Christine
Johnson
IL
VERO SIGNIFICATO
DEL
TEST DELL’AIDS
Quanto
è attendibile un HIV-test positivo?
Nota
dell’editore (Andromeda)
L’argomento del presente lavoro è lo
studio effettuato dai dott. Eleni Papadopulos-Eleopulos, Valendar F. Turner e
John M.Papadimitriou intitolato “Is a positive Western Blot proof of HIV
infection?” - apparso su Biotechnology nel giugno 1993 - che pubblichiamo
integralmente in lingua originale in Appendice.
Sono sorte delle controversie sulle
possibili interpretazioni di questo studio. Noi pubblichiamo quella di Christine
Johnson (ricercatrice e membro del Mensa) la quale ha passato molte ore
comunicando via posta elettronica col Dr.Turner (uno degli autori del lavoro),
proprio per assicurarsi della correttezza della propria interpretazione.
La versione originale di questo lavoro di
Christine Johnson è stata pubblicata sul n. 1 del maggio 1994 del “Journal
of International Health Research”, col titolo “Understanding the HIV
antibody test”. La suddetta rivista è pubblicata dal “People International
Health Project”, 8033 Sunset Boulevard # 2640, Los Angeles, California - USA.
Riprodotto
per gentile concessione dell’editore americano .
“E’
stata l’esperienza più terrificante della mia vita. Andai completamente fuori
di testa.”
“Quando
lo seppe, salì sul tetto dell’ospedale e si buttò giù.”
“Su
di me, l’impatto emozionale fu immenso. Non riuscivo a controllare la
paura.”
Queste
persone stanno forse parlando di una diagnosi di AIDS? No, queste sono le
reazioni di persone sane senza sintomi il cui HIV-test è risultato positivo.
Gli effetti di un test positivo sono così devastanti che nessuno dovrebbe
sopportare questo imponente “fardello” se non si è assolutamente sicuri che
il test sia una misurazione reale e significativa della presenza dell’HIV
nell’organismo. Questa affermazione introduce ed indica lo scopo di una
pubblicazione che possiamo definire rivoluzionaria: “Is a positive Western
Blot proof of HIV infection?” (Un Western Blot positivo è una prova
dell’infezione da HIV?), pubblicato sulla rivista BIOTECHNOLOGY JOURNAL nel
giugno 1993.
Gli
autori, gli australiani Dott. Eleni Papadopulos-Eleopulos, Turner e
Papadimitriou, dimostrano che benché ci sia stato detto che possiamo fidarci
dell’accuratezza di questi “test dell’AIDS”, in realtà è meglio non
fidarsi. Essi discutono i test e come questi vennero accettati come prova
virtualmente incontestata che una persona sia stata infettata dall’HIV. Essi
inoltre criticano questi test su diverse basi: i test non sono specifici, non
c’è un modo standard di interpretarli, ed i risultati non sono riproducibili.
Perché un test anticorpale sia scientificamente valido, esso deve soddisfare
questi tre criteri.
Tanto
per cominciare, cosa significa “specificità”? La specificità è il numero
di risultati negativi che il test ottiene in persone che sicuramente non hanno
la malattia in questione. Un test che abbia una specificità del 100% risulta
sempre negativo quando la malattia è assente. Non ci sono “falsi positivi”.
Come si determina se la malattia (in questo caso l’infezione da HIV) è
presente o no?
I
test per gli anticorpi anti-HIV sono basati sull’idea che se sono presenti gli
anticorpi relativi ad un virus, una proteina del virus, e quindi il virus
stesso, sono per forza presenti. Così per vedere se il test sta facendo
esattamente il suo lavoro, è necessario avere un metodo indipendente per poter
verificare la presenza di un virus in una persona sieropositiva (cioè che
presenta gli anticorpi per quel virus) e l’assenza del virus in una persona
sieronegativa (che non presenta cioè gli anticorpi). Questo metodo indipendente
è chiamato “gold standard” o “standard aureo”.
L’unico
standard aureo adeguato sarebbe l’isolamento del virus stesso. Poiché i virus
hanno bisogno delle cellule viventi dell’ospite per potersi riprodurre, essi
vengono coltivati in colture di cellule. L’isolamento dell’HIV presuppone
che il virus sia estratto da una coltura e sia separato da qualsiasi altra cosa
presente nella coltura stessa, in modo che rimanga solo il virus puro.
Diciamo
che 100 persone siano risultate prive del virus mediante l’isolamento virale.
Tutte queste persone vengono sottoposte ad un test per l’HIV e di questi 90
risultano negativi e 10 positivi (falsi positivi). Questo dà al test una
specificità del 90% (che non è un granché). Se il test fosse specifico al
100%, esso non risulterebbe mai positivo in una persona (sia che abbia sintomi o
meno) che non è stata infettata dall’HIV, come determinato dall’isolamento
del virus.
Benché
vengano fatte molte affermazioni che il test per gli anticorpi anti-HIV sia
assai specifico, Eleopulos e colleghi sostengono che non sia così. Un test che
non sia specifico, risulterà positivo anche in presenza di anticorpi diversi da
quelli che dovrebbe rivelare. Chiaramente, se un test per l’HIV non è
specifico, un risultato positivo è per lo meno ambiguo.
