scuole della Palestina e nei quali viene insegnato ai giovani l’obbligo del jihad in tutte le sue forme e si legittimano le gesta di coloro che vengono chiamati "martiri dell’islam", spiegando che non vanno considerati come suicidi ma come eroi e che sono destinati al Paradiso perché hanno fatto un vero jihad. Insomma, non si sono comportati in maniera difforme dal Corano, ma si sono sacrificati per la causa islamica. È un altro esempio dell’ambiguità di fondo in cui continua a dibattersi ancor oggi il mondo islamico che non riesce a distinguere la fede dalla politica.

- Una situazione che si può riassumere con questo interrogativo: com’è possibile che la comunità musulmana, quella che il Corano definisce la migliore del mondo, possa trovarsi in condizione di arretratezza rispetto all’Occidente, e quali sono le cause del ritardo culturale, scientifico e tecnologico accumulato?

A questo interrogativo vengono fornite varie risposte.

Quella elaborata dai cosiddetti riformisti musulmani a partire dalla fine dell’Ottocento attribuisce il progresso del mondo occidentale rispetto a quello islamico alla capacità di aver sviluppato simultaneamente la scienza e un sistema democratico. Ma, sostengono i riformisti, questi due aspetti sono tipicamente musulmani: il Corano ha sempre favorito la scienza, c’è persino un detto che afferma: «Cercate la scienza, fosse anche in Cina». Ugualmente, la tradizione musulmana ha sempre avuto ciò che si chiama la shura, cioè il "Consiglio" (la consultazione e il decidere insieme). Dunque, concludono, anche la democrazia è un elemento che appartiene all’islam.

È attraverso queste argomentazioni che i riformisti (ricordo tra gli altri Gamal al-Din al-Afghani, noto in tutto il mondo islamico, l’algerino Ibn Badis, l’egiziano Muiammad Abduh, il siriano Abd al-Rahman al-Kawakibi e l’indiano Muhammad Iqbal) sono riusciti ad assimilare certi aspetti del mondo occidentale, a integrarli nella tradizione e a promuoverne la traduzione in provvedimenti legislativi.

Ad esempio, all’inizio del Novecento alcuni Stati del Medio Oriente si sono ispirati per la stesura delle loro costituzioni al codice napoleonico e alla Costituzione svizzera adattandoli al contesto musulmano. Ed è proprio questa la grandezza del movimento riformista che si sviluppa in quel periodo: la capacità di assimilare la cultura e la civiltà occidentali conciliandole con la tradizione islamica.

Ma gli anni che seguono la prima guerra mondiale rappresentano un punto di rottura di questo processo: cade l’impero ottomano, l’ultima grande dominazione islamica della storia, e il suo territorio viene polverizzato, in parte diviso tra Inghilterra e Francia, in parte ereditato da Stati indipendenti. Nasce nel 1923 una Turchia repubblicana su basi laiche, fatto scandaloso nella concezione classica musulmana, e nel 1924 Mustafa Kemal, il futuro Atatürk, decreta la caduta del califfato, unica autorità riconosciuta da tutta la comunità islamica. In realtà dal punto di vista politico il califfato non aveva più mantenuto un peso reale, ma continuava a rivestire un forte significato simbolico e psicologico, e la sua fine evidenzia la crisi di un sistema e di una visione della realtà.

- E cosa accade in quegli anni, a cavallo tra le due guerre mondiali, a livello della concezione dell’islam rispetto alla modernità?

È come se il processo di rivisitazione avviato all’inizio del secolo arrivasse a compimento ma nel contempo mutasse di segno. Si vuole creare un nuovo mondo islamico, libero da qualunque influsso dell’Occidente, un sistema musulmano sui generis. Rashid Rida (1865- 1935), per esempio, discepolo del grande riformatore egiziano Muhammad Abduh (1849-1905) prima ricordato, raccoglie il messaggio e gli scritti del maestro e negli anni Venti li pubblica in otto grandi volumi sotto forma di un commento al Corano intitolato Tafsir al-Manar (cioè "L’Interpretazione del Faro", dal nome della rivista al-Manar da lui fondata). Nel farlo, però, rivoluziona la prospettiva originaria: cita continuamente le dichiarazioni di Abduh (chiamandolo sempre alustadh al-imam, il maestro-imam), ma le chiosa quasi sempre con un suo commento caratterizzato da una venatura integralista.

