Antonio Perrone
La
costruzione sociale di una nuova malattia
Basi sociologiche dell'invenzione
di una bugia
Antonio Perrone è nato a Napoli, dove vissi
fino ai 10 anni, quando la sua famiglia si stabilì nella Svizzera
italiana. Dopo aver fatto il liceo in quel paese, studiò medicina
a Milano. Ebbe il privilegio di essere allievo del professore Macacaro,
rinomato storico della medicina. Al termine dei suoi studi Perrone tornò
in Svizzera dove decise di non praticare la medicina. Questa decisione
esprime, da una parte, la sua vocazione di storico della medicina e,
dall'altra, un giudizio sulla professione medica. Fa le pulizie a domicilio.
Gli interessi di questo intellettuale deprofessionalizzato lo portarono
a scoprire tracce che incrociano quelle di El Gallo. L' incontriamo
l'anno scorso in Messico, dove inseguiva le impronte di Gonzalo Aguirre
Beltran. Parlammo abbondantemente di Fleck, che avevamo scoperto in
maniera indipendente. Siamo stati d'accordo sul fatto che questo autore
fornisce ad intellettuali liberi come noi una versione del "paesaggio
delle conoscenze" liberata dalla preoccupazione immediata per l'efficienza
tecnica. L'eziologia di tutte le malattie moderne è governata
da teorie che hanno un uscita tecnica cospicua, cioè, effetti
buoni o cattivi ma misurabili. Speculiamo, senza pensare specificamente
all'AIDS, nella possibilità che una teoria medica non sfoci in
terapie che sono reputate effettive. Ciò, aprirebbe la strada
a eziologie radicalmente diverse da quelle che sono di moda. Si potrebbe
parlare apertamente di un etiologia ecologica e iatrogenica delle malattie.
Da queste conversazioni e dalla lettura di Fleck nacque questo progetto
al quale Antonio presenta oggi il suo contributo. (J.R.)
Dovuto al suo carattere pretesemente "omosessuale"
l'AIDS è un ente patologico di tipo etico-mistico, per il fatto
di essere la supposta "infezione venerea" degli omosessuali
promiscui. A modo di Ludvik Fleck, possiamo definire il concetto di
AIDS come una "associazione attiva di manifestazioni" spiegabile
storica e socialmente.
Difatti, ancora prima di essersi stabilita un eziologia virale della
nuova malattia, l'AIDS, allora chiamata Gay-Related Immune Deficiency
(GRID) era, già, la Piaga dei Gay.
Dopo aver definito la nuova entità patologica come la malattia
specifica di un gruppo determinato di persone e una volta circonscritto
lo spazio epidemiologico dei fattori e degli atteggiamenti che favoriscono
l'apparizione della malattia, gli epidemiologi ed i medici presero l'unica
strada che gli rimase aperta per descrivere eziopatologicamente la nuova
malattia: la spiegazione virale. Il "virus dell'AIDS"- il
quale fu nominato all'inizio "Human T-Cell Leukemia/Lymphoma Virus-III"
o virus HTLV-III per poi venir rinominato "Human Immunodeficiency
Virus" o HIV - costituisce il sostegno indispensabile alla tesi
dell'origine sessuale dell'AIDS; è tramite il "virus dell'AIDS"
e il suo mezzo di trasmissione "sessuale" che la nuova malattia
riuscirà ad essere catalogata tra le "malattie di trasmissione
sessuale".
Al momento di stendere ad altri "gruppi a rischio"
il rischio di contrarre la malattia, sarà anche il virus quello
che servirà da base teorica per questa estensione.
Il rapporto postulato tra l' entità patologica AIDS ed il virus
HIV ci incita a leggere un'altra volta Genesi e sviluppo di un fatto
scientifico di Fleck. Ecco la sua versione della relazione tra la spirocheta
pallida (o trepanozoma) e l'entità patologica sifilide.