Ricordiamo
per un momento la definizione di anticorpo e quella di antigene, poiché ne
parleremo lungo tutto questo lavoro. Gli anticorpi sono i “fanti” del nostro
corpo nella guerra contro invasori esterni quali batteri e virus. Il sistema
immunitario produrrà un tipo di anticorpi che avrà una attrazione biochimica
unica e specifica per le proteine di quel particolare virus “invasore”.
Quando gli anticorpi “vedono passare” una particella virale, essi la
attaccano rendendola inoffensiva. Se c’è bisogno, il sistema immunitario
produrrà molte migliaia di anticorpi differenti, ognuno dei quali attaccherà
uno specifico antigene.
Gli
antigeni sono sostanze estranee all’organismo che potrebbero farci ammalare o
perfino ucciderci se il nostro sistema immunitario non le neutralizzasse con gli
anticorpi. Gli antigeni includono virus, batteri, tossine, o tessuti di altre
persone (come lo sperma che potrebbe entrare in circolo durante un rapporto
anale). Gli anticorpi si combinano coi loro antigeni come una chiave nella
serratura e questa azione risulta in una neutralizzazione dell’antigene
cosicché questo non possa più nuocerci.
Questi
principi vengono usati nei test per la ricerca degli anticorpi anti-HIV, che
funzionano più o meno in questo modo: nel test ELISA, una mistura di proteine,
che si ritiene provenga solo dall’HIV, viene messa a contatto con un campione
di sangue in modo che ogni anticorpo eventualmente presente nel sangue che sia
in grado di legarsi con queste proteine, abbia la possibilità di farlo. Se
tutte le proteine della mistura provengono realmente dall’HIV, e se tutti gli
anticorpi riconoscono soltanto le proteine dell’HIV, un risultato positivo in
questo test significherà che, in un qualche momento nel passato, la persona è
stata esposta al virus. Ma, come la Eleopulos ed i suoi colleghi dimostrano nel
loro articolo rigorosamente argomentato ed ampiamente referenziato, queste due
condizioni essenziali non vengono soddisfatte in nessuno dei due test
anticorpali (ELISA o Western Blot) attualmente in uso!
Quindi
abbiamo già due grossi problemi: 1) non tutte le proteine della mistura
derivano sicuramente dall’HIV; 2) non tutti gli “anticorpi-HIV”
riconoscono sicuramente solo l’HIV. In realtà Eleopulos e colleghi
sottolineano che in realtà non c’è alcuna prova che addirittura nessuna
delle supposte proteine dell’HIV provenga proprio dall’HIV!
La
ragione è che l’isolamento del virus ha presentato numerose difficoltà
insormontabili (che discuteremo più avanti). La posizione degli autori è che
l’HIV non è mai stato isolato e quindi nessuno può essere sicuro che le
proteine in questione derivino effettivamente dall’HIV. Ne deriva che se non
possiamo essere sicuri che le proteine del test derivino dall’HIV, non
possiamo neppure essere sicuri che gli anticorpi che reagiscono con queste
proteine siano anticorpi anti-HIV. Ci sono molti casi documentati di reattività-crociata
degli anticorpi, nei quali anticorpi di altre malattie o condizioni causano un
risultato falso-positivo. L’unico modo per saperlo con certezza è applicare
uno standard aureo.
Nel
test Western Blot (WB), le presunte proteine dell’HIV vengono presentate
separatamente anziché in una mistura e, dopo essere state messe a reagire con
un campione di sangue, ogni proteina è in grado di dare un segnale visibile del
fatto che ha legato un anticorpo. (v. Fig. 1 per una illustrazione di come
appare un risultato di WB)
FIGURA
1
Rappresentazione schematica di risultati del WB:
(A) Risultato positivo (reazione a tutti gli antigeni)
(B) Risultato negativo.
Così,
mentre l’ELISA può solo determinare che un campione di sangue contiene alcuni
anticorpi che sembrano essere stati provocati dall’HIV, un Western Blot,
almeno in teoria, può determinare a quali particolari proteine del virus si
sono legati gli anticorpi.
Poiché
il test ELISA è noto per essere tutt’altro che perfettamente specifico, il
Western Blot, che è ritenuto altamente specifico, viene generalmente usato per
“confermare” la diagnosi.
Infatti
è dato un così grande valore al Western Blot che un suo risultato positivo è
quasi sempre preso come equivalente di una infezione attiva da HIV. Ma in realtà,
quanto è effettivamente accurato questo test “definitivo”?
La
Figura 2 inizia con una tabella che mostra quali proteine devono essere presenti
perché un Western Blot sia giudicato positivo, secondo cinque differenti
autorità. Voi potreste mescolarle e pescare a caso. Prendetene almeno uno da
ogni categoria richiesta ed il vostro test sarà interpretato come positivo.
La
figura 2 mostra anche come viene letto il test Western Blot. Ogni proteina
dell’HIV che ha “trovato” un anticorpo si rende visibile sulla striscia
nella sua specifica area, chiamata banda. Ci sono parecchie bande che si suppone
rappresentino specifiche proteine virali. Le più importanti di queste sono
gp120/160, p41, p31-32, e p24. In realtà, queste proteine potrebbero non
rappresentare affatto le proteine dell’HIV!
