I film di Jim Jarmusch
COFFEE
AND CIGARETTES Lo sai adesso cosa ci vorrebbe? Un caffè. Esatto.
Scusa hai da accendere? Come no, lo sai che quando bevo caffè
una sigaretta non me la faccio mai mancare. Situazioni da bar. Due tazzine
di caffè, un posacenere e fumo di sigaretta. E’ l’ambiente
adatto per scambiare quattro parole nella buona e nella cattiva salute.
Il piacere della conversazione. Più tardi cominci, prima si raffredda,
il caffè e la conversazione. La visita dal dentista può
essere una buona scappatoia da un incontro non programmato. Il caffè
aiuta la digestione delle quattro parole da bar. Parlare e non capirsi.
Non trovare divertente quello che per l’altro è il massimo
del divertimento. La caffeina facilita il lavoro fisico e intellettuale.
Che lavoro fai? Ancora non lo so. Mi tremano le mani. Sarà colpa
di tutto quel caffè che bevi. Ma no, lui che c’entra. Io
devo andare. Lo vedo. Allora vado. Lo sto vedendo.
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GHOST
DOG Ghost Dog è un omaccione grande e grosso. A guardarlo non farebbe male a una mosca, invece è un killer infallibile e spietato, rispettato dai “fratelli”, amante dei libri, della musica rap e del gelato al cioccolato. Danza sul tetto del palazzo come un samurai un po’obeso. Non è di molte parole, il suo unico amico è un gelataio che parla solo francese. Nessuno capisce quello che dice l’altro, ma va bene lo stesso. Un tizio della mafia, Luie, gli ha salvato la vita e lui lo ricambia “risolvendo” i suoi problemi. I due hanno uno strano modo di comunicare: i piccioni viaggiatori. Un metodo complicato, ma efficace se non vuoi lasciare tracce. Quando però i capi cominciano a non fidarsi più chiedono a Luie di far fuori il suo killer. Errore. Mettersi contro Ghost dog non è una buona idea. E nemmeno farlo arrabbiare a morte ammazzandogli tutti i suoi amati piccioni è una buona idea. La vendetta sarà portata a termine fino alla fine. Ma il suo codice d’onore è implacabile. Degno del più duro dei samurai. La sua vita è nelle mani di chi lo ha salvato così anche se Luie lo ha tradito, alla fine si lascia uccidere. Non prima di aver regalato il suo libro sui samurai alla bambina che ha conosciuto nel parco, vicino al gelataio.
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DEAD
MAN Passano quasi dieci minuti prima di sentire le prime
parole. Depp è William Blake, omonimo del noto scrittore e poeta,
è in viaggio verso l’est, Machine, uno sperduto punto del
Far West. Deve raggiungere il suo nuovo posto di lavoro come contabile.
Arrivato nel paesino scopre che non c’è più nessun
lavoro per lui. Non ha più soldi, non può tornare indietro
e non sa più cosa fare. In un saloon conosce una ragazza, ma
proprio quando sta per concludere, nella stanza irrompe un tizio che
le spara. Per salvare il culo è costretto a farlo fuori, ma è
un grave errore. Quello era il figlio del suo principale, quello che
già lo aveva respinto in malo modo e ora certo non avrebbe usato
le buone maniere per vendicarsi. Iniziato alle maniere forti del West,
il novellino Blake, ferito e febbricitante, non può far altro
che fuggire nei boschi, sperando che non lo trovino. Su di lui c’è
una taglia e sulle sue tracce un cacciatore di taglie che si dice essere
anche cannibale. Sarebbe già un uomo morto se un indiano solitario,
rapito ed educato dai bianchi quand’era bambino e per questo rinnegato
dalla sua tribù, non lo avesse scambiato per il vero William
Blake, e non avesse deciso di proteggere il suo poeta preferito. L’indiano
che si fa chiamare Nessuno sarà il suo traghettatore verso la
morte. Lo accompagnerà e lo proteggerà a rischio della
sua vita, fino alla morte, liberando il suo spirito e lasciandolo alla
deriva, su una barchetta lungo il fiume, tra le allucinazioni dovute
alla febbre e le ferite, mentre tutti muoiono ammazzati… come
western comanda.