"…da sola, la spirocheta pallida non può definire
la malattia sifilide; difatti, non si può definire la sifilide
come la malattia causata dalla spirocheta pallida; per il contrario,
è la spirocheta pallida quella che deve essere definita come
il microrganismo associato alla sifilide. Nessuna altra definizione
di questo microbo è soddisfacente e, inoltre, la pretesa di definire
senza equivoci la malattia dalla presenza del microbo è illusoria,
anche se fosse solamente a causa dei problemi del portatore sano".
Perchè non fare lo stesso ragionamento nel caso della relazione
tra l'entità patologica AIDS ed il microrganismo HIV?
Come viene dimostrato da un lavoro stimolante pubblicato recentemente
su Cancer Research dal ricercatore americano Duesberg, la presenza del
virus HIV non è condizione necessaria nè sufficiente dell'AIDS.
In altre parole: la nuova malattia non può venir definita astraendo
dalle condizioni socioculturali della sua costruzione sociale. Come
concetto, l'AIDS è una entità clinica di tipo etico-mistico
nella cui propagazione i mezzi di comunicazione hanno avuto più
influenza che la Chiesa o la professione medica. Dennis Altman, autore
di L'AIDS nella mente di America, scrive riguardo ciò:
"Il carattere omosessuale della malattia è stato fermamente
stabilito dai mezzi di comunicazione e la scoperta di altri gruppi di
colpiti contribuì poco a modificare questa percezione".
La stampa si occupa di creare una situazione propizia a ciò che
Gonzalo Aguirre Beltran definisce "l'eziologia del peccato".
Poi -e solo poi- gli epidemiologi operano la trasposizione tramite la
quale la supposta relazione tra AIDS e ciò che una certa morale
chiama "sodomia" abbandona il piano etico-mistico per ricristalizzare
come relazione soltanto statistica di "fattori di rischio".
Jean-Paul Aron, grande scrittore francese dichiarato
"sieropositivo", osserva con la lucidità di un epistemologo
alcuni dei fattori socio-culturali della costruzione sociale dell'AIDS.
Nell'intervista che fece al Nouvel Observateur di Parigi, dichiara:
"Il ruolo dell'informazione rispetto la percezione dell'AIDS rimarrà
come uno degli insegnamenti più straordinari della storia contemporanea"
Al momento di essere catalogato portatore dell'AIDS, l'autore di "Epistemiologia
biologica" non poteva tralasciare due aspetti caratteristici della
nuova malattia:
• l' "eziologia del peccato"
• il ruolo decisivo dei media nella gestione e nella definizione
dell'AIDS.
"La stampa (…) non è stata mai innocente (…).
Sin dall'inizio, insistette sulle vittime omosessuali, allora molto
poco numerose, avvalendosi di molti dettagli e di parole saggiamente
scelte: gruppi a rischio, molteplicità di coppie, eccessi…(…).
La stampa ha avuto un'azione significativa ed esorbitante perchè
sostituì tutte le altre forme di sapere".
E Aron termina la sua analisi facendo vedere che il "sapere informativo"
produsse un corto circuito nella catena classica della migrazione delle
idee dalle riviste specializzate alla grande stampa, come se per la
prima volta nella storia della scienza si fosse aperto un canale diretto
tra il laboratorio e le redazioni della stampa popolare.
Nel suo racconto della lotta di priorità tra Robert Gallo e Luc
Montaigner per la paternità della scoperta dell'HIV, Steve Connor
abbonda nello stesso senso. Il dibattito scientifico tra gli scopritori
putativi non restò confinato alle riviste scientifiche; per il
contrario, i due scienziati preferirono diffondere la loro lotta di
priorità nelle colonne del Wall Street Journal o nel San Francisco
Chronicle.
Secondo Aron, la stampa si è comportata (atteggiata) come se
la sovrabbondanza di parole ed informazioni nei media doveva compensare
l'importanza dei biologi e medici.
