La dolce vita di un ciccione

Annoiato, sorseggiavo una birra, più per riempire il tempo che per sete. Ero seduto allo snack-bar della piscina, nell'albergo in cui risiedevo. Scrutavo in giro nell'attesa che avvenisse qualcosa. Qualcosa che mi facesse svegliare da quel torpore in qui ero sprofondato da alcuni giorni. In quel posto non accadeva nulla, solo finte persone in finte pose gladiatorie, abbrustoliti dal sole e dalla vecchiaia che avevano dentro il cervello. Quella era tutta gente alla ricerca di facile divertimento di felicità e benessere creati su misura il giorno prima del loro arrivo. Mentre squagliavo il cervello con queste inutili considerazioni passò poco lontano da me un uomo sulla quarantina con un costume che a stento copriva quello che c'era da coprire. Diciamo pure che una buona fetta della parte superiore del suo culone faceva bella mostra di se. Il ventre dell'uomo era dilatato a dismisura ma risultava essere perfettamente tondo e proporzionato nel suo gigantismo. Il pancione appariva come un entità a se stante e l'uomo sembrava utilizzarlo come una sorta di biglietto da visita. Lo mandava avanti in avanscoperta con fare baldanzoso e spregiudicato. L'uomo stava avanzando minaccioso verso la zona cucina del locale. Prima di arrivarci però un traboccante boccale di birra fu subito nelle sue potenti mani. Distolsi un attimo lo sguardo e quando lo riportai su le sue rotondità, lo vidi in frenetica agitazione. Il primo boccale era già stato sostituito da un altro e
nonostante questo l'omone pareva proprio non riuscire a stare quieto, si muoveva ciondolando avanti ed indietro tra il suo tavolo e la zona cucina, impaziente per il ritardo nell'arrivo del cibo da lui richiesto. Lo vidi sollecitare più volte il cuoco in maniera bonaria ma decisa. Il cuoco cercò di rasserenarlo con amorevoli rassicurazioni. Il cuoco pareva conoscere quale fosse la smania che attanagliava l'uomo. Anch'egli era un notevole portatore di grasso.
Da quando ero arrivato in quel paese avevo potuto notare come molte persone erano afflitte da obesità, qualcuno di loro era anche più voluminoso del mio uomo, ma non era questione di quantità ma bensì di qualità. Il mio uomo aveva classe da vendere, non si vergognava dell'adipe appeso alle sue chiappe, non tirava indietro la pancia per sembrare più magro. Semplicemente se ne infischiava del parere degli altri.
Finalmente il cibo fu pronto. Le sue mani lo avvinghiarono, ebbre di gioia. Nel tragitto dalla cucina al suo tavolo aveva già affossato i denti su uno dei quattro hot-dog che aveva con se. Rimasi estasiato dalla totale abnegazione che donava al cibo. Null'altro aveva importanza. Era la sua religione, il suo dio.
La sua lingua roteava, guizzava impazzita. Le fauci voraci erano dispensatrici di morte per ogni alimento che avesse avuto la malaugurata sorte di passargli vicino. Un suo boccone era almeno come tre dei miei. La saliva, copiosa, lubrificava e compattava gli alimenti in maniera veloce e precisa. Ogni gesto era calibrato in modo tale da garantire il più veloce smaltimento del cibo. Non era però un semplice trangugiare senza rispetto. L'uomo era deliziato. Non era solo necessità la sua ma l'attuazione di un rituale che ora si stava compiendo sotto i miei occhi. In breve tempo dei panini non rimasero che avanzi destinati in ogni modo a fare una brutta fine. L'uomo non dava segni di cedimento, non era stanco ne sazio, si fermò solo qualche volta per buttar giù qualche grossa sorsata di birra. Finì così anche il secondo boccale. Questo lo indispettì, ma non si scoraggiò, con un semplice gesto della mano fece cenno al cameriere e si fece portare un altro boccale.
Potei vederlo riprendere a masticare con maggior foga e vigore ma un pezzo di salsicciotto scivolò tremante a terra, pareva voler fuggire da tale ingordigia. Con fare indifferente l'uomo raccolse l'ammutinato, ci soffio sopra e gli diede degna sepoltura nel suo stomaco.
Ero in trance, non riuscivo a staccare gli occhi da una tale prova di forza e coraggio, ebbi per un attimo il timore che l'uomo si accorgesse delle mie attenzioni. Mi sbagliavo. Il mio amico non si distraeva, non distoglieva lo sguardo da ciò che rimaneva nel suo piatto. Non alzava lo sguardo e non si degnò di notare la selva di donzelle disinibite che gli passavano accanto disgustate.
Arrivò presto il momento dell'ultimo boccone. Il mio eroe si passò l'avambraccio sulla bocca per ripulirsi, lentamente si alzò barcollando un poco e se n'andò.
Avrei gradito in chiusura un fragoroso rutto di disprezzo nei nostri confronti. Confesso, invece, che rimasi un poco deluso dalla sua uscita di scena quasi signorile.
Rimasi ancora a lungo seduto dov'ero come incapace di alzarmi. Pensavo al fatto che quell'uomo probabilmente non sarebbe campato a lungo. Il preoccupante stato in cui era, a meno di un deciso ravvedimento nelle sue abitudini alimentari, non lasciava molto spazio a speranze di vita duratura.
Non so come, ma quel pensiero mi rattristò.
Durante il mio soggiorno non ebbi più modo di incontrare quel personaggio ma gli auguro di rimanere così come lo vidi quel giorno: grasso e felice.

 

berto

 

 

 

 


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