D I R I T T I

REFERENDUM SOCIALI

FIRMA I

licenziati

inquinati

privatizzati

per il lavoro

per l’ambiente

per la scuola

A C U R A D E L GRUPPO DI LAVORO REFERENDUM DEL PA R T I TO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA

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APPROFONDIMENTI E SCHEDE

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APPROFONDIMENTI E SCHEDE

Come nasce lo Statuto dei lavoratori

L’idea di uno statuto dei lavoratori viene proposta la prima volta da Giuseppe Di Vittorio durante il

terzo congresso della CGIL nel 1952. Sono gli “anni duri”, quelli della repressione antisindacale in

fabbrica, dei licenziamenti per rappresaglia e dei reparti confino.

L’idea viene riproposta quindici anni più tardi dal ministro del lavoro Giacomo Brodolini, che tuttavia

muore pochi mesi più tardi. Il disegno di legge viene portato avanti dal nuovo ministro del lavoro Carlo

Donat Cattin, sotto la direzione dei lavori di Gino Giugni. La legge viene approvata dalla maggioranza

dal Parlamento nel maggio del 1970. Il PCI si astiene dalla votazione, perché pur riconoscendo questo

come un primo passo verso una legislazione che garantisca le libertà costituzionali nei luoghi di lavoro,

ne lamenta i limiti, primo tra tutti l’esclusione delle garanzie previste dalla legge per i lavoratori di

imprese con meno di quindici dipendenti.

Il contesto: l’autunno caldo

Lo statuto dei lavoratori è il risultato degli anni di grande fermento sociale e civile che vanno sotto il

nome di autunno caldo.

Sono gli anni della centralità operaia e della contestazione giovanile, gli anni dei grandi conflitti industriali

nelle fabbriche del nord, gli anni della partecipazione, della spontaneità e della radicalità. Le lotte hanno

come principale protagonista l’operaio massa, il lavoratore dequalificato impiegato nella produzione

taylor-fordista, spesso immigrato dal sud, la cui rabbia e il cui disagio sociale si incontra con

l’avanguardia operaia che ha resistito agli anni ’50, grazie a una travagliata rielaborazione politica e alla

capacità di proporre un coraggioso dibattito interno.

Sono gli anni dell’unità sindacale. Il primo maggio del 1970, per la prima volta dal 1948, le tre

confederazioni celebrano insieme la festa dei lavoratori e preparano, dopo decenni di aspri conflitti, il

processo che nel 1972 porterà all’unificazione organizzativa.

Sono gli anni dei consigli di fabbrica. La struttura sindacale vive in questi anni un processo di profonda

trasformazione da cui nascono forme dirette di rappresentanza, ereditate dall’esperienza dell’Ordine

Nuovo e ispirate alla democrazia di base e alla centralità dell’assemblea nel processo decisionale.

Il valore dell’articolo 18

La Statuto dei lavoratori garantisce il rispetto delle libertà costituzionali in fabbrica, promovendo e

sostenendo la piena cittadinanza del sindacato nei luoghi di lavoro.

L’articolo 18 integra la disciplina prevista dalla legge 604 del 1966 in materia di licenziamento individuale.

Esso prevede che il giudice, rilevando l’inefficacia di un licenziamento perché privo di giusta causa o

giustificato motivo possa ordinare al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.

Il valore principale dell’articolo 18 è nella sua funzione di deterrente rispetto all’utilizzo disinvolto della

procedura di licenziamento individuale da parte dei datori di lavoro. Anche se in Italia il numero dei

licenziamenti individuali impugnati e conclusi con sentenza di accoglimento attraverso la reintegra è

relativamente scarso, è evidente che l’abolizione dell’articolo 18, esporrebbe i lavoratori alla privazione

delle tutele fondamentali e alla minaccia alla dignità personale.