"I media -scrive Aron- si lasciarono andare naturalmente ad assumere
da soli la prevenzione". E' stata la stampa ad organizzare e gestire
campagne come quella "STOP AIDS", "Lunga vita al preservativo!"
o "Sesso sicuro" per congiurare l'ignoranza e la impotenza
professionali e fare opera di igiene (sanità) pubblica.
Davanti queste osservazioni, è stato sottolineato l'aspetto occulto,
vergognoso, diabolico dell'AIDS".
Apparentemente solo un pazzo potrebbe, oggi, negare il fatto scientifico
che l'AIDS sia una malattia trasmessa sessualmente e di origine virale.
L'ipotesi di una etiologia ecologica o iatrogenica dell'AIDS resta screditata
sin dall'inizio dalla certezza popolare propagata dai media che si tratta
di "una malattia sessuale di origine virale". Ecco un caso
dove la "por science" paralizza il libero ricorso dell'ipotesi
scientifica. Il fatto di naturalizzare la malattia fa sì che
la spiegazione virale renda particolarmente difficile l'analisi dei
processi socio-culturali che intervenirono nella sua costituzione come
entità patologica nuova.
Nonostante ciò, il fatto che l'AIDS sia diventata una certezza
popolare conformata dai media, non è già un indicazione
sufficiente del suo carattere socio-culturale? Difatti, la definizione
dell'entità patologica AIDS, tale come la conosciamo oggigiorno,
è profondamente condizionata da processi socio-culturali.
Diamo uno sguardo rapidamente ad alcuni degli autori che possono aiutarci
a stabilire la storicità e a rivelare gli aspetti epistemiologici
dell'AIDS come costruzione sociale. E' evidente che la teoria etiologica
della nuova malattia è stata costruita "utilizzando le vecchie
travi e colonne del pensiero di moda" (Neurath) all'interno di
un collettivo di pensiero (Fleck).
Così come Kuhn e Feyerabend lo fecero vedere per altri scienziati,
non si può parlare, nel caso dell'AIDS di "dati e fatti
grossolani", ma invece di dati "analizzati, plasmati e costituiti
nel quadro di determinata teoria", con "un sostegno concettuale
che include i dati originali".
Gli omosessuali promiscui, i tossicodipendenti, i recettori di trasfusioni
sanguinee, erano considerati covo di grandi infezioni prima della costituzione
dell'AIDS come una nuova entità clinica. Piet Hagen nel suo libro
Sangue, dono o merce? fa vedere come svariati elementi dello scenario,
oggi banale, dell'AIDS erano già presenti prima della sua apparizione.
Ad esempio, gli attuali "gruppi a rischio" erano catalogati
come "gruppi propensi alla immunodeficienza" ed il discorso
sull'AIDS è stato preparato da discorsi analoghi organizzati
successivamente attorno alla sifilide, l'epatite B, la mononucleosi
infettiva, l'erpes. Riguardo sintomi oggi caratteristici dell'AIDS come
la pneumocistosi ed il sarcoma di Kaposi, sono stati descritti nella
letteratura medica degli anni settanta come malattie congiunturali attribuite
ad una "immunodepressione secondaria".
La costruzione sociale stessa dell'AIDS cristallizzò
su questo terreno ben lavorato alla fine degli anni ' 70 e all'inizio
degli ' 80. L'AIDS emerse allora come un nuovo fatto scientifico e la
sua apparizione causò ciò che i sociologi della scienza
hanno chiamato una scoperta simultanea. In effetti, quasi simultaneamente
e (quasi) in maniera indipendente gli uni dagli altri, Gottileb, Friedman-Kien,
Siegel, Masur e Mildvan "scoprirono" la nuova entità
clinica che oggi chiamiamo AIDS.