Diamo
un’occhiata ad ognuna di queste proteine principali, e vediamo se la loro
presenza in una striscia di Western Blot sia effettivamente indicativa della
presenza dell’HIV:
p41:
Già all’inizio, il Dr.Montagnier, lo scopritore dell’HIV, trovò che il
sangue dei pazienti affetti da AIDS reagiva con una proteina p41 che era stata
trovata sia nelle cellule infettate dall’HIV che in quelle non infettate. Si
concluse che la banda p41 era il risultato della contaminazione del virus da
parte di una proteina chiamata actina, che è una normale componente di tutte le
cellule, come pure di altri microbi oltre all’HIV. In altre parole, molte
altre cose, oltre all’HIV, possono provocare una reazione positiva della banda
p41.
gp120
e gp160: il gp120 viene riscontrato sulle “spine” presenti sulla superficie
delle particelle immature dell’HIV, ed il gp160 si ritrova solo nelle cellule
infette, ma nessuno dei due è presente nelle particelle virali libere e mature.
Comunque il sangue dei pazienti affetti da AIDS reagisce con “l’HIV
purificato” del test dell’AIDS, ed appaiono le bande gp120 e gp160. Questa
è una contraddizione. Poiché nel virus maturo non si trovano né gp120 e né
gp160, non ce ne dovrebbero essere neppure nell’antigene preparato per il
test. Quindi, da dove vengono queste due bande?
Se
il gp160 viene a sua volta separato, otterremo gp120 e p41. Si pensa, allora,
che le bande gp120 e gp160 in realtà non rappresentino le proteine gp120 e
gp160, ma piuttosto rappresentano ciò che i chimici definiscono oligomeri del
p41. Un oligomero è un numero intero di subunità di qualcos’altro. Se
mettete insieme quattro unità di p41, ottenete un gp160; tre di queste subunità
danno un gp120 (4x40=160; 3x40=120). Quindi il gp120 e il gp160 non sono affatto
proteine diverse; esse sono semplicemente delle differenti “confezioni” di
p41, tenute insieme da ponti chimici. E se, come abbiamo discusso più sopra, il
p41 è semplicemente un contaminante di materiale cellulare, questo annulla a
sua volta anche l’importanza del gp120 e del gp160.
p31-32:
Le proteine sono composte da aminoacidi. Nel 1987 L.E.Henderson (1) effettuò
uno studio in cui confrontava le sequenze aminoacidiche dell’ HIV
“purificato” con quelle di una normale proteina trovata nel sistema
immunitario umano e chiamata “Class II histocompatibility DR protein” e
scoprì che le proteine DR sono identiche alle proteine p31-32 dell’HIV.
Bye-bye p31-32!
p24:
Il riscontro della p24 è considerato sinonimo della effettiva presenza
dell’HIV. Comunque il Dr.Robert Gallo (co-scopritore dell’HIV), ha
ripetutamente affermato che la p24 non è esclusiva dell’HIV, ma che un altro
retrovirus (HTLV-1, che non causa malattie) contiene p24, e questo crea una
reazione crociata al test per gli anticorpi. Il test può dire che avete
anticorpi contro l’HIV, mentre in realtà potrebbe essere l’HTLV-1.
In
realtà, la p24 è stata trovata nell’HTLV-1, HTLV-2, HIV-2, ed in tutti i
retrovirus endogeni. Il gene specifico che contiene l’informazione per
produrre p24 (chiamato gene gag) si trova in tutti i retrovirus. Non
sorprende quindi che la p24 sia riscontrata spesso in assenza di HIV.
Se
una banda p24 appare da sola in un WB Test, il test verrà definito
“indeterminato”. Questo significa che il test non mostra abbastanza bande
per essere sicuri di qualcosa, ma generalmente un test indeterminato non è
motivo di allarme. La p24 è la banda predominante nel causare un WB Test
indeterminato. Il risultato indeterminato è molto comune e non è correlato con
la presenza dell’HIV. Viene fatto riferimento ad un gruppo di pazienti che
ricevettero sangue testato col Western Blot e risultato negativo; entro sei
mesi, il 42% di questi pazienti sviluppò un test indeterminato.
La
Eleopulos ed i suoi colleghi forniscono una lista di condizioni in cui i
pazienti hanno anticorpi p24 senza HIV: Sclerosi multipla, verruche
generalizzate, linfoma cutaneo a cellule T, e persino una persona sana su 150.
Negli studi citati, l’antigene p24 fu trovato solo nel 25-50% dei pazienti
HIV+ o affetti da AIDS. Se ne concluse che il test dell’antigene p24 è
“impreciso” e “dovrebbe essere interpretato con cautela”. Sembra quindi
che non ci possiamo più fidare neppure del p24.
A
dispetto di tutte le prove contrarie, le bande gp120, gp160 e p41 vengono
considerate come rappresentative di distinte proteine virali.