La tutela in materia di licenziamento rappresenta un principio di emancipazione e un valore decisivo

articolo 18

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APPROFONDIMENTI E SCHEDE

che riguarda la libertà e la dignità della persona. Esso regola i rapporti di potere all’interno dell’impresa

e ristabilisce in parte lo squilibrio tra lavoratori e datori di lavoro. A fronte di presunti benefici

sull’occupazione - mai seriamente dimostrati né dall’evidenza statistica né dalla dottrina economica -

con l’abolizione dell’articolo 18 il lavoratore tornerebbe solo e in posizione di accentuata debolezza di

fronte al datore di lavoro.

Il confronto con il resto d’Europa

La tutela prevista dall’articolo 18 attraverso il meccanismo della reintegra non è affatto una anomalia

italiana. Nonostante nella maggioranza dei paesi europei a fronte del licenziamento ingiustificato viga la

prassi del risarcimento, l’istituto della reintegra come questione di principio è previsto quasi ovunque.

PROCEDURA PAESE

ENTITA’

DELL’INDENNIZZO SOGLIA

Svezia

Sono escluse le

imprese di

piccolissime

dimensioni

Da 16 a 48 mensilità Dopo un iniziale tentativo di conciliazione

effettuato direttamente tra le parti, il

procedimento è rinviato al giudice che

può ordinare la reintegra.

Il datore può rifiutarla, ma è obbligato a

pagare un’indennità molto alta.

Norvegia

È commisurato a una serie

di parametri soggettivi e

contestuali

L’ordinamento prevede la reintegra, ma il

giudice può decidere che sussistono

motivi tali da rendere il proseguimento

del rapporto di lavoro “chiaramente

irragionevole”. In tal caso è previsto il

risarcimento.

Germania

Sono escluse le

imprese con meno

di 5 dipendenti.

Vale solo per

lavoratori con

almeno 6 mensilità

di servizio

50% dell’ultima retribuzione

in base agli anni di servizio,

fino a un massimo di 12 anni

(18 se l’anzianità è superiore

ai 20 anni)

Il consiglio di azienda (Betriebsrat) deve

essere preventivamente informato del

licenziamento e deve giudicarne la

validità. Senza preventiva consultazione,

il licenziamento è automaticamente nullo.

Nel caso in cui il licenziamento sia

considerato giustificato, il lavoratore può

comunque presentarsi al giudice, ma

avrà meno possibilità di successo.

Il giudice può ordinare la reintegra, ma

nella maggioranza dei casi prevale il

risarcimento.

Portogallo Minimo tre mensilità Il lavoratore può scegliere tra reintegra e

indennizzo.

Grecia Il lavoratore può scegliere tra reintegra e

indennizzo.

PROCEDURA PAESE

ENTITA’

DELL’INDENNIZZO SOGLIA

Regno

Unito

Nessun limite

dimensionale.

1 anno di servizio

In media 50.000 sterline

(160.000.000 di lire)

Il giudice può ordinare la reintegra, la

riassunzione in un posto con

caratteristiche simili a quello perso o il

pagamento di una indennità.

Francia 10 dipendenti In media 15-18 mensilità

Se il vizio riguarda la procedura, l’organo

che deve giudicare è il Conseil de

Proud’hommes che può prevedere una

penale e un risarcimento.

Se il vizio riguarda la causa, il giudice

può ordinare la reintegra o un

risarcimento.

Belgio Non meno di 6 mensilità, a

seconda che il dipendente

sia operaio o impiegato.

Non esiste alcun diritto di reintegra, ma

solo un indennizzo.

Danimarca Massimo 12 mensilità Il reintegro non è escluso, ma è assai

raro.

Finlandia Massimo 24 mensilità e

interventi di formazione

professionale

Il reintegro non è escluso, ma è assai

raro.

Spagna Dipende dal fatto che le cause

del licenziamento siano

oggettive o soggettive. Nel

primo caso si tratta di 33 giorni

di retribuzione per ogni anno di

servizio fino a 24 mensilità. Nel

secondo di 45 giorni per un

massimo di 42 mensilità.

