Antonio Perrone

La costruzione sociale di una nuova malattia

Basi sociologiche dell'invenzione di una bugia

 

 

Antonio Perrone è nato a Napoli, dove vissi fino ai 10 anni, quando la sua famiglia si stabilì nella Svizzera italiana. Dopo aver fatto il liceo in quel paese, studiò medicina a Milano. Ebbe il privilegio di essere allievo del professore Macacaro, rinomato storico della medicina. Al termine dei suoi studi Perrone tornò in Svizzera dove decise di non praticare la medicina. Questa decisione esprime, da una parte, la sua vocazione di storico della medicina e, dall'altra, un giudizio sulla professione medica. Fa le pulizie a domicilio. Gli interessi di questo intellettuale deprofessionalizzato lo portarono a scoprire tracce che incrociano quelle di El Gallo. L' incontriamo l'anno scorso in Messico, dove inseguiva le impronte di Gonzalo Aguirre Beltran. Parlammo abbondantemente di Fleck, che avevamo scoperto in maniera indipendente. Siamo stati d'accordo sul fatto che questo autore fornisce ad intellettuali liberi come noi una versione del "paesaggio delle conoscenze" liberata dalla preoccupazione immediata per l'efficienza tecnica. L'eziologia di tutte le malattie moderne è governata da teorie che hanno un uscita tecnica cospicua, cioè, effetti buoni o cattivi ma misurabili. Speculiamo, senza pensare specificamente all'AIDS, nella possibilità che una teoria medica non sfoci in terapie che sono reputate effettive. Ciò, aprirebbe la strada a eziologie radicalmente diverse da quelle che sono di moda. Si potrebbe parlare apertamente di un etiologia ecologica e iatrogenica delle malattie. Da queste conversazioni e dalla lettura di Fleck nacque questo progetto al quale Antonio presenta oggi il suo contributo. (J.R.)

Dovuto al suo carattere pretesemente "omosessuale" l'AIDS è un ente patologico di tipo etico-mistico, per il fatto di essere la supposta "infezione venerea" degli omosessuali promiscui. A modo di Ludvik Fleck, possiamo definire il concetto di AIDS come una "associazione attiva di manifestazioni" spiegabile storica e socialmente.
Difatti, ancora prima di essersi stabilita un eziologia virale della nuova malattia, l'AIDS, allora chiamata Gay-Related Immune Deficiency (GRID) era, già, la Piaga dei Gay.
Dopo aver definito la nuova entità patologica come la malattia specifica di un gruppo determinato di persone e una volta circonscritto lo spazio epidemiologico dei fattori e degli atteggiamenti che favoriscono l'apparizione della malattia, gli epidemiologi ed i medici presero l'unica strada che gli rimase aperta per descrivere eziopatologicamente la nuova malattia: la spiegazione virale. Il "virus dell'AIDS"- il quale fu nominato all'inizio "Human T-Cell Leukemia/Lymphoma Virus-III" o virus HTLV-III per poi venir rinominato "Human Immunodeficiency Virus" o HIV - costituisce il sostegno indispensabile alla tesi dell'origine sessuale dell'AIDS; è tramite il "virus dell'AIDS" e il suo mezzo di trasmissione "sessuale" che la nuova malattia riuscirà ad essere catalogata tra le "malattie di trasmissione sessuale".