In
conclusione la Eleopulos sostiene che “alla luce di quanto esposto, è
difficile sostenere la tesi che le bande p41 (e quindi gp120 e gp160), p32 o p24
rappresentino specifiche proteine dell’HIV.” Inoltre, ella pensa che anche
se queste proteine si dimostrassero specifiche dell’HIV, noi non potremmo
comunque dedurne che gli anticorpi che reagiscono con esse siano diagnostici di
una infezione da HIV (discuteremo più oltre le reazioni crociate).
Come
potete vedere dalla tabella nella Figura 2, le differenti agenzie considerano
positivo un WB Test quando almeno due o tre bande sono presenti, e voi potete
sceglierle fra le proteine dell’HIV appena presentate. Comunque, poiché la
banda p31-32 rappresenta una proteina cellulare, e le gp120 e gp160 sono solo
differenti forme della p41, tutto ciò che vi resta fra cui scegliere sono la
p24 e la p41, che però potrebbero anche non
rappresentare affatto una proteine dell’HIV.
Riassumendo,
il Western Blot è basato sull’individuazione di cinque principali bande di
proteine: p24, p32, p41, gp120 e gp160. Sono stati forniti dati che consentono
di dubitare dell’autenticità di ognuna di queste proteine come sempre
rappresentativa delle proteine dell’HIV.
E
come se questo non fosse già abbastanza, l’articolo australiano esprime la
preoccupazione che non ci sia un modo standard di interpretare il Western Blot.
Ci sono varie configurazioni di bande. Cosa significano? Poiché un test
anticorpale significhi qualcosa, esso deve essere standardizzato. Come afferma
la Eleopulos: “il risultato del test deve avere lo stesso significato in tutti
i pazienti, in tutti i laboratori ed in tutti i paesi.” In realtà, il
campione di sangue di un paziente affetto da AIDS:
*
può non reagire con tutte le proteine dell’HIV
*
può reagire con proteine non appartenenti all’HIV
*
può dare risultati differenti su differenti campioni di sangue ottenuti dallo
stesso paziente in momenti diversi
Per
questo le varie agenzie hanno stabilito i criteri indicati sulla Figura 2. A
seconda di quali di questi criteri voi usate, lo stesso gruppo di pazienti
affetti da AIDS otterrà un tasso di positività che varia dal 50% al 79%. La
Eleopulos sostiene che “nella letteratura scientifica non sono mai state
pubblicate strisce di uno standard di positività del Western Blot.” Inoltre,
la serie di bande ottenute potrà variare con la temperatura e con la
concentrazione dei reagenti chimici usati nel test.
Come
Zolla-Pazner et al. riconoscono, c’è “confusione sull’identificazione di
queste bande” che è “risultata in conclusioni non corrette...”(2). Voi
potete sempre sperare che non sia il vostro test che ha dato una di
queste “conclusioni non corrette”!
Infine,
un test deve essere riproducibile per poter essere valido. Usando un singolo
campione di sangue, le bande dovrebbero essere le stesse (o assai simili) su
test ripetuti diverse volte, o su test effettuati da laboratori differenti. Il
CRSS fece uno studio nel quale due campioni positivi e due campioni negativi
vennero inviati a 19 laboratori perché effettuassero un WB Test. Lo stesso
siero fu testato diverse volte in ogni laboratorio, e le bande che ne
risultarono mostrarono variazioni quasi estreme sia da un laboratorio
all’altro, che da un test all’altro nello stesso laboratorio.
Va
notato che i laboratori considerati erano “Reference Labs” (Laboratori di
Riferimento), cioè quelli che vengono definiti laboratori di prima qualità.
La
Eleopulos fa notare che questi laboratori “top” costituiscono solo una
piccola parte dell’insieme dei
laboratori che effettuano questo test, e poiché la maggior parte degli altri
laboratori non è altrettanto qualificata, presumibilmente ci saranno un maggior
numero di errori, e quindi di falsi positivi.
Il
fenomeno dei falsi positivi è il più grosso problema di questi test basati
sugli anticorpi. Un gran numero di test effettuati in Russia col metodo Elisa
diede 280 falsi positivi per ogni vero positivo (un rapporto quindi di 280 a
1!). Nonostante le molte prove del contrario, c’è un “consenso generale che
la specificità dei test anticorpali per l’HIV sia stata definitivamente
provata” (3).
La
credenza che i test anticorpali siano specifici al 98%-100% è basata sui lavori
di Gallo, Burke e dei loro colleghi. Come standard aureo, Gallo usò la sindrome
clinica. Ma tutte le malattie indicatrici di AIDS esistono da secoli, quindi la
loro presenza non è una prova che l’HIV sia presente nell’organismo.
Inoltre, Gallo andava dicendo che finché un paziente aveva dei sintomi che
somigliavano all’AIDS, un test positivo doveva essere corretto. Il fatto che
una persona abbia la sindrome chiamata AIDS non ha nessuna influenza
sull’accuratezza del test per gli anticorpi anti-HIV.
Burke
testò un gruppo a basso rischio di reclute e trovò 15 positivi su un totale di
135.187 persone. Ricontrollando ognuno di questi positivi con altri quattro
differenti test anticorpali, trovò che 14 erano ancora positivi, mentre 1 era
negativo su tutti e quattro i test. Egli calcolò allora che i falsi positivi
fossero 1 su 135.187, cioè lo 0,0007%.