Affinchè la somiglianza con altre grandi invenzioni scientifiche
fosse completa, non mancano le spettacolose lotte per la priorità
tra gli scopritori (o inventori concettuali) dell'AIDS, come già
l'ho menzionato riguardo la lotta tra Gallo e Montaigner.
Dunque, il fatto di differenziare l'AIDS di tutte le altre forme di
malattia ed erigerla ad entità clinica sui generis ebbe conseguenze
immediate: la tendenza "statistica" a contrarre la nuova malattia
diventò immediatamente uno stigma che colpisce gli omosessuali
e, più diffusamente, tutti gli uomini giovani.
Abbiamo abbozzato la struttura della scoperta simultanea dell'AIDS.
Guardiamo adesso in quale contesto socio-politico, scientifico e culturale
ebbe luogo questa scoperta o invenzione concettuale.
Tre elementi contestuali contribuirono a condizionarre la costruzione
della nuova entità clinica a partire di manifestazioni che rilevavano
precedentemente da quadri clinici eterogenei. Eccoli:
1. la "moralizzazione" della società americana durante
gli anni ' 70,
2. la "teoria virale" del cancro,
3. il razzismo ed il sessismo latenti della civiltà occidentale.
L'analisi di questi tre elementi del contesto storico nel quale è
stato costruito l'AIDS come un nuovo fatto scientifico è istruttivo.
1. La moralizzazione della società americana.
Il profondo mutamento politico, sociale ed economico degli Stati Uniti
sotto la bandiera del "reaganismo" è stato accompagnato
da una forte "moralizzazione" della vita. Si ricorderanno
ad esempio le campagne di "profilassi" contro la difussione
dell' herpes 2, considerato di origine sessuale, le interviste a pazienti
che dichiaravano avere "rovinato la loro vita" per il fatto
di aver contratto la malattia e l'associazione mentale tra un virus
ed una nuova rigidità morale.
2. La "teoria virale" del cancro.
Questa associazione morale è riuscita a rafforzarsi da impulsi
sociocognoscitivi di una scuola di pensiero specializzata e professionalizzata:
quella dei cancerologi, e tra loro quelli che recuperavano la teoria
virale del cancro. La logica del pensiero che condurrà alla scoperta
dell'HIV come la "causa virale dell'AIDS" può essere
rintracciata fino agli studi di Temin e Baltimore così come quelli
di Mitzutani pubblicati nel 1970 nella rivista Nature. Tutti questi
articoli descrivono la scoperta di un enzima capace di sintetizzare
acido desossiribonucleico (DNA) "replicando" la struttura
di molecole di acido ribonucleico (RNA).
Nella teoria genetica classica, il rapporto tra il DNA e il RNA è
stato -se mi consentite questa spiegazione popolare metaforica- simile
a quella che esiste tra lo stampo ed i pezzi di moneta nella fabbricazione
dei soldi. Il DNA poteva lasciare la propria impronta sul RNA, fenomeno
che viene chiamato trascrizione. Siccome si credeva che la trascrizione
non poteva mai avvenire all'incontrario, cioè dal RNA al DNA,
Temin e Baltimore diedero il nome di transcrittasi inversa a questo
enzima.
Già nel 1964, Temin aveva avanzato l'ipotesi che certi virus,
oggi chiamati "retrovirus", potevano "costringere"
certe cellule a produrre molecole di DNA che fossero la trascrizione
del RNA del virus, e che quelle cellule erano "cellule cancerose".
Attorno a questi studi si costituì una scuola di pensiero che
condivide la convizione che certi tumori hanno un origine virale. Quando
sono stati descritti i primi casi di ciò che oggi chiamiamo AIDS,
i scienziati membri di questa scuola sentirono che avevano tutto nelle
loro mani per portare avanti la "scoperta scientifica" che
associerebbe (metterebbe in rapporto) i loro nomi con la nuova malattia.