Al momento di stendere ad altri "gruppi a rischio" il rischio di contrarre la malattia, sarà anche il virus quello che servirà da base teorica per questa estensione.
Il rapporto postulato tra l' entità patologica AIDS ed il virus HIV ci incita a leggere un'altra volta Genesi e sviluppo di un fatto scientifico di Fleck. Ecco la sua versione della relazione tra la spirocheta pallida (o trepanozoma) e l'entità patologica sifilide.
"…da sola, la spirocheta pallida non può definire la malattia sifilide; difatti, non si può definire la sifilide come la malattia causata dalla spirocheta pallida; per il contrario, è la spirocheta pallida quella che deve essere definita come il microrganismo associato alla sifilide. Nessuna altra definizione di questo microbo è soddisfacente e, inoltre, la pretesa di definire senza equivoci la malattia dalla presenza del microbo è illusoria, anche se fosse solamente a causa dei problemi del portatore sano".
Perchè non fare lo stesso ragionamento nel caso della relazione tra l'entità patologica AIDS ed il microrganismo HIV?
Come viene dimostrato da un lavoro stimolante pubblicato recentemente su Cancer Research dal ricercatore americano Duesberg, la presenza del virus HIV non è condizione necessaria nè sufficiente dell'AIDS.
In altre parole: la nuova malattia non può venir definita astraendo dalle condizioni socioculturali della sua costruzione sociale. Come concetto, l'AIDS è una entità clinica di tipo etico-mistico nella cui propagazione i mezzi di comunicazione hanno avuto più influenza che la Chiesa o la professione medica. Dennis Altman, autore di L'AIDS nella mente di America, scrive riguardo ciò:
"Il carattere omosessuale della malattia è stato fermamente stabilito dai mezzi di comunicazione e la scoperta di altri gruppi di colpiti contribuì poco a modificare questa percezione".
La stampa si occupa di creare una situazione propizia a ciò che Gonzalo Aguirre Beltran definisce "l'eziologia del peccato". Poi -e solo poi- gli epidemiologi operano la trasposizione tramite la quale la supposta relazione tra AIDS e ciò che una certa morale chiama "sodomia" abbandona il piano etico-mistico per ricristalizzare come relazione soltanto statistica di "fattori di rischio".

Jean-Paul Aron, grande scrittore francese dichiarato "sieropositivo", osserva con la lucidità di un epistemologo alcuni dei fattori socio-culturali della costruzione sociale dell'AIDS. Nell'intervista che fece al Nouvel Observateur di Parigi, dichiara:
"Il ruolo dell'informazione rispetto la percezione dell'AIDS rimarrà come uno degli insegnamenti più straordinari della storia contemporanea"
Al momento di essere catalogato portatore dell'AIDS, l'autore di "Epistemiologia biologica" non poteva tralasciare due aspetti caratteristici della nuova malattia:
• l' "eziologia del peccato"
• il ruolo decisivo dei media nella gestione e nella definizione dell'AIDS.
"La stampa (…) non è stata mai innocente (…). Sin dall'inizio, insistette sulle vittime omosessuali, allora molto poco numerose, avvalendosi di molti dettagli e di parole saggiamente scelte: gruppi a rischio, molteplicità di coppie, eccessi…(…).
La stampa ha avuto un'azione significativa ed esorbitante perchè sostituì tutte le altre forme di sapere".
E Aron termina la sua analisi facendo vedere che il "sapere informativo" produsse un corto circuito nella catena classica della migrazione delle idee dalle riviste specializzate alla grande stampa, come se per la prima volta nella storia della scienza si fosse aperto un canale diretto tra il laboratorio e le redazioni della stampa popolare.