Il
gruppo della Eleopulos critica la metodologia di Burke per determinare il tasso
di falsi positivi. Per definizione, un vero positivo è un test risultato
positivo in una persona che è infettata dall’HIV, come verificato da un test
indipendente (lo standard aureo); un falso positivo è un test risultato
positivo in una persona in cui l’applicazione dello standard aureo ha escluso
la presenza dell’HIV. I quattro test anticorpali che Burke utilizzò per
confermare i risultati del suo WB non forniscono una prova indipendente della
presenza o dell’assenza dell’infezione da HIV. Questi quattro test, come
l’originale WB, cercano tutti gli stessi anticorpi, cioè sono essenzialmente
lo stesso test. Un test non può fungere da standard aureo per sé stesso.
Quindi,
poiché Burke non utilizzò uno standard aureo, era impossibile per lui misurare
il tasso di falsi positivi per il suo WB Test.
Gli
autori non stimano la reale incidenza dei falsi positivi, ma altri l’hanno
considerata attorno al 90%, e potrebbe essere ancora più alta (11).
Un
altro problema sembra essere il fatto che se voi ripetete varie volte il test a
persone risultate inizialmente positive, un buon numero di queste finirà per
risultare negativo. Se effettuate due Elisa e poi due WB in successione, molte
di queste persone risulteranno negative ad ogni test successivo, cosicché
quando arriverete al quarto test, solo pochi saranno ancora positivi. Se a
questo gruppo di persone fossero stati effettuati solo uno o due test, essi
sarebbero considerati infettati dall’HIV, mentre in realtà la maggior parte
di loro non lo è.
Questo
è un grosso difetto dei test anticorpali. Il test ufficiale di screening è
l’Elisa, che ha un tasso di falsi positivi astronomico, e la definizione
corrente di AIDS del CDC accetta un singolo Elisa positivo senza conferma. In
altre parole, un singolo Elisa positivo (più una malattia indicatrice di AIDS)
vi fa meritare una diagnosi ufficiale di AIDS.
In
pratica un Elisa positivo può o meno essere confermato da un Western Blot e in
ogni caso, come abbiamo appena visto, un singolo test, o anche parecchi test in
successione, possono essere tutti falsi positivi, e una persona può avere un
risultato negativo al terzo, quarto, quinto test, e così via. Quindi un
semplice test di screening o anche un test di screening più un test di conferma
(Elisa + WB), spesso possono dare un quadro non esatto della reale situazione.
Né
Burke et al. (4) né Gallo et al. (5) testarono persone che avevano “altre
malattie dove gli anticorpi, alcuni dei quali possono interagire con gli
antigeni dell’HIV, possono essere prodotti per altre ragioni.”
La
Eleopulos discute il fenomeno dei “falsi positivi biologici” (BFPs), falsi
positivi, cioè, che risultano in pazienti affetti da varie patologie non
collegate alla condizione per cui vengono testati. Questo è un fenomeno
piuttosto comune, ad esempio, nei test per la sifilide.
Io
stessa ho avuto un falso positivo in un test per la sifilide dovuto ad una
precedente malattia da graffio di gatto. Falsi positivi alla sifilide possono
verificarsi in pazienti con lupus, anemia emolitica autoimmune, porpora
trombocitopenica idiopatica, lebbra o nei tossicodipendenti.
Alcuni
gruppi di persone producono una grande quantità di anticorpi perché sono
esposti ad un numero maggiore di malattie e condizioni malsane rispetto alla
norma. Questi gruppi includono Africani poveri e tossicodipendenti. Secondo
Biggar et al. “la reattività dell’ELISA che del WB può non essere
specifica negli Africani...”(6). E, naturalmente, tutte le nostre idee sulla
presunta gigantesca epidemia di AIDS in Africa sono basate sui programmi di test
Elisa.
La
letteratura scientifica è piena di riferimenti a dati che mostrano la
“presenza diffusa di interazioni non specifiche fra agenti retrovirali ed
anticorpi non correlati”. La Eleopulos cita un lungo elenco di reazioni
crociate. Un soggetto ricevette ripetutamente sangue HIV negativo ed il suo WB
test, che era inizialmente negativo, ad ogni iniezione divenne sempre più
intensamente positivo. Topi a cui furono iniettati linfociti T non infetti
provenienti da un altro ceppo di topi svilupparono anticorpi anti-HIV! Il test dà
inoltre una reazione crociata nei pazienti affetti da malaria: il 25-40% dei
pazienti Venezuelani affetti da malaria erano WB positivi, ma non avevano
l’AIDS.
La
Eleopulos e colleghi credono che tutte queste difficoltà con la specificità
del WB potrebbero essere evitate con l’uso dell’isolamento dell’HIV come
standard aureo, che è l’unico metodo accettabile; comunque “questo non è
stato ancora fatto, e potrebbe non essere neppure fattibile”.
Isolare
l’HIV significa separare la pura particella virale da tutto l’altro
materiale presente nella coltura cellulare. Per usare l’isolamento del virus
come standard aureo, dobbiamo essere assolutamente certi che il materiale che
abbiamo isolato sia realmente il virus che stiamo cercando e nient’altro - non
un altro virus, non frammenti di cellule, non particelle “simil-virali”, e
così via. Il metodo usato per isolare il virus comprende il separare la parte
liquida della coltura cellulare (il surnatante) e metterlo in una centrifuga.