Successivamente, nel 1928, uno dei suoi discepoli, Hassan al-Banna (1906-1945), fonda in Egitto il movimento dei Fratelli musulmani (al-Ikhwan al-Muslimun), dal quale discenderanno tutti i movimenti radicali. Egli percorre il territorio egiziano diffondendo l’idea della necessità di realizzare una società basata sul Corano trasformandola in comunità politica. Ridotto in pillole, il suo messaggio potrebbe essere formulato così: non potremo mai battere l’Occidente se cerchiamo di imitarlo, dobbiamo creare un progetto musulmano tornando a un’interpretazione rigorosamente letterale del Corano. La sua visione si riassume in queste frasi: «Il Corano è la nostra sciabola e il martirio è il nostro desiderio. L’islam è fede e culto, religione e Stato, Libro e spada. In quanto religione universale, l’islam è religione confacente a ogni popolo e a ogni epoca della storia umana». Il motto dei Fratelli musulmani, fino ad oggi, è «L’islam è la soluzione».

Il suo principale discepolo è Sayyid Qutb, che opera un salto di qualità, espresso in un commento al Corano intitolato Fi Zilal al-Qur’an, cioè "All’ombra del Corano", e nel suo libro Maalim fi al-tariq, cioè "Pietre miliari": visto che la società nella quale viviamo è violenta e che non si può islamizzarla in maniera pacifica, è lecito ricorrere alla violenza. Il suo soggiorno negli Stati Uniti (novembre 1948-agosto 1950) lo convince ancora di più che solo l’islam autentico può salvare l’umanità dal materialismo e dal paganesimo. È infatti lui a creare il concetto di jahiliyya, l’ignoranza pagana, per definire le società moderne non islamiche. E come Maometto aveva combattuto a suo tempo la jahiliyya pre-islamica, praticando il jihad e ricorrendo alla guerra, così Sayyid Qutb raccomanda di fare oggi nei confronti dei regimi musulmani che hanno "tradito" la causa islamica. Questo spiega perché i governi dei Paesi musulmani hanno cercato di eliminare i capi del movimento ritenendoli sovversivi rispetto all’ordine costituito. Egli completa la visione di Hassan al-Banna aggiungendo: «L’islam è chiamato per necessità al combattimento se vuole assumere il comando e la guida del genere umano. Essere musulmano significa essere un guerriero, una comunità di credenti perennemente in armi. I combattenti che cadono in battaglia sono martiri della fede perché hanno messo in pratica la Legge di Dio. Il combattimento per Dio non ha altro scopo che Dio stesso, imporre l’ordine divino nel mondo terreno. Perciò i martiri della fede non muoiono veramente, continuano a vivere, cambiano solo forma di vita, come Gesù figlio di Maria, che non è morto definitivamente sulla croce».

- Negli anni Ottanta c’è stata la stagione del khomeinismo e della rivoluzione iraniana, che sembrava aver realizzato le speranze dei radicali per un ritorno a un islam ritenuto più autentico.

La rivoluzione in Iran con la conquista, nel 1979, del potere da parte di Khomeini rappresenta in effetti per le tendenze fondamentaliste islamiche la possibilità di trasformare in realtà politica il sogno di arrivare ad una società fondata su basi autenticamente musulmane. Anche coloro che non erano d’accordo sulla reale applicazione del sogno khomeinista seguitano ancora oggi a credere in quel sogno. Ed è questa convinzione che continua ad alimentare oggi il fondamentalismo islamico.

Esso ha ormai uno sviluppo internazionale, ma ha assunto connotazioni molto diverse. La corrente moderata, ad esempio, sostiene che si debba mettere il Corano alla base della società musulmana, ma in versione moderna, senza rigorismi.

Un’altra tendenza propone di considerare la sharia (cioè la legge islamica elaborata nel decimo secolo dai grandi giuristi musulmani) come base della Costituzione e della legge.