Nel suo racconto della lotta di priorità tra Robert Gallo e Luc Montaigner per la paternità della scoperta dell'HIV, Steve Connor abbonda nello stesso senso. Il dibattito scientifico tra gli scopritori putativi non restò confinato alle riviste scientifiche; per il contrario, i due scienziati preferirono diffondere la loro lotta di priorità nelle colonne del Wall Street Journal o nel San Francisco Chronicle.
Secondo Aron, la stampa si è comportata (atteggiata) come se la sovrabbondanza di parole ed informazioni nei media doveva compensare l'importanza dei biologi e medici.
"I media -scrive Aron- si lasciarono andare naturalmente ad assumere da soli la prevenzione". E' stata la stampa ad organizzare e gestire campagne come quella "STOP AIDS", "Lunga vita al preservativo!" o "Sesso sicuro" per congiurare l'ignoranza e la impotenza professionali e fare opera di igiene (sanità) pubblica.
Davanti queste osservazioni, è stato sottolineato l'aspetto occulto, vergognoso, diabolico dell'AIDS".
Apparentemente solo un pazzo potrebbe, oggi, negare il fatto scientifico che l'AIDS sia una malattia trasmessa sessualmente e di origine virale. L'ipotesi di una etiologia ecologica o iatrogenica dell'AIDS resta screditata sin dall'inizio dalla certezza popolare propagata dai media che si tratta di "una malattia sessuale di origine virale". Ecco un caso dove la "por science" paralizza il libero ricorso dell'ipotesi scientifica. Il fatto di naturalizzare la malattia fa sì che la spiegazione virale renda particolarmente difficile l'analisi dei processi socio-culturali che intervenirono nella sua costituzione come entità patologica nuova.
Nonostante ciò, il fatto che l'AIDS sia diventata una certezza popolare conformata dai media, non è già un indicazione sufficiente del suo carattere socio-culturale? Difatti, la definizione dell'entità patologica AIDS, tale come la conosciamo oggigiorno, è profondamente condizionata da processi socio-culturali.
Diamo uno sguardo rapidamente ad alcuni degli autori che possono aiutarci a stabilire la storicità e a rivelare gli aspetti epistemiologici dell'AIDS come costruzione sociale. E' evidente che la teoria etiologica della nuova malattia è stata costruita "utilizzando le vecchie travi e colonne del pensiero di moda" (Neurath) all'interno di un collettivo di pensiero (Fleck).
Così come Kuhn e Feyerabend lo fecero vedere per altri scienziati, non si può parlare, nel caso dell'AIDS di "dati e fatti grossolani", ma invece di dati "analizzati, plasmati e costituiti nel quadro di determinata teoria", con "un sostegno concettuale che include i dati originali".
Gli omosessuali promiscui, i tossicodipendenti, i recettori di trasfusioni sanguinee, erano considerati covo di grandi infezioni prima della costituzione dell'AIDS come una nuova entità clinica. Piet Hagen nel suo libro Sangue, dono o merce? fa vedere come svariati elementi dello scenario, oggi banale, dell'AIDS erano già presenti prima della sua apparizione. Ad esempio, gli attuali "gruppi a rischio" erano catalogati come "gruppi propensi alla immunodeficienza" ed il discorso sull'AIDS è stato preparato da discorsi analoghi organizzati successivamente attorno alla sifilide, l'epatite B, la mononucleosi infettiva, l'erpes. Riguardo sintomi oggi caratteristici dell'AIDS come la pneumocistosi ed il sarcoma di Kaposi, sono stati descritti nella letteratura medica degli anni settanta come malattie congiunturali attribuite ad una "immunodepressione secondaria".