Formularono dapprima l'ipotesi dell'origine virale dell'AIDS, poi postularono
che il "colpevole" era un retrovirus capace di "trascrizione
inversa". Solo li rimase, alla fine, spiegare i meccanismi di trasmissione
della nuova malattia.
Così come l'epistemologo Fleck dimostra che la reazione di Wassermann
servì a confermare la "proto-idea" che il sangue impuro
era "causa" della sifilide, la scoperta del "virus dell'AIDS"
servì a dare rispettabilità scientifica alla teoria etico-mistica
della piaga gay. Quando venne fuori che l'HIV non era oncogeno -non
assomigliava esattamente a un retrovirus cancerogeno- l'aggregazione
concettuale della teoria virale dell'AIDS e della piaga gay si era già
consolidata a un punto tale che questa bugia emessa da circoli scientifici
passò quasi inosservata.
3. Il razzismo ed il sessismo latenti.
Tutto avviene come se una malattia venerea semplicemente non potesse
nascere in seno all'occidente. Così come la sifilide solo poteva
essere arrivata dalle Americhe con Cristoforo Colombo, l'AIDS deve provenire
dall'Africa. Trovo indubbi rapporti tra la teoria dell'origine africano
dell'AIDS e la sua definizione come "malattia trasmessa sessualmente".
L'immagine dell'inquinatore africano -o meglio ancora della inquinattrice
africana- che diffonde l'AIDS fa ricordare l'immagine della Otentota
siffilitica così come venne diffusa dalle "campagne di prevenzione"
del secolo scorso. Nell'immaginazione popolare occidentale, le malattie
veneree potevano venir rintracciate fino ad arrivare ad una inquinattrice
che era allo stesso tempo "pagana" e femmina. Come per dare
conferma della femineità della "inquinattrice originale",
l'epidemiologia ha dovuto scoprire che, in maniera eccezionale in Africa,
la difussione dell'AIDS avveniva da contatti eterosessuali. Il "paganessimo"
(cioè origine non occidentale) e la "femineità"
originali attribuiti all'AIDS sono gli elementi socio-culturali che
fanno sì che prendano nell'immaginazione popolare una posizione
leggermente analoga a quella che occupava la sifilide prima della terapia
con antibiotici.
Guardiamo ad esempio il Dizionario della scienza medica pubblicato nel
1819 da J.J. Virey. Ci meravigliamo nello scoprire lì estese
descrizioni della "donna otentote".
Il nome "otentote" era quello che i coloni olandesi di Sud
Africa davano a quegli che chiamavo sè stessi khoikhoin: gli
uomini degli uomini. Nel Museo dell'uomo di Parigi c'è uno stampo
di gesso che si suppone riproduce la forma del corpo di una donna "otentote".
Lo si conosce come la venere esteatopige o venere dal sedere grasso
ed è stata pratticamente l'unica fonte di informazione del Dott.re
Virey.
Colui non ebbe dubbi nel generalizzare gli insegnamenti talmente valiosi
della venere esteatopige all'insieme delle donne dell'Africa. Virey
vidi nella venere otentote l'epitomo della lascivia. Non smette di sottolineare
il rapporto tra la sua fisiologia e la sua fisionomia. La "orrorosa
forma" del suo corpo, il "suo naso orribilmente schiacciato"
valgono come prove della sua "devastante sensualità e pericolosità".
Alla pari della venere otentote che è il suo simbolo (in realtà,
i khoikoin sono un gruppo etnico più imparentato ai gruppi mongolici
che agli africani), la donna africana è, per Virey, intrinsecamente
diversa dalla Europea, come lo "dimostrano" il colore della
sua pelle e la conformazione dei suoi genitali. L'ipertrofia delle grandi
e piccoli labbra vaginali -provocata dalle procedure di origine culturale-
e la esteatopigia della donna "otentote" valevano come segni
esteriori del "carattere vulcanico" della donna di colore.
Secondo Virey, questi "segni" stigmatizzavano" tutte
le donne di colore come possibili portatrici di malattie veneree.