Di fronte al riconoscimento del carattere

ingiustificato da parte del giudice, il

datore può comunque scegliere tra il

reintegro e l’indennizzo.

Olanda

Il giudice può ordinare la reintegra, ma il

datore di lavoro può decidere comunque

per l’indennizzo.

Importante è il ruolo degli Uffici regionali

del lavoro, da cui dipende

l’autorizzazione di un licenziamento

dubbiamente motivato.

Anche se accade raramente, il

licenziamento che venga autorizzato, può

comunque essere contestato dal

lavoratore. Se il giudice accoglie la

richiesta, il datore deve pagare un

indennizzo ancora maggiore.

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APPROFONDIMENTI E SCHEDE

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APPROFONDIMENTI E SCHEDE

articolo 35

Estensione dell’articolo 35 alle imprese con meno di 15 dipendenti

L’art. 35 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) stabilisce il limite dimensionale entro il quale il

datore di lavoro, tra gli altri, è tenuto a riconoscere ai propri dipendenti il diritto di costituire

rappresentanze sindacali aziendali, il diritto di assemblea, il diritto ad usufruire di permessi retribuiti, il

diritto di affissione, nonché le procedure da osservare in caso di trasferimento del rappresentante

sindacale.

La norma sancisce l’applicabilità del titolo III della legge 300/70 (che è appunto quella parte dello Statuto

dei Lavoratori che disciplina i diritti e le tutele sopra indicati) a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio

o reparto autonomo di impresa industriale e/o commerciale nella quale siano occupati più di 15

dipendenti; ugualmente si applica alle imprese industriali o commerciali che nell’ambito dello stesso

comune occupano più di 15 dipendenti.

E’ evidente che l’abolizione del limite dimensionale consente che la norma possa essere applicata in

qualsivoglia realtà industriale o commerciale consentendo così l’effettivo esercizio dei diritti e delle

tutele sindacali anche nelle realtà lavorative di dimensioni più ridotte.

E’ fin troppo noto infatti che attualmente proprio in tali realtà i lavoratori vivono in condizioni di

soggezione psicologica rispetto al datore di lavoro per la mancanza di rappresentanze sindacali

aziendali, per l’impossibilità di esercitare diritti quale quello di assemblea o di affissione, ma è altrettanto

noto che ormai tali realtà sono quelle più numerose

Imprese con meno di 15 dipendenti sono numerosissime nel Nord Est e nel Mezzogiorno d’Italia, dove,

non a caso, e per ragioni diverse si vivono le peggiori condizioni di lavoro: il sindacato è meno presente

ed il sommerso è la regola; ma ormai il fenomeno è sempre più diffuso anche nelle grandi aree

industriali grazie ai processi di esternalizzazione favoriti dalla legislazione premiale sviluppatasi negli

ultimi anni.

E’ per questo motivo che, oltre a chiedere l’applicabilità dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori a tutti,

è necessario estendere l’art. 35 a qualsiasi luogo di lavoro, quale che sia la dimensione, per rendere

esigibile l’esercizio dei diritti sindacali da parte di tantissimi lavoratori ancora invisibili.

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APPROFONDIMENTI E SCHEDE

scuola pubblica

“…Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri

per lo Stato…”

La legge di parità, aggirando il dettato costituzionale del “senza oneri per lo Stato” inserisce le scuole

paritarie nel sistema scolastico nazionale prevedendo per questi istituti l’erogazione di finanziamenti

pubblici.

La politica di sostegno alle scuole private non si limita soltanto al finanziamento pubblico, ma arriva

anche a modificare lo status giuridico degli insegnanti. Infatti, grazie a questa legge, le scuole paritarie

possono utilizzare il 25% del loro personale gratuitamente, tramite il volontariato o i contratti di

prestazioni d’opera.

