Raymond Carver

 

 

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Sogni


Mia moglie ha l’abitudine di raccontarmi i suoi sogni quando si sveglia. Io le porto il caffè e un bicchiere di succo di frutta e mi siedo accanto al letto; intanto lei si sveglia e si scosta i capelli dalla faccia. Ha la solita espressione di quando ci si sveglia, ma anche lo sguardo di chi torna da qualche parte.
“Allora?”, le dico.
“Roba da matti”, dice lei. “Ho fatto un sogno proprio strano. Ho sognato che ero un ragazzo. Andavo a pesca con mia sorella e una sua amica, però ero ubriaco. Pensa un po’. Non ci si crede. Insomma, dovevo accompagnarle a pesca con la macchina, ma non riuscivo a trovare le chiavi. Poi, quando le trovavo, non mi partiva la macchina. Dopodiché, all’improvviso, eravamo già a pesca, su una barca in mezzo al lago. Stava arrivando un temporale, ma non riuscivo a far partire il
motore della barca. Mia sorella e la sua amica non facevano altro che ridere. Ma io avevo una gran paura. E poi mi sono svegliata. Non ti pare strano? Tu che ne dici?”
“Scrivilo”, le ho detto, alzando le spalle. Che altro potevo dire? Io non sogno nemmeno. Sono anni che non sogno più. Oppure sogno, ma non mi ricordo niente quando mi sveglio.
E certo non mi intendo di sogni – miei o di altri. Una volta Dotty mi ha detto di aver fatto un sogno subito prima che ci sposassimo in cui le sembrava di essersi messa ad abbaiare!
Si svegliò e vide Bingo, il suo cagnolino, seduto accanto al letto che la guardava in un modo che le parve molto strano. E così si ricordò che aveva abbaiato nel sogno. Chissà che voleva dire?, si chiedeva. “Era un brutto sogno”, disse. Lo aggiunse al suo libro dei sogni, ma la cosa finì lì. Non ci tornò sopra. Non cercava di interpretare i sogni. Si limitava a trascriverli e poi, quando ne faceva un altro, trascriveva anche quello.
Le ho detto: “Faccio un salto di sopra. Devo andare in bagno”.
“Fra poco mi alzo anch’io. Mi devo prima svegliare per bene. Voglio pensare un altro po’ a questo sogno”.
L’ho lasciata lì, seduta a letto, con la tazza in mano, ma senza ancora aver assaggiato il caffè. Se ne stava lì seduta a riflettere sul suo sogno.
In realtà non avevo più bisogno di andare al bagno e così mi sono preso un altro caffè, seduto al tavolo di cucina. Era agosto, faceva un gran caldo e le finestre erano spalancate. Caldo, sì, faceva proprio caldo. Un caldo boia. Mia moglie e io avevamo dormito giù nel seminterrato per la maggior parte del mese. Comunque, ce la cavavamo. Avevamo portato tutto, là sotto: materasso, cuscini, lenzuola. Avevamo anche un comodino, una lampada e il posacenere. C’eravamo fatti un sacco di risate. Era come ricominciare tutto da capo. Ma tenevamo tutte le finestre di sopra spalancate e anche le finestre dei vicini erano tutte aperte. Me ne stavo seduto al tavolo e ascoltavo Mary Rice, la nostra vicina. Era ancora presto, ma lei era già in piedi, in camicia da notte, nella sua cucina. Non faceva che canticchiare e io l’ascoltavo sorseggiando caffè. Poi in cucina sono arrivati i suoi bambini. Ed ecco che cosa gli ha detto:
“Buongiorno, ragazzi. Buongiorno, carissimi”.
Giuro. Così gli ha detto la madre. Poi si sono messi a tavola, ridevano non so perché e uno dei ragazzini sbatteva la sedia avanti e indietro e rideva come un matto.
“Adesso basta, Michael”, ha detto Mary Rice. “Su, finisci i cereali, tesoro”.
Poco dopo Mary Rice ha spedito i figli in camera loro a prepararsi per la scuola. Si è rimessa a canticchiare mentre lavava i piatti. Io ascoltavo e intanto pensavo: sono un uomo ricco. Ho una moglie che sogna tutte le notti, che se ne sta lì sdraiata accanto a me fino a che non si addormenta e poi se ne va lontano in qualche bel sogno tutte le notti. Certe volte sogna cavalli, oppure persone, o il sole e la pioggia, e certe volte cambia perfino sesso in sogno. Io non è che sentissi la mancanza dei sogni. Tanto avevo i suoi di sogni su cui riflettere, se proprio ne avevo bisogno. E poi avevo una vicina che cantava o canticchiava tutto il giorno. Tutto ommato, potevo ritenermi fortunato.

[...]

 

 

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