La costruzione sociale stessa dell'AIDS cristallizzò su questo terreno ben lavorato alla fine degli anni ' 70 e all'inizio degli ' 80. L'AIDS emerse allora come un nuovo fatto scientifico e la sua apparizione causò ciò che i sociologi della scienza hanno chiamato una scoperta simultanea. In effetti, quasi simultaneamente e (quasi) in maniera indipendente gli uni dagli altri, Gottileb, Friedman-Kien, Siegel, Masur e Mildvan "scoprirono" la nuova entità clinica che oggi chiamiamo AIDS.
Affinchè la somiglianza con altre grandi invenzioni scientifiche fosse completa, non mancano le spettacolose lotte per la priorità tra gli scopritori (o inventori concettuali) dell'AIDS, come già l'ho menzionato riguardo la lotta tra Gallo e Montaigner.
Dunque, il fatto di differenziare l'AIDS di tutte le altre forme di malattia ed erigerla ad entità clinica sui generis ebbe conseguenze immediate: la tendenza "statistica" a contrarre la nuova malattia diventò immediatamente uno stigma che colpisce gli omosessuali e, più diffusamente, tutti gli uomini giovani.
Abbiamo abbozzato la struttura della scoperta simultanea dell'AIDS. Guardiamo adesso in quale contesto socio-politico, scientifico e culturale ebbe luogo questa scoperta o invenzione concettuale.
Tre elementi contestuali contribuirono a condizionarre la costruzione della nuova entità clinica a partire di manifestazioni che rilevavano precedentemente da quadri clinici eterogenei. Eccoli:
1. la "moralizzazione" della società americana durante gli anni ' 70,
2. la "teoria virale" del cancro,
3. il razzismo ed il sessismo latenti della civiltà occidentale.
L'analisi di questi tre elementi del contesto storico nel quale è stato costruito l'AIDS come un nuovo fatto scientifico è istruttivo.
1. La moralizzazione della società americana.
Il profondo mutamento politico, sociale ed economico degli Stati Uniti sotto la bandiera del "reaganismo" è stato accompagnato da una forte "moralizzazione" della vita. Si ricorderanno ad esempio le campagne di "profilassi" contro la difussione dell' herpes 2, considerato di origine sessuale, le interviste a pazienti che dichiaravano avere "rovinato la loro vita" per il fatto di aver contratto la malattia e l'associazione mentale tra un virus ed una nuova rigidità morale.
2. La "teoria virale" del cancro.
Questa associazione morale è riuscita a rafforzarsi da impulsi sociocognoscitivi di una scuola di pensiero specializzata e professionalizzata: quella dei cancerologi, e tra loro quelli che recuperavano la teoria virale del cancro. La logica del pensiero che condurrà alla scoperta dell'HIV come la "causa virale dell'AIDS" può essere rintracciata fino agli studi di Temin e Baltimore così come quelli di Mitzutani pubblicati nel 1970 nella rivista Nature. Tutti questi articoli descrivono la scoperta di un enzima capace di sintetizzare acido desossiribonucleico (DNA) "replicando" la struttura di molecole di acido ribonucleico (RNA).
Nella teoria genetica classica, il rapporto tra il DNA e il RNA è stato -se mi consentite questa spiegazione popolare metaforica- simile a quella che esiste tra lo stampo ed i pezzi di moneta nella fabbricazione dei soldi. Il DNA poteva lasciare la propria impronta sul RNA, fenomeno che viene chiamato trascrizione. Siccome si credeva che la trascrizione non poteva mai avvenire all'incontrario, cioè dal RNA al DNA, Temin e Baltimore diedero il nome di transcrittasi inversa a questo enzima.
Già nel 1964, Temin aveva avanzato l'ipotesi che certi virus, oggi chiamati "retrovirus", potevano "costringere" certe cellule a produrre molecole di DNA che fossero la trascrizione del RNA del virus, e che quelle cellule erano "cellule cancerose". Attorno a questi studi si costituì una scuola di pensiero che condivide la convizione che certi tumori hanno un origine virale. Quando sono stati descritti i primi casi di ciò che oggi chiamiamo AIDS, i scienziati membri di questa scuola sentirono che avevano tutto nelle loro mani per portare avanti la "scoperta scientifica" che associerebbe (metterebbe in rapporto) i loro nomi con la nuova malattia. Formularono dapprima l'ipotesi dell'origine virale dell'AIDS, poi postularono che il "colpevole" era un retrovirus capace di "trascrizione inversa". Solo li rimase, alla fine, spiegare i meccanismi di trasmissione della nuova malattia.
Così come l'epistemologo Fleck dimostra che la reazione di Wassermann servì a confermare la "proto-idea" che il sangue impuro era "causa" della sifilide, la scoperta del "virus dell'AIDS" servì a dare rispettabilità scientifica alla teoria etico-mistica della piaga gay. Quando venne fuori che l'HIV non era oncogeno -non assomigliava esattamente a un retrovirus cancerogeno- l'aggregazione concettuale della teoria virale dell'AIDS e della piaga gay si era già consolidata a un punto tale che questa bugia emessa da circoli scientifici passò quasi inosservata.
3. Il razzismo ed il sessismo latenti.