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TAXISTI
DI NOTTE – Los Angeles - New York - Parigi – Roma - Helsinki Film a episodi. Cinque taxisti, cinque città diverse, lo stesso mestiere. E non è che questo sia un gran film, roba che si dimentica in fretta come i personaggi che sembrano macchiette e i discorsi inutili su grandi temi come la diversità, il dolore, la solitudine, la cecità. Il tutto all’interno di un taxi. E alla fine tutto è ridotto al minimo, luoghi, atmosfere, personaggi, trama. E anche il film.
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MYSTERY TRAIN
– MARTEDI’ NOTTE A MEMPHIS Tre episodi ruotano attorno ad un alberghetto ad ore nella città del re del rock n’roll, Elvis. Se abiti a Yokohama, come i protagonisti del primo episodio, girare nei posti dove si è fatta la storia (quella di Elvis, naturalmente), potrà sembrarti un sogno o tutto il contrario. A sognare è la donna che trova la faccia di Elvis somigliante alla Statua della libertà, Madonna, al Budda ecc… l’uomo rimane un po’ freddo, più che per Elvis, stravede per Charlie Parker. Memphis secondo lui non è altro che Yokohama col 60 % di palazzi in meno. Ama fotografare quello di cui non si ricorderà tanto facilmente, come la camera d’albergo, e vuole a tutti i costi portarsi via gli asciugamani dell’albergo perché è quello che tutti gli americani fanno. Il fantasma di Elvis se va in giro per Memphis facendo l’autostop. E se sei un turista fortunato, magari capita che dai un passaggio in macchina proprio al Re. Più di uno ha tentato con questa storiella di scucire dei soldi ai forestieri più sprovveduti. Nel secondo episodio una italiana gira per Memphis e passa la notte in albergo con una ragazza che straparla . Nel terzo episodio un inglese lasciato dalla moglie (quella dell’episodio precedente) se ne va in giro armato, ma l’amico e il cognato non riescono a impedirgli di cacciarsi nei guai sparecchiando in un negozio di liquori. E, come se non bastasse, colpisce anche il cognato che scopre di non essere davvero suo cognato. Il minimalismo di Jarmusch, tra lunghi piani sequenza con la telecamera che segue i personaggi mentre camminano nelle strade deserte di Memphis per poi lasciarli. Tutti si trovano a passare la notte nello stesso albergo, dove lavorano un portiere in sgargiante completo rosso (Screamin’Jay Hawkins, famoso bluesman) e uno sfortunato facchino. Il marito abbandonato è Joe Strummer, leader dei Clash. L’italiana è Nicoletta Braschi, moglie di Benigni.
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DAUNBAILO'
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STRANGER
THAN PARADISE La cugina ungherese di Willie si ferma per qualche tempo a casa sua, solo pochi giorni, ma abbastanza per disturbare i suoi piani e quelli dell’amico truffatore. Tutto inizia come nel film As tears go by del regista di Hong Kog, Wong Kar Wai, ma qui è il minimalismo di Jarmusch a prendere il sopravvento. Scene brevi intervallate da stacchi neri, ambientazioni scarne e un bianco e nero più bianco che nero. Quando la ragazza si trasferisce a Cleveland dalla zia, i due, un po’ dispiaciuti per la sua partenza, decidono di andarla a trovare. Non è che la giovane ungherese se la passi un granché bene in quei posti freddi e desolati. E nemmeno noi, visto che il film è in lingua originale con i sottotitoli in bianco su uno sfondo altrettanto bianco. Così i tre decidono di andare in macchina nella più calda Florida, dove possono perdere tutto quello che hanno alle corse. E così i piano-sequenza si susseguono, affittano una stanza in un motel e per un insperato colpo di fortuna la ragazza viene in possesso di una bella somma di denaro, fregata ad un gangster. Decide di ripartire per l’Europa. I tre si dividono, ma quando lei ci ripensa, il cugino che voleva convincerla a restare, resta bloccato sull’aereo partito per Budapest, mentre lei torna al motel. E tutto scorre tra silenzi prolungati e discorsi che ci sfuggono per la nostra ignoranza dell’inglese. Come spesso accade nei suoi film i due protagonisti sono due musicisti.
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