Questo separa le particelle a seconda della loro differente densità. E’ un
po’ come dire la differenza fra due palle apparentemente identiche, una fatta
d’acciaio e l’altra di plastica, gettandole in una piscina - la palla
d’acciaio affonda, mentre quella di plastica galleggia. La figura 3 illustra
questo principio.
FIGURA
3
(a)
distribuito omogeneamente in tutto il tubo prima della centrifugazione;
(b)
durante la centrifugazione si stabilisce un gradiente, e le particelle campione
vengono distribuite in strati diversi a seconda della loro densità.
Si
ritiene che il materiale che si deposita ad una densità di 1,16 gm/ml sia
composto soltanto da particelle virali. Il problema qui è che alcune parti
delle cellule hanno la stessa densità dei virus. Alcuni eminenti virologi hanno
sottolineato che non si può evitare la contaminazione della preparazione virale
con vari tipi di materiale cellulare e frammenti di cellule, poiché la cellula
si rompe durante il procedimento. Poiché una parte del materiale cellulare ha
la stessa densità del virus, se avete una banda a 1,16 gm/ml, non potete essere
ancora sicuri di cosa sia. A causa di questo problema, i ricercatori che negli
anni ‘70 cercavano di isolare dei retrovirus puri, confermavano visivamente i
loro ritrovamenti per mezzo del microscopio elettronico.
Usando
le tecniche suddette, i migliori risultati potrebbero essere ottenuti con un
surnatante fluido che contenga molti virus e molto pochi contaminanti cellulari.
Queste condizioni possono essere soddisfatte al meglio da virus che non uccidono
le cellule che infettano ed in condizioni di coltura in cui la maggior parte
delle cellule resta viva (ed intatta) durante l’infezione. I retrovirus
soddisfano queste condizioni. Queste proprietà dei retrovirus rendono molto più
facile il separarli da qualsiasi altra cosa, inclusi i contaminanti cellulari.
Questo vale per la maggior parte delle colture retrovirali. Comunque, con
l’HIV, capita l’opposto.
Le
colture di tessuti affetti da AIDS presentano assai pochi virus, così pochi che
è difficile addirittura trovarli. E’ difficile tenere vive le cellule in
queste colture. Gallo, Montagnier e gli altri ricercatori hanno sempre trovato
una concentrazione molto bassa di queste particelle simil-virali nelle loro
colture di tessuti. Così qui avete molte cellule e poche particelle
simil-virali che essi hanno chiamato particelle virali (notate che il fatto che
queste particelle assomiglino ad un virus non costituisce una prova che esse
siano realmente dei virus). Questa situazione vi darà i peggiori risultati nel
tentativo di separare le particelle virali pure da qualsiasi altra cosa che si
depositi a 1,16 gm/ml.
Inoltre,
l’opinione ufficiale sull’HIV è che esso, a differenza degli altri
retrovirus, uccida le cellule. Ci sono molte teorie su come lo faccia, inclusa
la “apoptosi”, una sorta di suicidio cellulare.
Se
l’HIV, in un modo o nell’altro, è responsabile della morte della cellula,
il risultato sarà che le cellule morte si saranno rotte, ed il surnatante
fluido sarà pieno di frammenti cellulari e di materiale cellulare derivante da
queste cellule rotte.
Poiché
una parte di questo materiale cellulare ha la stessa densità dei retrovirus, è
assai difficile sapere cosa in realtà sia contenuto nella banda che si suppone
rappresenti il “puro HIV”.
La
Eleopulos e colleghi sostengono che nessuno sappia quali particelle, ammesso che
ce ne siano, si depositano a 1,16 gm/ml e nessuno conosce la densità di quello
che viene chiamato HIV. Essi sostengono che “la maggior parte, se non tutti, i
pretesi ‘isolamenti dell’HIV’ sono derivati da lisati cellulari”. (3)
(Un lisato è il materiale formato dalla frammentazione delle cellule). Infatti,
“le prove disponibili... indicano che solo circa il 20% delle proteine che si
depositano a 1,16 gm/ml sono proteine dell’HIV, le rimanenti sono proteine
cellulari ”(3).
Questa
situazione molto probabilmente deriva dal fatto che le colture “infettate
dall’HIV” muoiono e che le colture in generale vengono molto spesso
deliberatamente lisate.
Per
uscire da questa confusione, sarebbe utile dare un’occhiata a questo materiale
col microscopio elettronico ma, come la Eleopulos e colleghi ci fanno notare, la
letteratura sull’AIDS non contiene neppure una fotografia al microscopio
elettronico del materiale che si deposita a 1,16 gm/ml, e non c’è nessun modo
che ci consenta di sapere se questo materiale “contenga qualcuna di queste
particelle (HIV puro)”. Essi sottolineano che in letteratura sono usati
termini quali “HIV”, “isolamento dell’HIV”, “particelle pure”,
“particelle virali”, e così via, e questi termini hanno una varietà di
significati, ma quasi sempre “senza alcuna prova della presenza di una
particella virale.”
