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In
un altro paese
In autunno c'era ancora la guerra, ma noi non ci andavamo più.
Faceva freddo in autunno, a Milano, e il buio calava molto presto.
Allora si accendevano le luci elettriche, ed era divertente
camminare per le strade guardando le vetrine.
C'era molta selvaggina appesa davanti ai negozi, e la neve spolverava
la pelliccia delle volpi e il vento ne gonfiava la coda. I cervi
penzolavano rigidi e vuoti e pesanti, e gli uccellini si gonfiavano
al vento e il vento ne scompigliava le piume. Era un autunno
freddo, il vento veniva giù dalle montagne.
Ogni pomeriggio andavamo tutti all'ospedale, e c'erano vari
modi di arrivarci, nel crepuscolo, attraverso la città.
Due di questi modi erano seguendo i canali, ma la strada era
lunga. Sempre, però, per entrare nell'ospedale, si attraversava
un ponte su un canale. Si poteva scegliere fra tre ponti. Su
uno di essi una donna vendeva caldarroste. Si stava al calduccio,
davanti al fuoco della sua carbonella, e dopo le castagne erano
calde nella tua tasca. L'ospedale era molto vecchio e molto
bello, e si entrava da un cancello, si attraversava un cortile
e si usciva da un cancello dalla parte opposta. Di solito c'erano
dei funerali che partivano dal cortile. Oltre il vecchio ospedale
c'erano i nuovi padiglioni in muratura, e là c'incontravamo
ogni pomeriggio, eravamo tutti molto gentili e molto interessati
a quello che affliggeva tizio o caio, e stavamo seduti nelle
macchine che dovevano cambiare ogni cosa, o quasi.
Il dottore si avvicinò alla macchina dove stavo seduto
io e disse: - Cosa le piaceva fare di più, prima della
guerra? Praticava uno sport?
Dissi: - Si, il football.
- Bene, - disse lui. - Potrà tornare a giocare a football
meglio che mai.
Il mio ginocchio non si piegava e la gamba pendeva irrigidita
dal ginocchio alla caviglia, senza polpaccio, e la macchina
doveva piegare il ginocchio e farlo muovere come se andassi
in bicicletta. Ancora non si piegava, però, e quando
veniva il momento di piegarlo, era la macchina, invece, a incepparsi.
Il dottore disse: - Tutto questo passerà. Lei è
un giovanotto fortunato. Tornerà a giocare a football
come un campione.
Nella macchina vicina c'era un maggiore che aveva una mano piccola
come quella di un bambino. Mi strizzò l'occhio quando
il dottore gli visitò la mano, che era tra due cinghie
di cuoio che saltavano su e giù e facevano muovere le
dita irrigidite, e disse: - E giocherò anch'io a football,
capitano medico? - Era stato un grandissimo schermitore, e prima
della guerra il più grande schermitore italiano.
Il dottore andò nel suo ufficio, in una stanza in fondo
alla sala, e ci portò una fotografia che mostrava una
mano che, prima della cura, era piccola quasi come quella del
maggiore, e che dopo era un po' più grande. Il maggiore
tenne la fotografia con la mano buona e la studiò molto
attentamente. - Una ferita? - chiese.
- Un infortunio sul lavoro, - disse il dottore.
- Molto interessante, molto interessante, - disse il maggiore,
e la restituì al dottore.
- Ha fiducia?
- No, - disse il maggiore.
C'erano tre ragazzi che venivano ogni giorno e avevano circa
la mia età. Erano di Milano, tutt'e tre, e uno doveva
fare l'avvocato, uno il pittore, e uno avrebbe voluto fare la
carriera militare, e quando avevamo finito con le macchine a
volte tornavamo insieme al Caffè Cova, che era vicino
alla Scala. Poiché eravamo in quattro, prendevamo la
via più breve attraverso il quartiere comunista perché
eravamo in quattro. La gente ci odiava perché eravamo
ufficiali, e da un'osteria, mentre passavamo, qualcuno gridava:
- Abbasso gli ufficiali! - Un altro ragazzo che qualche volta
veniva con noi, portando così a cinque il numero dei
componenti la comitiva, aveva sulla faccia un fazzoletto di
seta nera perché allora era senza naso e dovevano rifargli
il viso. Era andato al fronte direttamente dall'accademia militare
e lo avevano ferito meno di un'ora dopo il suo arrivo in prima
linea. Gli ricostruirono la faccia, ma lui veniva da un'antichissima
famiglia e così non riuscivano mai a fargli il naso giusto.
Poi andò in Sudamerica a lavorare in una banca. Ma quello
di cui racconto accadde tanto tempo fa, e allora non sapevamo,
nessuno di noi lo sapeva, come sarebbero andate, dopo, le cose.
Allora sapevamo soltanto che c'era ancora la guerra, ma che
noi non ci saremmo più andati.