Tutto avviene come se una malattia venerea semplicemente non potesse nascere in seno all'occidente. Così come la sifilide solo poteva essere arrivata dalle Americhe con Cristoforo Colombo, l'AIDS deve provenire dall'Africa. Trovo indubbi rapporti tra la teoria dell'origine africano dell'AIDS e la sua definizione come "malattia trasmessa sessualmente". L'immagine dell'inquinatore africano -o meglio ancora della inquinattrice africana- che diffonde l'AIDS fa ricordare l'immagine della Otentota siffilitica così come venne diffusa dalle "campagne di prevenzione" del secolo scorso. Nell'immaginazione popolare occidentale, le malattie veneree potevano venir rintracciate fino ad arrivare ad una inquinattrice che era allo stesso tempo "pagana" e femmina. Come per dare conferma della femineità della "inquinattrice originale", l'epidemiologia ha dovuto scoprire che, in maniera eccezionale in Africa, la difussione dell'AIDS avveniva da contatti eterosessuali. Il "paganessimo" (cioè origine non occidentale) e la "femineità" originali attribuiti all'AIDS sono gli elementi socio-culturali che fanno sì che prendano nell'immaginazione popolare una posizione leggermente analoga a quella che occupava la sifilide prima della terapia con antibiotici.
Guardiamo ad esempio il Dizionario della scienza medica pubblicato nel 1819 da J.J. Virey. Ci meravigliamo nello scoprire lì estese descrizioni della "donna otentote".
Il nome "otentote" era quello che i coloni olandesi di Sud Africa davano a quegli che chiamavo sè stessi khoikhoin: gli uomini degli uomini. Nel Museo dell'uomo di Parigi c'è uno stampo di gesso che si suppone riproduce la forma del corpo di una donna "otentote". Lo si conosce come la venere esteatopige o venere dal sedere grasso ed è stata pratticamente l'unica fonte di informazione del Dott.re Virey.
Colui non ebbe dubbi nel generalizzare gli insegnamenti talmente valiosi della venere esteatopige all'insieme delle donne dell'Africa. Virey vidi nella venere otentote l'epitomo della lascivia. Non smette di sottolineare il rapporto tra la sua fisiologia e la sua fisionomia. La "orrorosa forma" del suo corpo, il "suo naso orribilmente schiacciato" valgono come prove della sua "devastante sensualità e pericolosità". Alla pari della venere otentote che è il suo simbolo (in realtà, i khoikoin sono un gruppo etnico più imparentato ai gruppi mongolici che agli africani), la donna africana è, per Virey, intrinsecamente diversa dalla Europea, come lo "dimostrano" il colore della sua pelle e la conformazione dei suoi genitali. L'ipertrofia delle grandi e piccoli labbra vaginali -provocata dalle procedure di origine culturale- e la esteatopigia della donna "otentote" valevano come segni esteriori del "carattere vulcanico" della donna di colore. Secondo Virey, questi "segni" stigmatizzavano" tutte le donne di colore come possibili portatrici di malattie veneree.
Il "fatto scientifico" dell'origine africano del virus dell'AIDS è in rapporto con il pregiudizio che colpevolizzava le donne di colore per la sifilide: nella sua definizione scientifica stessa, l'AIDS porta il peso di secoli di pregiudizi raziali. Nonostante ciò, ancora dopo di aver confessato il suo razzismo e il suo sessismo impliciti, il concetto scientifico che l'HIV sia "il virus dell'AIDS" non rivela ancora la hubris scientifica che dette origine alla nuova malattia.
L'AIDS passa per essere una malattia infettiva, che appartiene alla lunga serie di malattie infettive che abbiamo imparato a combattere con antibiotici e vaccini. Dal momento della sua scoperta, gli antibiotici sono stati proposti al pubblico come l'arma totale nella guerra di destruzione contro le malattie infettive. Sono stati diffusi come "i farmaci capaci di intervenire in maniera definitiva sull'agente infettivo". Alla pari dei venditori di armi, i venditori di antibiotici presentarono loro come un arsenale de spettro talmente ampio nel loro insieme che consentiva di distruggere una volta per sempre qualsiasi microrganismo. Alla pari dei fabbricanti di erbicidi, i fabbricanti di antibiotici presentavano i loro prodotti come fattori di sviluppo e crescita economica.
L'antibiotico diventò la panacea: aggiunto agli alimenti per il bestiame, ingrassava -e ancora lo fa!- maiali e vitelli, ma anche aiutava gli imprenditori a combattere l'assentismo. La pubblicità a favore degli antibiotici fa ricordare quella che due o tre generazioni prima diffuse i vaccini. Alla pari dei vaccini, gli antibiotici sono stati accolti come i "migliori ausiliari dell'efficienza industriale e medica", disponibili, diceva la pubblicità, "24 ore al dì e 365 giorni dell'anno" per la crescita economica. Le malattie infettive mortali o quelle che lasciavano conseguenze indelebili erano "cose del passato" che solo potevano continuare ad esistere in angoli ancora non toccati dallo sviluppo.
In assenza (mancanza) di parole moderne per parlare di un risultato globale contrario ai fini dell'azione umana, farò ricorso al vocabolario dei miti greci.