Una terza corrente, che rappresenta l’islam più radicale, si spinge oltre, sostenendo che la legge coranica va imposta comunque, anche facendo ricorso alla violenza. A tale scopo vengono addestrati militanti in vari Paesi che contribuiscono poi a diffondere queste teorie rivoluzionarie. A questa terza tendenza appartengono anche le formazioni che teorizzano e praticano il terrorismo, come il Gia algerino, responsabile di attentati e massacri di civili, e il gruppo di Abu Sayyaf, che agisce nel sud delle Filippine (Mindanao). In Egitto questa tendenza è rappresentata dal gruppo Tanzim al-Jihad, responsabile tra l’altro dell’assassinio del presidente Sadat il 6 ottobre 1981, e da al-Takfir wa-l-higra, Anatema e Migrazione, fondato dal chirurgo egiziano Ayman al-Zawahiri divenuto successivamente uno stretto collaboratore di Bin Ladin e della sua organizzazione al-Qaida.

I fondamentalisti non rigettano la modernità, come qualcuno erroneamente ritiene, anzi sono pronti ad usare tutte le tecniche più moderne per diffondere le loro idee, ma non ne possiedono le categorie culturali. È come se usassero i frutti di una pianta senza capire come si deve seminare: rifiutano di percorrere il faticoso cammino che ha condotto a certi risultati, il che implicherebbe anche un cambiamento di mentalità, un diverso approccio al mondo, un uso della ragione e delle metodologie moderne di analisi della realtà che non può essere dedotto dal Corano e dalla sharia, e continuano sostanzialmente a mantenere la sovrapposizione tra religione, società e politica.

Dietro la parola "modernità" i radicali leggono secolarizzazione, ateismo, immoralità, paganesimo, Occidente nemico, eccetera. Dunque, aderire alla modernità significa per loro mettere a rischio o perdere l’identità musulmana. Il problema, in conclusione, resta sempre il solito: come mantenere la propria identità accettando il mondo moderno e agendo in esso con senso critico, dunque come armonizzare islam e modernità.

- Se un Paese è interamente musulmano, ritiene legittima l'applicazione della legge coranica?

Penso che nessuna legge religiosa possa diventare una legge civile. Sarebbe come se una società interamente cristiana venisse governata dal diritto canonico della Chiesa.

Sebbene la popolazione di molti Paesi interamente musulmani appartenga alla fede islamica per nascita, cultura e tradizione, ognuno dovrebbe avere la possibilità di aderire liberamente all'islam, senza alcuna costrizione sociale o giuridica. La differenza tra un Paese come l'Italia e un Paese islamico al cento per cento sta proprio qui: in Italia, se il cittadino non è d'accordo con una certa legge, ha la possibilità di lottare per cambiarla, di creare a questo scopo anche un movimento politico. Invece, in un Paese che innalza la sharia a Costituzione dello Stato, come l'Arabia Saudita o com'era l'Afghanistan dei taleban, vengono imposte leggi inique, come quelle relative alle donne, in nome di una presunta legge prestabilita da Dio quattordici secoli fa. Questa è una forma di violenza anzitutto nei confronti di cittadini che, pur essendo musulmani, la pensano diversamente.

La prima vittima di questo sistema è la libertà di pensiero: in molti Paesi, a capo degli organismi preposti al controllo delle pubblicazioni, sono stati nominati esponenti dell'islam integralista che intimidiscono gli scrittori non graditi e bandiscono i libri e le riviste ritenuti nocivi alla fede. Nel solo 1997, ad esempio, l'apposito comitato dell'università di al-Azhar al Cairo ha decretato il ritiro dalla circolazione di 196 libri. Spesso si tratta di autori che tentano di rivisitare la tradizione islamica per conferirle una maggiore concretezza storica. Personalmente ho sperimentato questa censura di al-Azhar per tre miei articoli riguardanti edizioni critiche di testi arabi medievali che sarebbero dovuti apparire su riviste cristiane in Egitto.

- Quali sono le caratteristiche di fondo della sharia

La sharia è fondata su una triplice disuguaglianza: tra uomo e donna, tra musulmano e non musulmano e tra libero e schiavo. Fatta eccezione per quest'ultima, che non ha quasi più riscontro nella realtà, le altre due sono tuttora valide.

Esse trovano fondamento nella storia e nella cultura araba. In una società patriarcale come quella del settimo secolo, la superiorità dell'uomo era un elemento indiscusso. Peraltro, da parte musulmana, si fa notare che i diritti concessi alla donna nell'islam superano di gran lunga quelli che vigevano in epoca pre-islamica: la poligamia viene ammessa ma limitata a un massimo di quattro mogli, viene prevista almeno una parte dell'eredità per la donna e così via.