Avevamo tutti le stesse medaglie, tranne il ragazzo con la benda
di seta nera sul viso, lui non era stato al fronte abbastanza
tempo per guadagnarsi una medaglia. Il ragazzo alto dalla faccia
pallidissima che doveva fare l'avvocato era stato tenente degli
arditi e aveva tre medaglie del tipo di cui noi ne avevamo una
sola. Per molto tempo era vissuto fianco a fianco alla morte
e aveva un'aria piuttosto distaccata. Avevamo tutti un'aria
piuttosto distaccata, e non c'era nulla che ci unisse tranne
il fatto che ogni pomeriggio c'incontravamo all'ospedale. Anche
se, mentre andavamo al Cova attraverso la parte meno raccomandabile
della città, camminando nel buio, con luci e canti che
uscivano dalle osterie, e dovendo certe volte imboccare una
strada dove gli uomini e le donne si affollavano sul marciapiede,
cosa che ci costringeva a urtarli per passare, ci sentivamo
uniti dal fatto che era successo qualcosa che loro, le persone
che ci avevano in uggia, non potevano capire.
Quanto a noi, capivamo bene il Cova, che era comodo e caldo
e non troppo vivamente illuminato, e rumoroso e pieno di fumo
a certe ore, e c'erano sempre ragazze ai tavoli e giornali illustrati
su una rastrelliera appesa al muro. Le ragazze del Cova erano
molto patriottiche, e io scoprii che in Italia le persone più
patriottiche erano le ragazze dei caffè, e credo che
lo siano ancora.
All'inizio i ragazzi furono assai gentili, s'interessarono alle
mie medaglie e mi chiesero cos'avevo fatto per guadagnarmele.
Mostrai loro i documenti, che erano scritti in uno stile bellissimo
e pieno di fratellanza e abnegazione, ma che in realtà
dicevano, tolti tutti i fronzoli, che mi avevano assegnato le
medaglie perché ero americano. Dopodiché il loro
atteggiamento verso di me cambia un tantino, anche se, di fronte
agli estranei, ero sempre un amico. Ero un amico, ma non più
veramente uno di loro, quand'ebbero letto le citazioni, perché
per loro era stato diverso, per guadagnarsi le medaglie, avevano
fatto cose ben diverse. Io ero stato ferito, questo è
vero; ma tutti sapevamo che essere feriti, dopo tutto, dipendeva
solo dal caso. Non mi vergognai mai dei nastrini, però,
e qualche volta, dopo l'ora del cocktail, immaginavo di aver
fatto, per guadagnarmi le medaglie, tutte le cose che avevano
fatto loro; ma la sera, tornando a casa per le strade vuote
col vento freddo e tutti i negozi chiusi, cercando di tenermi
vicino ai lampioni, sapevo che quelle cose non le avrei fatte
mai, e avevo una gran paura di morire, e spesso stavo a letto,
di notte, tutto solo, chiedendomi come mi sarei comportato quando
fossi tornato al fronte.
I tre con le medaglie erano come falchi cacciatori; e io non
ero un falco, anche se un falco potevo sembrare a coloro che
non avevano mai cacciato; loro, i tre, la sapevano più
lunga, e per questo le nostre vie si separarono. Ma rimasi buon
amico del ragazzo che era stato ferito il suo primo giorno al
fronte, perché ora non avrebbe mai saputo come si sarebbe
comportato; così neanche lui poteva essere accettato,
e mi piaceva perché pensavo che forse neanche lui sarebbe
diventato un vero falco.
II maggiore, che era stato un grande schermitore, non credeva
nel coraggio, e quando stavamo seduti nelle macchine passava
molto tempo a correggermi gli errori di grammatica. Mi aveva
fatto i complimenti per come parlavo l'italiano, e insieme conversavamo
con molta disinvoltura. Un giorno avevo detto che l'italiano
mi sembrava così facile che non riuscivo a provare un
particolare interesse per questa lingua: tutto era così
semplice da dire... - Ah, si, - disse il maggiore. - Perché,
allora, non comincia a studiare la grammatica? - Cominciammo
dunque a studiare la grammatica, e subito l'italiano diventò
così difficile che non ebbi più il coraggio di
rivolgergli la parola finché non ebbi la grammatica sulla
punta delle dita.
Il maggiore veniva all'ospedale con molta regolarità.
Penso che non avesse saltato un giorno, anche se sono certo
che non credeva nelle macchine. Ci fu un periodo in cui nessuno
dei due credeva nelle macchine, e un giorno il maggiore disse
che erano tutte sciocchezze. Allora le macchine erano nuove
ed eravamo noi che dovevamo provarle. Era un'idea idiota, disse
lui, una teoria come un'altra. Io non avevo imparato la grammatica,
e lui disse che ero uno stupido, una persona impossibile, e
che mi dovevo vergognare, e che lui era stato uno sciocco a
disturbarsi per me. Era un uomo piccino, sedeva impettito sulla
seggiola con la destra ficcata nella macchina e guardava il
muro, diritto davanti a sé, mentre le cinghie andavano
rumorosamente su e giù facendogli muovere le dita.
- Che farà quando la guerra finirà, se finirà?