Nonostante il forte incremento di contributi pubblici (nel 2001 oltre 300 miliardi, il Governo Berlusconi

ha stanziato altri 1000 miliardi per il 2002) le scuole private registrano una continua diminuzione di

studenti (35% in meno nel quinquennio 1997-2001). Forte è il decremento nella scuola media e superiore

(-36,2% e -39,4%) più attenuato invece è il decremento relativo alla scuola dell’infanzia (-4,8%).

Le condizioni di degrado ed insufficienza delle strutture scolastiche pubbliche (palestre, mense,

laboratori, edifici), soprattutto nel sud, ma non solo, sono particolarmente gravi e richiedono consistenti

interventi finanziari da parte dello Stato, tenuto conto che l’Italia è fanalino di coda tra i paesi europei

per gli investimenti per l’istruzione. Le spese nel settore hanno subito un vero tracollo negli ultimi anni,

compresi i governi di centro-sinistra, passando dal 13,6% di spesa a poco più del 5%.

La legge di parità quindi come madre di tutte le controriforme intervenute nella legislazione scolastica.

Sia chiaro una legge di parità non è di per sé

incostituzionale, al contrario, essa potrebbe mettere ordine

nel mucchio selvaggio dei diplomifici, che contribuiscono

alla svalutazione del valore legale dei titoli di studio,

riconoscendo la parità degli esiti e non la parità delle

finalità o delle funzioni.

La legge di parità attribuisce l’istruzione pubblica al privato,

stravolgendo quanto previsto dal dettato costituzionale per

il quale le scuole pubbliche sono necessarie in quanto

strutture istituzionalmente previste per la realizzazione dello

sviluppo culturale e democratico del paese, e come tali

aperte a tutti e caratterizzate dalla libertà di insegnamento;

mentre le scuole private non sono necessarie, in quanto

espressione di esigenze private, di tendenze, ma possono

essere istituite con piena libertà aggiungendosi (non

facendo parte) al sistema pubblico come possibile scelta

alternativa e senza comportare spese a carico del bilancio

pubblico.

Il referendum conserva il carattere di parità previsto dal III

Comma dell’art.33 della Costituzione.

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APPROFONDIMENTI E SCHEDE

scuola pubblica

ACCESSO ALLA SCUOLA

SCUOLA PUBBLICA

Tutti possono accedere alla scuola pubblica senza limitazione alcuna

SCUOLA PRIVATA

L’iscrizione è subordinata all’accettazione dello specifico progetto educativo e della tendenza che

caratterizza ogni singola scuola

QUALIFICAZIONE DEL PERSONALE DOCENTE

SCUOLA PUBBLICA

L’assunzione richiede il possesso del titolo di studio prescritto per lo specifico insegnamento e la

relativa abilitazione

SCUOLA PRIVATA

Si richiede una “idonea” qualificazione professionale, quindi si può prescindere dai requisiti richiesti per

l’insegnamento nelle scuole pubbliche. In misura non superiore al 25% complessivo del personale le

scuole private possono avvalersi di prestazioni volontarie di personale docente.

RECLUTAMENTO PERSONALE DOCENTE

SCUOLA PUBBLICA

Le assunzioni sono disposte sulla base di concorsi pubblici ai quali tutti possono partecipare

SCUOLA PRIVATA

Le assunzioni sono disposte per scelta da parte dei gestori subordinatamente all’accettazione

dell’identità culturale dell’istituzione. Il reclutamento è quindi palesemente discriminatorio.

LIBERTA’ DI INSEGNAMENTO

SCUOLA PUBBLICA

Nella scuola pubblica è garanzia di pluralismo e quindi anche come rispetto dei diritti degli studenti,

rappresenta il connotato essenziale e caratterizzante dell’istituzione

SCUOLA PRIVATA

La libertà di insegnamento è subordinata alla libertà di istituire scuole di tendenza, il personale docente

deve rispettare l’identità culturale della scuola, la libertà di insegnamento non può quindi configgere con

le finalità educative del gestore della scuola, cioè con la tendenza confessionale e/o ideologica di quella

scuola.