Tantalo, re di Lidia e figlio di Giove, rubò dal tavolo degli dei l’alimento che lo rendeva immortale e, nel suo orgoglio smisurato o hybris, volle darlo ai mortali. Suscitò così l’invidia degli dei o nemesis e codesti lo condannarono a subire una fame e una sete perpetue in mezzo a decotti che sfuggivano dalle sue labbra e a frutti che indietreggiavano quando cercava di raggiungerli.
La nemesis greca era riservata agli eroi e ai semidei perché soltanto loro erano capaci di hybris, l’orgoglio che rompeva l’ordine naturale del mondo.
Oggigiorno, i danni causati dagli antibiotici alle nostre difese immunitarie evocano una nemesis che punirebbe l’hubris degli uomini. Vista la sua ampiezza, possono confrontarsi ai danni che gli erbicidi causarono alle nicchie ecologiche. Nella sua hybris, la professione medica e i produttori di antibiotici ci promisero l’arma assoluta contro le malattie infettive. Oggigiorno, la nemesis prende diverse forme:
• persone le cui difese immunitarie sono state indebolite dagli antibiotici vengono colpite da gravi infezioni provocate da funghi microscopici
• l’abuso dei vaccini e degli antibiotici provocò altre malattie incontrollabili con pronostici ogni volta più infausti
• la terapia antibiotica ha modificato molti quadri patologici
• l’antibiotico che prometteva la guarigione da tutte le malattie infettive, offre oggi morte, cancro e mutazioni genetiche.
Abbiamo ritenuto eterna la sicurezza che ci forniva l’antibiotico e adesso, a meno di mezzo secolo della sua invenzione, ne troviamo ogni volta di più nuovi buchi. Così come gli erbicidi hanno promosso la selezione di piaghe resistenti a loro, gli antibiotici hanno favorito la proliferazione di microrganismi resistenti. Ecco un esempio tipico dei ogni volta più generalizzati effetti collaterali degli antibiotici:
Nel 1973, due ricercatori messicani pubblicarono in una rivista americana molto specializzata un articolo col titolo “Salmonella del tifo resistenti al cloranfenicolo, all’ ampicilina, ed ad altri agenti antimicrobici: varietà isolate durante una epidemia di febbre tifoidea in Messico”.
Questo articolo segnalava che gli antibiotici avevano creato un tifo del quale era impossibile fare una diagnosi chiara e che inoltre resisteva a praticamente tutti i mezzi di cui dispone la medicina. Questo caso illustra -si tratta solo di un esempio- come l’uso degli strumenti di terapia dai migliori professionisti può risultare non solo inefficace, ma invece dannoso.
Da questi effetti collaterali ogni volta più generalizzati della medicina, dobbiamo capire due cose:
1. non si tratta dell’effetto di incompetenze o colpe professionali, ma invece del risultato apparentemente paradossale della applicazione professionale competente di tecniche mediche ritenute benefiche
2. finché l’AIDS ruppe brutalmente il velo, questi effetti collaterali strutturali rimasero sotterrati sotto i flussi ininterrotti di propaganda che affogavano la voce dei pochi epidemiologi che volevano dirci la verità.
Il secondo punto verrà illustrato se confrontiamo la propaganda ufficiale con quello che dice un epidemiologo onesto. Da trent’anni i propagandisti della oncologia ci bombardano con “informazioni” sulle vittorie nel fronte della lotta contro il cancro. Il “nemico”, ci dicono, “perde forze qui”, “indietreggia qua” mentre lì, “già è completamente vinto”. L’epidemiologo John Boiler prese la briga di confrontare questi urli di vittoria con i dati riguardo la mortalità, la morbilità manifesta, la sopravvivenza e la guarigione di pazienti di cancro trattati e non trattati. Il suo studio si estese agli ampi gruppi di malati dei principali tipi di cancro negli Stati Uniti tra 1950 e 1982. A Boiler non resta che costatare -contrariamente al discorso trionfante della cancerologia- che in termini generali, le terapie anticancerose non aumentarono la speranza di vita dei pazienti trattati. Anzi, ci sono degli indizi che questa speranza di vita sia colpita negativamente dalla estrema tossicità e/o pericolosità di quasi tutte le terapia anticancerose.
L’emergere dell’AIDS costituisce il punto storico nel quale le illusioni di immortalità diffuse dalla medicina crollano davanti a dure realtà.
L’avvenimento storico di una malattia davanti la quale la medicina risulta impotente confronta i medici con la nemesis della loro politica di gestione del corpo e dei loro sistemi terapeutici.
L’AIDS mette al nudo la crisi della medicina e distrugge il sogno di eliminare definitivamente le malattie infettive.
Comunque c’è n’è di più: ci confronta con una rottura epistemologica più drammatica del crollo di sogni irrealistici. La banalizzazione tecnica della malattia come “problema da risolvere” e lo spostamento professionale delle frontiere della morte ci appaiono oggi come quei giochi dell’apprendista stregone che incendiarono la casa. Oggi ci rendiamo conto che paghiamo troppo caro la hybris della professione medica.
La banalizzazione tecnica di tutte le malattie in problema riservato a un gruppo specializzato di professionisti provocò una situazione dove sembrano esserci ogni volta più “problemi” da risolvere che “soluzioni”:

Da: El Gallo Ilustrado Settimanale di EL DIA Premio Nazionale di Giornalismo Messico, Domenica 10 gennaio 1988