- mi chiese. - Attento alla grammatica!
Andrò negli Stati Uniti.
E’ sposato ?
- No, ma spero di sposarmi.
- Tanto peggio per lei, - disse. Pareva arrabbiatissimo. - Un
uomo non deve sposarsi.
- Perché, signor maggiore ?
- Non mi chiami « signor maggiore».
- Perché un uomo non deve sposarsi?
- Non può sposarsi. Non può sposarsi, - disse
rabbiosamente. - Se non vuol perdere tutto, non dovrebbe mettersi
nella condizione di perderlo. Non dovrebbe mettersi nella condizione
di perdere. Dovrebbe trovare delle cose che non si possono perdere.
Parlava rabbiosamente e con grande asprezza, e parlando teneva
lo sguardo fisso davanti a sé.
- Ma perché dovrebbe necessariamente perderlo?
- Lo perderà, - disse il maggiore. Stava guardando il
muro. Poi abbassò gli occhi alla macchina e strappò
via la manina dalle cinghie e se la batté con forza sulla
coscia.
- Lo perderà, - disse, quasi urlando. - Non discuta con
me! - Poi chiamò l'assistente che badava alle macchine.
- Venga a spegnere quest'ordigno maledetto.
Tornò nell'altra stanza per la cura con la luce e il
massaggio. Poi lo sentii chiedere al dottore se poteva usare
il suo telefono e chiuse la porta. Quando rientrò nella
stanza, io ero seduto in un'altra macchina. Lui indossava la
mantella e aveva il berretto in testa, venne dritto verso la
mia macchina e mi mise una mano sulla spalla.
- Sono veramente desolato, - disse, e con la mano buona mi diede
un colpetto sulla spalla. - Non volevo essere scortese. Mia
moglie è appena morta. Deve perdonarmi.
- Oh... - dissi, sentendomi male per lui. - Mi dispiace tanto.
Rimase là mordendosi il labbro inferiore. - E’
molto difficile, - disse. - Non riesco a rassegnarmi.
Il suo sguardo mi attraversava e si perdeva alle mie spalle
fuori dalla finestra. Poi il maggiore si mise a piangere. -
Sono assolutamente incapace di rassegnarmi, - disse con voce
strozzata, e poi, piangendo, a testa alta, con lo sguardo vuoto,
con un'andatura rigida e marziale, con le guance rigate di lacrime
e mordendosi le labbra, passò davanti alle macchine e
uscì dalla porta.
Il dottore mi disse che la moglie del maggiore, che era giovanissima
e che lui aveva sposato soltanto dopo essere stato esentato
dal servizio per invalidità, era morta di polmonite.
Si era ammalata solo qualche giorno prima. Nessuno si aspettava
che morisse. Il maggiore non venne all'ospedale per tre giorni.
Poi arrivò alla solita ora, portava una benda nera sulla
manica dell'uniforme. Quando tornò, appese al muro c'erano
delle grandi. fotografie in cornice di lesioni di ogni genere,
prima e dopo la cura con le macchine. Davanti alla macchina
usata dal maggiore c'erano tre fotografie di mani come la sua
che erano completamente guarite. Non so dove il dottore fosse
andato a pescarle. Da quello che avevo sempre sentito dire,
noi eravamo i primi a usare quelle macchine. Le fotografie non
contarono granché per il maggiore, che ora si limitava
a guardar fuori dalla finestra.
***
Elenco dei racconti
La breve vita felice di Francis Macomber
La capitale del mondo
Le nevi del Kilimangiaro
Vecchio al ponte
Su nel Michigan
Sul molo di Smirne
Capitolo I
Campo indiano
Capitolo II
Il dottore e la moglie del dottore
Capitolo III
La fine di qualcosa
Capitolo IV
Tre giorni di vento
Capitolo V
Il lottatore
Capitolo VI
Una storia motto breve
Capitolo VII
Il ritorno del soldato
Capitolo VIII
Il rivoluzionario
Capitolo IX
Il signor Elliot e signora
Capitolo X
Gatto sotto la pioggia
Capitolo XI
Fuori stagione
Capitolo XII
Monti sotto la neve
Capitolo XIII
Il mio vecchio
Capitolo XIV
Grande fiume dai due cuori: Parte prima |
Capitols XV
Grande fiume dai due cuori: Parte seconda
L' envoi
L'invitto
In un altro paese
Colline come elefanti bianchi
I sicari
Che ti dice la patria?
Cinquanta bigliettoni
Una semplice domanda
Dieci indiani
Un canarino in dono
Un idillio alpino
Una gara a inseguimento
Oggi è venerdì
Storia banale
Insonnia
Dopo la tempesta
Un posto pulito, illuminato bene
La luce del mondo
Dio vi conservi allegri, miei signori
Metamorfosi marina
Come non sarai mai
La madre di una checca
Una lettrice scrive
Omaggio alla Svizzera
Un giorno di attesa
Una storia naturale dei defunti
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Il giocatore, la monaca e la radio
Padri e figli
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