Il "fatto scientifico" dell'origine africano del virus dell'AIDS
è in rapporto con il pregiudizio che colpevolizzava le donne
di colore per la sifilide: nella sua definizione scientifica stessa,
l'AIDS porta il peso di secoli di pregiudizi raziali. Nonostante ciò,
ancora dopo di aver confessato il suo razzismo e il suo sessismo impliciti,
il concetto scientifico che l'HIV sia "il virus dell'AIDS"
non rivela ancora la hubris scientifica che dette origine alla nuova
malattia.
L'AIDS passa per essere una malattia infettiva, che appartiene alla
lunga serie di malattie infettive che abbiamo imparato a combattere
con antibiotici e vaccini. Dal momento della sua scoperta, gli antibiotici
sono stati proposti al pubblico come l'arma totale nella guerra di destruzione
contro le malattie infettive. Sono stati diffusi come "i farmaci
capaci di intervenire in maniera definitiva sull'agente infettivo".
Alla pari dei venditori di armi, i venditori di antibiotici presentarono
loro come un arsenale de spettro talmente ampio nel loro insieme che
consentiva di distruggere una volta per sempre qualsiasi microrganismo.
Alla pari dei fabbricanti di erbicidi, i fabbricanti di antibiotici
presentavano i loro prodotti come fattori di sviluppo e crescita economica.
L'antibiotico diventò la panacea: aggiunto agli alimenti per
il bestiame, ingrassava -e ancora lo fa!- maiali e vitelli, ma anche
aiutava gli imprenditori a combattere l'assentismo. La pubblicità
a favore degli antibiotici fa ricordare quella che due o tre generazioni
prima diffuse i vaccini. Alla pari dei vaccini, gli antibiotici sono
stati accolti come i "migliori ausiliari dell'efficienza industriale
e medica", disponibili, diceva la pubblicità, "24 ore
al dì e 365 giorni dell'anno" per la crescita economica.
Le malattie infettive mortali o quelle che lasciavano conseguenze indelebili
erano "cose del passato" che solo potevano continuare ad esistere
in angoli ancora non toccati dallo sviluppo.
In assenza (mancanza) di parole moderne per parlare di un risultato
globale contrario ai fini dell'azione umana, farò ricorso al
vocabolario dei miti greci.
Tantalo, re di Lidia e figlio di Giove, rubò
dal tavolo degli dei l’alimento che lo rendeva immortale e, nel
suo orgoglio smisurato o hybris, volle darlo ai mortali. Suscitò
così l’invidia degli dei o nemesis e codesti lo condannarono
a subire una fame e una sete perpetue in mezzo a decotti che sfuggivano
dalle sue labbra e a frutti che indietreggiavano quando cercava di raggiungerli.
La nemesis greca era riservata agli eroi e ai semidei perché
soltanto loro erano capaci di hybris, l’orgoglio che rompeva l’ordine
naturale del mondo.
Oggigiorno, i danni causati dagli antibiotici alle nostre difese immunitarie
evocano una nemesis che punirebbe l’hubris degli uomini. Vista
la sua ampiezza, possono confrontarsi ai danni che gli erbicidi causarono
alle nicchie ecologiche. Nella sua hybris, la professione medica e i
produttori di antibiotici ci promisero l’arma assoluta contro
le malattie infettive. Oggigiorno, la nemesis prende diverse forme:
• persone le cui difese immunitarie sono state indebolite dagli
antibiotici vengono colpite da gravi infezioni provocate da funghi microscopici
• l’abuso dei vaccini e degli antibiotici provocò
altre malattie incontrollabili con pronostici ogni volta più
infausti
• la terapia antibiotica ha modificato molti quadri patologici
• l’antibiotico che prometteva la guarigione da tutte le
malattie infettive, offre oggi morte, cancro e mutazioni genetiche.