Ci
sono molte “prove” accettate dell’isolamento dell’HIV che in realtà non
sono affatto prove. Per esempio, c’è una sostanza chiamata “template primer
AndT15” che viene copiata se è incubata col surnatante o col materiale che si
deposita a 1,16 gm/ml. Questo fatto viene considerata prova della attività
trascriptasi inversa e quindi dell’isolamento dell’HIV. Comunque, la stessa
sostanza viene copiata se incubata con parecchi altri tipi di cellule che non
sono infettate dall’HIV, inclusi gli spermatozoi normali e non infetti. Essa
viene sì copiata dalla trascriptasi inversa (che si trova nei retrovirus), ma
viene anche copiata dalla DNA-polimerasi cellulare (che non si trova nei
retrovirus).
Certe
particelle sono riscontrate nelle colture dell’AIDS e sono considerate, da
molti ricercatori, l’HIV stesso. Comunque, ci sono un sacco di situazioni dove
le particelle HIV vengono trovate insieme a particelle non-HIV, o insieme a
particelle “similvirali”, che sono comunque “un po’ differenti” da
quelle che comunemente vengono considerate particelle di HIV, e così via.
L’HIV è un retrovirus di tipo C e particelle di tipo C appaiono in cellule di
linfoma non infette che sono metabolicamente in difficoltà. “Particelle
retrovirali” che hanno proprietà antigeniche simili all’HIV sono state
riscontrate in pazienti con sindrome di Sjogren. Particelle virali
indistinguibili dall’HIV sono riscontrate in un gran numero di linfoadenopatie
non associate all’HIV.
Da
qui la conclusione che “la presenza di tali particelle (da sola, non) indica
infezione da HIV (7). Sembra essere quasi impossibile isolare l’HIV e sapere
per certo che avete esattamente in mano l’HIV e non un’altra delle entità
succitate. Ed anche se i ricercatori hanno accettato un’ampia varietà di
fenomeni come rappresentativi dell’isolamento dell’HIV, ed hanno compiuto
sforzi immani per isolarlo, “non è ancora possibile isolare l’HIV da tutti
i pazienti sieropositivi.”(3).
D’altra
parte, l’HIV può essere “isolato” da pazienti che non hanno l’AIDS e
che sono sieronegativi! Usando la ricerca del p24 come metodo di isolamento
dell’HIV, sono stati ottenuti risultati positivi nella grande maggioranza di
un gruppo persone “presumibilmente non infette” con test anticorpali
indeterminati, ed in tutti i soggetti di un gruppo di donatori di sangue
sieronegativi.
Non
c’è assolutamente nessuna correlazione fra “l’isolamento dell’HIV” ed
un test anticorpale positivo, ed il CDC lo ammette. Il CDC definisce
“infezione documentata” un test anticorpale positivo, però dice anche che
“il virus non può essere ritrovato in ogni persona con una infezione
documentata” (8).
Quindi
usare l’isolamento dell’HIV come standard aureo per autenticare la validità
dei test anticorpali è per lo meno problematico.
Un
altra possibilità di rintracciare il virus ci è data dalle ricerche genomiche.
Lo scopo è quello di riuscire a provare che il paziente affetto da AIDS è
stato infettato da un unico retrovirus esogeno. (Esogeno significa che ha
origine al di fuori dal corpo, al contrario di endogeno che significa originato
dall’interno del corpo). Un genoma è semplicemente l’insieme delle
informazioni ereditarie che si trovano nei geni, che sono fatti di DNA e di RNA.
Sembra che una volta determinato che un certo retrovirus ha una particolare
sequenza genetica, se riuscite a ritrovare questa sequenza genetica possiate
affermare di aver trovato il virus. Bene, in realtà non è così semplice.
L’informazione
sul genoma è contenuta nel DNA o nell’RNA. Un retrovirus non possiede DNA, ma
solo RNA. Il retrovirus infetta una cellula per mezzo della trascriptasi inversa
che trasforma il suo RNA in DNA, questo DNA viene poi immesso nella cellula,
dove diventa parte integrante del DNA cellulare. Questa “traduzione in DNA”
delle informazioni genetiche del retrovirus, può poi essere utilizzata come
modello, o schema, per produrre altre copie del virus stesso, che poi vengono
espulse dalla cellula. Il genoma retrovirale, quando è integrato nel DNA della
cellula, viene chiamato provirus.
Ci
sono vari fenomeni che rendono assai difficoltosa ogni analisi genomica dei
retrovirus, ma i principali sono i seguenti:
Non
ci sono due genomi HIV uguali.
“Non
sono mai stati isolati due HIV identici, neppure nella stessa persona” (1,3)
in differenti momenti o nello stesso momento. Nello stesso paziente, gli HIV
provenienti da diversi tipi di cellule sono differenti. Differenti tipi di
cellule utilizzate nelle colture cellulari, producono HIV differenti.
La
sequenza dell’HIV non può essere riscontrata in tutti i pazienti affetti da
AIDS.
