Diciotto anni per un
sogno in bianco e nero...
intervista a Jim Jarmusch tratta da La Repubblica
Jim
Jarmusch ha appena terminato una sceneggiatura di cui non vuole rivelare
il contenuto ma segue con passione la promozione internazionale di "Coffe
and Cigarettes", il film ad episodi presentato all'ultimo Festival
di Venezia e uscito oggi in Italia. "Non se la prenda se non le
dico altro: sono supersitizioso", racconta nel suo ufficio ricavato
in un interrato del Lower East Side a cui ha dato il nome di Esoskeleton.
"Posso dirle solo che non si tratterà di un film ad episodi,
e che ho in mente un attore che amo molto".
Ammetterà che
come descrizione è molto vaga.
"Preferisco che sia così. Non amo i film descritti prima
che siano realizzati: si tratta di qualcosa di innaturale che causa
sempre delusione".
Parliamo di "Coffe
and Cigarettes": come nasce l'idea di un film ad episodi?
"Per puro caso. Nel 1986 ho ricevuto una telefonata da parte di
John Head, uno dei produttori del "Saturday Night Life", il
quale mi chiese di dirigere un corto di cinque minuti da inserire nel
programma. Le uniche condizioni erano che doveva durare cinque minuti
e doveva essere divertente. L'accordo prevedeva il loro finanziamento
in cambio del diritto di messa in onda".
Sembrano condizioni molto
allettanti, per di più da parte di una trasmissione di culto.
"Sì, ma non le ho ancora detto che mi diedero due settimane
di tempo dal momento della telefonata".
E lei cosa ha fatto?
"Ho approfittato del fatto che Roberto Benigni stava arrivando
in città ed ho organizzato insieme a lui e a Steven Wright quello
che è diventato il primo episodio del film. Siamo arrivati sul
set con una sceneggiatura che è stata ampiamente reinventata.
Dopo che l'episodio fu trasmesso ebbi l'idea di girare altri brevi film
con un'ambientazione simile. Da allora il progetto si è sviluppato
per quasi diciotto anni: alcuni film risalgono a quel periodo iniziale,
ma la maggioranza li ho girati pochi mesi fa".
Il cast farebbe invidia a grandi film: oltre a Benigni c'è Bill
Murray, Alfred Molina, Cate Blanchett nel ruolo di due cugine estremamente
diverse, per non parlare di Tom Waits ed Iggy Pop.
"Ho voluto mettere insieme artisti con cui avevo piacere di lavorare
e con cui potevo realizzare qualcosa di personale e creativo".
Che spazio ha lasciato
all'improvvisazione?
"Dipende dagli episodi. Ce ne sono alcuni che sono rimasti quasi
identici alla sceneggiatura, ed altri, come quello di Tom Waits, dove
molte battute sono state inventate sul set. Anche Cate Blanchett ha
dato un forte contributo creativo, ma il fatto di dover recitare nella
stessa scena due personaggi che non potevano sovrapporre la propria
voce ha limitato in parte la possibilità di improvvisazione".
La macchina da presa
è quasi sempre immobile.
"Molte inquadrature sono identiche, come ad esempio l'inquadratura
dall'alto sul caffè. Ed è identico lo schema registico
dei diversi episodi. All'inizio la semplicità era dettata anche
dal poco tempo a disposizione, ma già dal secondo episodio è
diventato una caratteristica espressiva. Forse anche uno stile".
Perché anche questo
film è girato in bianco e nero?
"C'è una qualità luminosa del bianco e nero che mi
ha sempre affascinato ed è per questo che lo ho scelto per molti
dei miei film. E mi affascina l'idea di comunicare una misura più
limitata di informazioni ed una percezione differente della realtà".
Nel suo film compaiono
degli afro-americani, degli italo-americani e dei bianchi non caratterizzati
riguardo alla loro etnia. Come mai in un film così newyorkese
mancano i latini o gli orientali?
"È solo un caso, del quale mi sono accorto alla fine delle
riprese. Ora vorrei girare degli episodi con degli indiani, e, perché
no, anche con dei pellerossa. Io penso che il carattere newyorkese di
"Coffee and cigarettes" accentui l'universalità del
progetto. In realtà potrebbe essere ambientato dovunque: a Roma
come a Pechino, o anche a Kabul".
Emerge anche molta solitudine...
"Non lo nego, ma non è voluta. Almeno non coscientemente.
Posso dirle che la solitudine è un elemento costante della vita".
L'episodio ambientato
a Los Angeles, che vede protagonisti due attori, comunica un senso di
vuoto e cinismo che manca nelle altre storie. "Mi
interessava dare un senso di distacco e incomunicabilità, tipico
di certi ambienti hollywoodiani. Ma devo rivelarle che l'episodio è
stato girato nell'area di Williamsburg a Brooklyn".
In questi ultimi anni
è venuta alla ribalta una generazione di nuovi registi che stanno
cambiando il cinema americano.
"Li seguo con grande interesse e passione: penso ai Spike Jonze,
ai due Anderson, a Sofia Coppola, e anche a registi più estremi
come Harmony Korine e Vincent Gallo. Io sono stato tra i pochi a cui
è piaciuto per esempio "Brown Bunny", il film di Gallo
massacrato a Cannes: apprezzo sempre quando un regista tenta qualcosa
di diverso e arrischiato. Molti tra i registi più interessanti
sono anche avventurosi".
Ci sono dei registi non
americani a cui riconosce queste caratteristiche?
"Le rispondo dicendo che mi sento vicino a Emir Kusturica, Aki
Kaurismaki, Claire Denis e Wong Kar-Wai. Al di là della differenza
di stile e di temi sento nei loro film un grande amore per le potenzialità
espressive del cinema".
Oggi è in corso
un grande ripensamento sul cosiddetto fenomeno degli indipendenti.
"Si tratta di un ripensamento legittimo: l'aggettivo indipendente
sta diventando un marchio come tanti, svuotato spesso di contenuti e
di idee".
Come sta cambiando il
cinema americano?
"È sempre più difficile imporre un cinema personale.
Ci sono ovviamente le eccezioni, ma il regista e lo scrittore devono
confrontarsi con "gruppi creativi", se non addirittura consigli
di amministrazione, che controllano la strada presa dal progetto alla
luce delle ricerche di mercato. Inoltre gli studios oggi controllano
anche le sale cinematografiche, cosa che fino al tempo di Reagan era
fuorilegge".
È possibile essere
un autore nell'America di oggi?
"Contesto la concezione "autoriale" del cinema:
vede, un film è sempre una esperienza collettiva, che spesso
produce il meglio proprio grazie alla collaborazione di diversi talenti.
Personalmente ritengo che siamo tutti degli artigiani, che a volte riusciamo
a raggiungere l'arte".
Di Antonio Monda (12 marzo 2004)
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