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APPROFONDIMENTI E SCHEDE

elettrodotto coattivo

No all’inquinamento da elettrosmog

Il principio di cautela afferma: “occorre usare con prudenza e cautela quelle tecnologie che non risultano

sicuramente innocue, superando il criterio corrente per il quale va ammesso l’utilizzo di processi e prodotti

finché non sia dimostrata la loro nocività.”

Quindi, una moderna legislazione di tutela sanitaria e ambientale inverte l’onere della prova. A questa

impostazione, in linea con la più avveduta ricerca in campo scientifico, sia sperimentale che epidemiologica,

si oppone la difesa di interessi delle imprese, quelle delle società elettriche e delle telecomunicazioni, e

delle lobbies che, in associazioni a loro collegate, ne difendono gli interessi.

Il problema nasce per i cosiddetti effetti a lungo termine derivanti da esposizioni prolungate anche a basse

dosi. Tali effetti non sono ovviamente deterministici (ovvero non c’è rapporto automatico di causa ed effetto

per ogni soggetto esposto) ma sono, comunque, rilevati dalle indagini epidemiologiche sulle popolazioni

esposte anche a valori molto bassi.

Per le basse frequenze (elettrodotti), che sono tecnologie usate da più anni, l’indagine epidemiologica ha

dimostrato un aumento di patologie anche gravi, quali la leucemia infantile, anche a esposizioni centinaia

di volte inferiori a quelle individuate per la protezione dai cosiddetti effetti acuti. Tali effetti nocivi sono

evidenziati dalle indagini più recenti anche dalle nuove tecnologie legate alle alte frequenze (ripetitori,

t ra s m e t t i tori, ecc.). La legge quadro sull’elettrosmog (n.36 del fe b b raio 2001), pr e v e d e v a

che entro 60 giorni dalla sua pubblicazione dovessero essere varati i decreti attuativi della medesima, in

particolare in relazione all’individuazione dei limiti di esposizione (limiti da non superare in qualsiasi

condizione espositiva, ovvero limiti per i cosiddetti effetti acuti), dei valori di attenzione (ovvero limiti da

non superare ovunque la popolazione risiede, ovvero limiti per la protezione dai possibili effetti a lungo

termine) e degli obiettivi di qualità (valori per la minimizzazione delle esposizioni, quindi limiti per i nuovi

impianti e per il risanamento degli impianti dove si superano i valori di attenzione). Tali decreti dovevano,

quindi, essere emanati entro aprile del 2001. I testi erano già predisposti e prevedevano per gli elettrodotti

il valore di attenzione di 0,5 micro tesla e l’obiettivo di qualità di 0,2 micro tesla (valore 500 volte inferiori

a quelli vigenti oggi di 100 micro tesla); per le alte frequenze (ripetitori per telefonia e impianti di

trasmissione radio tv) si prevedeva l’obiettivo di qualità di 3 volt metro (la metà di quelli oggi in vigore).

Il governo di centro sinistra, pur avendone tutti i tempi, non varò i decreti, tradendo così le attese delle

associazioni e dei comitati.

Ora il governo delle destre fa la sua parte (sporca, ovviamente) e annuncia di voler ritardare ancora il varo

dei decreti attuativi della legge e sullo sfondo delle dichiarazioni dei vari ministri si annuncia la volontà di

varare decreti con limiti più alti di quelli già concordati tanto per non dare alcun fastidio a quel mondo

delle imprese assunto come ordinatore della società nel suo complesso.

Il referendum serve a dare uno strumento operativo per battere questa voglia di restaurazione che il governo

delle destre intende perseguire. Il problema che viene posto è quello della cosiddetta servitù di elettrodotto,

ovvero l’esproprio coattivo dei terreni per fare passare gli elettrodotti.