Abbiamo ritenuto eterna la sicurezza che ci forniva l’antibiotico
e adesso, a meno di mezzo secolo della sua invenzione, ne troviamo ogni
volta di più nuovi buchi. Così come gli erbicidi hanno
promosso la selezione di piaghe resistenti a loro, gli antibiotici hanno
favorito la proliferazione di microrganismi resistenti. Ecco un esempio
tipico dei ogni volta più generalizzati effetti collaterali degli
antibiotici:
Nel 1973, due ricercatori messicani pubblicarono in una rivista americana
molto specializzata un articolo col titolo “Salmonella del tifo
resistenti al cloranfenicolo, all’ ampicilina, ed ad altri agenti
antimicrobici: varietà isolate durante una epidemia di febbre
tifoidea in Messico”.
Questo articolo segnalava che gli antibiotici avevano creato un tifo
del quale era impossibile fare una diagnosi chiara e che inoltre resisteva
a praticamente tutti i mezzi di cui dispone la medicina. Questo caso
illustra -si tratta solo di un esempio- come l’uso degli strumenti
di terapia dai migliori professionisti può risultare non solo
inefficace, ma invece dannoso.
Da questi effetti collaterali ogni volta più generalizzati della
medicina, dobbiamo capire due cose:
1. non si tratta dell’effetto di incompetenze o colpe professionali,
ma invece del risultato apparentemente paradossale della applicazione
professionale competente di tecniche mediche ritenute benefiche
2. finché l’AIDS ruppe brutalmente il velo, questi effetti
collaterali strutturali rimasero sotterrati sotto i flussi ininterrotti
di propaganda che affogavano la voce dei pochi epidemiologi che volevano
dirci la verità.
Il secondo punto verrà illustrato se confrontiamo la propaganda
ufficiale con quello che dice un epidemiologo onesto. Da trent’anni
i propagandisti della oncologia ci bombardano con “informazioni”
sulle vittorie nel fronte della lotta contro il cancro. Il “nemico”,
ci dicono, “perde forze qui”, “indietreggia qua”
mentre lì, “già è completamente vinto”.
L’epidemiologo John Boiler prese la briga di confrontare questi
urli di vittoria con i dati riguardo la mortalità, la morbilità
manifesta, la sopravvivenza e la guarigione di pazienti di cancro trattati
e non trattati. Il suo studio si estese agli ampi gruppi di malati dei
principali tipi di cancro negli Stati Uniti tra 1950 e 1982. A Boiler
non resta che costatare -contrariamente al discorso trionfante della
cancerologia- che in termini generali, le terapie anticancerose non
aumentarono la speranza di vita dei pazienti trattati. Anzi, ci sono
degli indizi che questa speranza di vita sia colpita negativamente dalla
estrema tossicità e/o pericolosità di quasi tutte le terapia
anticancerose.
L’emergere dell’AIDS costituisce il punto storico nel quale
le illusioni di immortalità diffuse dalla medicina crollano davanti
a dure realtà.
L’avvenimento storico di una malattia davanti la quale la medicina
risulta impotente confronta i medici con la nemesis della loro politica
di gestione del corpo e dei loro sistemi terapeutici.
L’AIDS mette al nudo la crisi della medicina e distrugge il sogno
di eliminare definitivamente le malattie infettive.
Comunque c’è n’è di più: ci confronta
con una rottura epistemologica più drammatica del crollo di sogni
irrealistici. La banalizzazione tecnica della malattia come “problema
da risolvere” e lo spostamento professionale delle frontiere della
morte ci appaiono oggi come quei giochi dell’apprendista stregone
che incendiarono la casa. Oggi ci rendiamo conto che paghiamo troppo
caro la hybris della professione medica.
La banalizzazione tecnica di tutte le malattie in problema riservato
a un gruppo specializzato di professionisti provocò una situazione
dove sembrano esserci ogni volta più “problemi” da
risolvere che “soluzioni”: