Questo articolo del  3 gennaio 2003, tratto da la repubblica, nonostante sia datato è  stato scelto perché, oltre  a dare l'idea dello spessore del personaggio intervistato, rende anche un quadro  drammatico sulla pochezza della nostra politica sanitaria.

IL RE DEI TRAPIANTI SI ARRENDE
di Arnaldo D'Amico

Un ultimo saluto amaro, a Fiumicino, dall'aereo che l'ha riportato negli Stati Uniti, da dove partì quattro anni fa. Nient'altro. Non è tipo da lasciarsi prendere dalle passioni: quando devi dirigere trenta persone in camera operatoria per dodici ore filate sai come e quando fermarti.
Ma non ne poteva più. Ignazio Marino, nato a Genova nel 1955, laureato in medicina a Roma, uno dei "cervelli" tornati in patria con grande clamore, non tollerava più quelli che "segano le gambe" a chi fa bene invece di rimboccarsi le maniche per fare meglio. Sperava che le cose fossero cambiate in Italia da quando se ne era andato vent'anni fa.
In America Ignazio Marino è diventato l' "erede" di quel Thomas Starzl che inventò il trapianto di fegato, intervento chirurgico tra i più difficili. E poi il primo direttore straniero dell'unico centro trapianti federale americano.
Lasciò tutto per organizzare a Palermo l'Ismett (Istituto Mediterraneo per i Trapianti e le Terapie ad alta specializzazione) che ora il mondo ci invidia per i record di guarigioni.
Ma alla fine burocrazia e baroni hanno vinto: da oggi Marino è di nuovo negli Usa, a capo della divisione trapianti e chirurgia del fegato di una delle più prestigiose università  americane, la Thomas Jefferson di Philadelphia.

D: Ma allora professore perché tornò in Italia?
R: "Nel 1996, quando si cominciò a pensare ad un centro trapianti multiorgano in Sicilia, io lavoravo negli Stati Uniti ormai da quasi dieci anni. Ho esitato all'inizio: ne avevo visti in Italia di grandi progetti iniziati per essere lasciati a metà .
Speravo però di dimostrare che anche da noi si possono raggiungere ottimi livelli anche partendo da condizioni svantaggiate.
Pensavo bastasse importare quel modello organizzativo e scientifico che ho imparato negli Stati Uniti e che funziona".

D:
Perché , secondo lei, funziona il modello americano?
R:
"Per l'esclusività  del rapporto di lavoro: ogni medico di università  o ospedale americano non può svolgere attività  privata e per questo riceve compensi adeguati. Per la multidisciplinarità : nei centri trapianti americani, ad esempio, ogni paziente viene seguito contemporaneamente da tutti gli specialisti senza trasferimenti e visite supplementari.
 Non si spreca tempo, si migliora la qualità  dell'assistenza grazie al confronto tra i vari esperti che così ampliano anche le loro competenze.
In Italia la divisione degli ospedali in reparti causa disguidi, scarsa comunicazione tra i medici, difficoltà  di coordinamento e minore efficacia delle terapie. Altro elemento determinante, sono le maggiori responsabilità  affidate agli infermieri negli Stati Uniti".

D: Quando iniziò l'avventura-disavventura italiana?
R: "Nel 1999, dopo tre anni di lavoro per stabilire gli accordi tra il Governo italiano, la Regione Sicilia e il Centro Medico dell'Università  di Pittsburgh, organizzare il team di professionisti americani che si sarebbero dovuti trasferire a Palermo, assumere gli infermieri italiani e formarli negli Stati Uniti, elaborare il progetto per la costruzione dell'ospedale. Ma ci sono stati mille problemi".