Riguardo, invece, la disuguaglianza tra musulmani e non musulmani, l'islam ritiene i primi superiori dal punto di vista ontologico e giuridico, anche nei confronti di coloro che chiama dhimmi, ossia protetti, un termine che si riferisce a ebrei e cristiani. La tolleranza garantita a questi ultimi non implica affatto l'uguaglianza con i musulmani. Invece, politeisti e atei non godono di nessuna protezione. Anzi, tra il mondo islamico e quello della "miscredenza" (chiamato dar al-harb, la Casa della guerra) esiste in teoria uno stato di perpetua belligeranza.

Per quanto riguarda la tutela dei dhimmi, la sharia si fonda quindi sulle prescrizioni previste dal Corano, nonché sui patti stipulati dai musulmani con le popolazioni assoggettate nel corso della conquista del Medio Oriente cristiano, a cominciare dal patto stipulato da Maometto con i giacobiti di Najran nel 631 (anno 10 dell'egira), che prevedeva il pagamento da parte di questi cristiani yemeniti del tributo in cambio del mantenimento del proprio culto.

- Quale rapporto intercorre tra legge civile e legge religiosa, tra Stato e religione, sia sul piano dei principi sia nelle applicazioni pratiche?

L'islam si presenta fin dalle origini come un progetto globale che include tutti gli aspetti della vita. Si dice in arabo che esso è din wa dunya, cioè religione e società, oppure din wa dunya wa dawla, religione, società e Stato.

Include un modo di vivere, di comportarsi, di concepire il matrimonio, la famiglia, l'educazione dei figli, perfino l'alimentazione. In questo sistema di vita è compreso anche l'aspetto politico: come organizzare lo Stato, come agire con gli altri popoli, come rapportarsi in questioni di guerra e di pace, come relazionarsi agli stranieri, eccetera.

Tutti questi aspetti sono stati codificati a partire dal Corano e dalla sunna e sono rimasti "congelati" nei secoli, sostanzialmente impermeabili agli eventi della storia e all'impatto con altre realtà socio-culturali. Può l'islam concepirsi diversamente? Diventerà mai possibile distinguere la religione dalla cultura, dalla società, dalla politica? Questa è la sfida più radicale con cui i musulmani si stanno confrontando anche nella nostra epoca, ma quello che è accaduto finora induce a un certo scetticismo sulla capacità di "ripensarsi", di accettare un confronto aperto con la storia.

Ho girato più volte questi interrogativi a varie personalità musulmane, anche in Paesi laicizzati come la Tunisia, e hanno tutti risposto più o meno allo stesso modo: «Si possono separare molte cose, ma il principio che l'islam sia din wa dunya wa dawla, religione, società e Stato, questo non si tocca». Ed è un problema reale, sebbene io creda che, prima o poi, l'islam dovrà arrivare a dei compromessi perché un numero sempre maggiore di musulmani non accetta più questo modo di pensare. Il disagio si percepisce e si esprime un po' ovunque, in particolare attraverso movimenti di dissenso a livello dei ceti colti e, come abbiamo visto, degli intellettuali.

Un'osservazione finale: se la legge religiosa determina la legge civile e gestisce la vita privata e sociale di chiunque vive in un contesto musulmano, e se questa prospettiva è destinata a rimanere immutata come è accaduto finora, la convivenza con chi non appartiene alla comunità islamica non può che risultare difficile. In un Paese islamico il non musulmano dovrà, infatti, sottomettersi al sistema musulmano, o vivere in una situazione di sostanziale intolleranza. D'altra parte, in Occidente o nei Paesi non islamici, il musulmano avrà difficoltà ad adattarsi alle leggi civili di questi Paesi, ritenendole qualcosa di estraneo alla sua formazione e ai dettami della sua religione.

Naturalmente a livello pratico si trovano mille aggiustamenti e, come è nella natura di ogni uomo, si cerca di conciliare la dottrina con le necessità dettate dalla realtà. Ma è doveroso sottolineare che, finché perdura questa rigidità a livello della concezione, finché si ritiene intoccabile il già ricordato principio in base al quale l'islam è religione, società e Stato, tutto diventa più difficile.

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