Per
quanto si applichino, i ricercatori non trovano mai molti virus nei pazienti
affetti da AIDS, ed in molti casi non ne trovano addirittura nessuno! Il test
PCR (polymerase chain reaction) fu introdotto per agevolare il ritrovamento dei
virus. Si dice che consenta l’equivalente di trovare un ago in un pagliaio,
poiché essa può trovare un gene, o un frammento di gene, ed amplificarlo fino
al punto in cui sia possibile individuarlo. Questo è il test che vedete in
tutti gli annunci pubblicitari e che promette risultati accurati già entro le
prime quattro settimane dall’infezione.
Anche
con questo test, “c’è rarità o apparente assenza di DNA virale in una
percentuale di pazienti”(10). La PCR non è in grado di trovare
l’HIV nella maggioranza dei campioni di sperma di pazienti affetti da
AIDS. Cosa significa questo per la teoria che l’AIDS è una malattia
sessualmente trasmessa? Se la PCR non può trovarlo, significa semplicemente che
non c’è nulla da trovare.
Comunque,
la Eleopulos e colleghi commentano che anche con la PCR, c’è una qualche
confusione sul significato dei risultati del test, specialmente quando si tenta
di usarla come standard aureo per confermare la reale presenza del virus
nell’organismo dei soggetti sieropositivi.
Furono
testati dei campioni di sangue usando la PCR ed il test standard Elisa, ed i
risultati vennero confrontati. Da un laboratorio all’altro, la corrispondenza
fra i due variava dal 40 al 100%, il ché significa che fra lo 0 ed il 60% dei
casi, uno o l’altro di questi test ha dato risultati sbagliati. Sono stati
osservati falsi positivi e falsi negativi anche con la PCR.
Un risultato di ibridizzazione positivo può non essere specifico per l’HIV.
L’ibridizzazione
è una tecnica di laboratorio utile nell’identificare cellule in cui si
replica l’HIV. Nei primi studi di Gallo sull’ibridizzazione, egli trovò che
le bande erano “deboli” o di “segnale basso”. Egli pensò che questo
significasse che non c’erano molti virus ma concesse che il test potesse
reagire ad un virus omologo (cioè differente ma molto simile come struttura ed
origine). Questa pubblicazione sostiene che sia vera la seconda ipotesi.
Sequenze collegate all’HIV sono state riscontrate anche in cellule normali,
cosicché molti fenomeni attribuiti all’HIV potrebbero essere di origine
cellulare.
La
Eleopulos ed i suoi colleghi concludono dicendo, in maniera molto diplomatica,
che l’uso dei test anticorpali per diagnosticare l’infezione da HIV, o per
effettuare indagini epidemiologiche, “deve essere attentamente
riconsiderato”.
Io
sarò meno diplomatica e vi dirò che questi test non sono affatto accurati; che
sono un pericoloso inganno e che è assai rischioso prendere decisioni di vita o
di morte basandosi su di un test risultato positivo. Il farlo può portare solo
alla tragedia.
Riferimenti bibliografici
1).
Henderson, L.E., Sowder, R., Copeland, T.D., et.al. 1987. Direct
identification of Class II hysto–compatiblity DR proteins in preparations of
Human T–cell lymphotrophic virus type III. J.Virol. 61:629-632.
2).
Zolla–Pazner, S., Gorny, M.K., Honnen, W.J., 1989. Reinterpretation of
human immunodefinciency virus Wetsern Blot patterns. New England Journal of
Medicine. 320:1280-1281.
3).
Papadopulos–Eleopulos, E., Turner, V.F., Papadimitriou, J.M. 1993. Is a
positive Western Blot proof of HIV infection? Bio/Tecnology. 11:696-707.
4).
Burke, D.S., Brundage, J.F., Redfield, R.R., et.al. 1988. Measurement of
the false positive rate in a screening programa for human immunodeficiency virus
infections. New England Journal of Medicine.319:961-964.
5).
S. Weiss, S.H., Goedert,
J.J., Sarngadharan, M.G. et.al. 1985. Screening test for HTLV–III (AIDS agent)
antibodies. JAMA. 253:221-225.
6).
Biggar, R.J., Gigase, P.L., Melbye, M. et.al. 1985. ELISA HTLV retrovirus
antibody reactivity associated with malaria and immune complexes in healthy
Africans. Lancet. II:520-523.
7)
O’Hara, C.J., Groopman, J.E., Federman, M. 1988. The ultra structural
and immunohistochemical demonstration of viral particles in lymph nodes of human
immunodeficiency virus related
lymphadenopathy syndromes. Hum.Path. 19:545.
8).
Hart, C., Spira, T., Moore, J. et.al. 1988 Direct detection of HIV RNA
expression in seropositive subjects. Lancet. II:596-599.
9).
Genetics of RNA tumour viruses. 1973. p656-699. In: The molecular biology
of tumour viruses. J. Tooze (Ed.) Cold Spring Harbor Laboratory. Cold Spring
Harbor, New York.
10).
Simmonds, P., Balfe P., Peutherer, J.F. et.al. 1990. Human
immunodeficiency virus infected
individuals contain provirus in small numbers of peripheral mononuclear cells
and at low copy numbers. J.Virol. 64:864-872.
11).
Tu, XM, Litwak, E., Pagano, M. Issues in human immunodeficiency virus
(HIV) screening programs. American Journal of Epidemiology, 1992. 136(2):244-55.