D:
Ad esempio?
R: "Problemi tecnici nel raggiungere gli standard di sicurezza e di affidabilità  delle attrezzature. Abbiamo eseguito il primo trapianto di fegato a fine luglio 1999, con una temperatura esterna che sfiorava i quaranta gradi e, durante l'intervento, è saltato l'impianto di condizionamento.
Un disastro, senza la temperatura giusta in sala operatoria è a rischio la salute del paziente e la funzionalità  dell'organo.
E per l'Equipe aumenta le probabilità  di errori. Me lo ricorderò per tutta la vita quel giorno".

D:
Altri problemi?
R: "Per assumere esperti informatici ho mandato lettere ai docenti delle facoltà  siciliane perchè mi segnalassero gli allievi migliori, come si fa negli Stati Uniti. Ho inviato trenta lettere e mi sono arrivate tre risposte, ma di pura cortesia, senza alcun nome".

D:
Scoraggiante...
R: "Per fortuna c'era anche la convergenza di sforzi e di persone che credevano fortemente in questo progetto e che hanno fatto di tutto per non farlo naufragare.
In primo luogo l'allora ministro Rosy Bindi e l'assessore alla sanità  Alessandro Pagano, il sindaco Orlando, il cardinale Pappalardo e tante altre persone che ricoprivano ruoli chiave e rappresentavano uno stimolo oltre che una garanzia di riuscita".

D:
Bene o male l'Ismett è partito ed è stato un successo medico e scientifico. Ma la soddisfazione personale maggiore quale è stata?
R: "Quella di aver reso inutili i "viaggi della speranza". E l'aver dimostrato che le cose posso funzionare molto bene anche nel Sud del paese".

D: E la delusione maggiore?
R: "Mi aspettavo che, come accade non solo in America, si sarebbe sviluppata una competizione con le altre strutture del territorio, una gara per fare meglio, con una generale spinta al miglioramento, con benefici per tutti, dei malati per primi.
Tranne qualche rara eccezione, gli sforzi sono stati fatti per creare ostacoli all'Ismett, non per attivare sana competizione. E la spinta al cambiamento dell' Ismett si è ridimensionata".

D:
E così si è arreso?
R: "Ancora no, anche se i cambiamenti ai vertici delle istituzioni nazionali e regionali hanno diminuito l'attenzione verso un progetto ancora troppo giovane per camminare da solo e che aveva invece bisogno del sostegno di tutti.
Alle classiche difficoltà  di dialogo con l'amministrazione regionale, s'è aggiunta la mancanza di intervento da parte del ministero e la fine della strategia di lungo periodo.
L' Ismett è  nato per diventare il primo centro trapianti multiorgano italiano, ma dopo le autorizzazioni per fegato e rene non sono arrivate quelle previste per cuore, polmone e intestino.
Infine non capisco perché la Regione abbia continuato a pagare "viaggi della speranza" a tanti pazienti che potevano essere curati in Sicilia".

D:
Ma quale si è rivelato l'ostacolo insormontabile?
R: "...la diffusa ritrosia al cambiamento e una grande abilità  nel difendere piccoli o grandi interessi a scapito dell'interesse comune, che nel nostro caso è la cura dei malati. La mia sensazione è che in Italia nella sanità  prevale la voglia di coltivare il proprio orticello: si creano reparti per fare un primario, si parcellizzano le responsabilità  in modo che tutti comandino ma nessuno sia realmente responsabile, si lottizzano i posti letto.
Ma ciò che più mi stupisce è che non si denunciano gli errori o le terapie sbagliate per non rischiare di offendere un altro medico, mettendo a rischio la salute di un malato e perdendo l'occasione di evitare il ripetersi degli errori in futuro".

D:
Che fine farà  l'Ismett?
R: "Ora è sotto la direzione interinale di John Fung, direttore del centro di Pittsburgh".

D:
E lei tornerà  a lavorare in Italia?
R: "Non credo. Almeno sino a che prevarrà  la cultura del privilegio personale, sino a quando si creeranno ostacoli a chi sa far bene invece di cercare di far meglio che poi è l'interesse del malato".

 

Tratto da: la Repubblica, 3 gennaio 2003.