Attraverso l’abrogazione di questa norma da un lato si da uno strumento concreto di battaglia ai comitati

che si battono contro la costruzione di nuove linee che non rispettano criteri di tutela ambientale o che

passano vicino alle abitazioni, determinando un danno alla salute, dall’altro si da uno scossone contro la

pretesa del governo e delle lobbies di affossare la legge sull’elettrosmog approvata nel 2001.

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APPROFONDIMENTI E SCHEDE

sicurezza alimentare

Una sana alimentazione per la qualità della vita

Nessuno può sottovalutare l’importanza di una sana alimentazione nel determinare la qualità della vita

d’ognuno di noi. Gli scandali delle epidemie della “mucca pazza”, dei “polli alla diossina”, degli

inquinamenti da sementi modificati geneticamente o semplicemente del degrado sempre maggiore del

nostro pianeta (basti pensare alle falde acquifere) hanno aperto gli occhi a tutti. La produzione

industriale, con l’utilizzo massiccio di elementi chimici nocivi alla salute dell’uomo e nocivi per

l’ecosistema, e funzionali agli interessi delle grandi industrie, è ormai addirittura controproducente in

termini di qualità della vita.

Sempre più si riscoprono metodi di produzione agroalimentare che, riprendendo tecniche e tecnologia

antiche, vengono riattualizzati con l’enorme sviluppo delle conoscenze e strumentazioni scientifiche, e

che si dimostrano non solo più eco-compatibili e sicuri per chi lavora la terra - che finora paga più

duramente questo modo di produrre - ma anche più sani per chi ne consuma i prodotti e, questo è

fondamentale, rispettosi delle culture e delle necessità produttive del Sud del mondo. E che inoltre

sono sempre più competitivi.

Convinti che la Terra e tutte le forme di vita che

l’abitano vadano pr e s e rvate come patrimonio

collettivo dell’umanità, che la salute d’ogni singolo

è un bene pubblico, che dipende dalla qualità della

vita complessiva di una società, vogliamo abrogare

la parte della legge (risalente al 1934) che permette

al Ministero della Sanità di fissare i limiti di

tolleranza dei residui industriali nel cibo, vietando

che ci siano e basta, come del resto la legge

prevede poi, contraddicendosi. La cosa veramente

paradossale è che il ministro della Sanità può oggi

fissare il limite di residuo per ogni singola sostanza

nei prodotti alimentari, ma non fissa il numero di

prodotti inquinanti che possono essere presenti

negli alimenti. Così mangiando un frutto possiamo

arrivare a mangiare decine di sostanze tossiche.

Ognuna però rispetta il limite di tolleranza!!!

Questa è anche una battaglia di democrazia, dato

che oggi i prodotti biologici sono sicuramente non

accessibili ai più, visti i costi. Vogliamo invece che

tutti possano mangiare prodotti naturali.

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APPROFONDIMENTI E SCHEDE

rifiuti

No agli incentivi per l’incenerimento dei rifiuti

Con questo referendum, si pone un problema emblematico del modo distorto con il quale la questione

dei rifiuti viene affrontata.

Il problema posto è quello degli inceneritori con i quali si intendono bruciare rifiuti solidi urbani.

Si vogliono abrogare norme che consentono di incentivare con premi in denaro la costruzione di

inceneritori che producono diossina (che è un prodotto cancerogeno) e, quindi, hanno una ricaduta

grave sia per l’ambiente che per la salute.

Anche in questo caso, il principio di cautelativo viene violato e si determinano danni molto forti sia

all’ambiente che alla salute delle popolazioni, come dimostrano molte indagini epidemiologiche

effettuate.

Si sottopongono a referendum, quindi, anche le procedure semplificate di autorizzazione esistenti e che,

spesso, coprono fatti gravissimi. Anche la norma che parifica il combustibile prodotto dai rifiuti (il

cosiddetto cdr) a rifiuto speciale, semplificandone così le procedure di autorizzazione e di controllo, fa

parte della medesima logica e, pertanto, va abolita.

Con il referendum si pone, quindi, un problema prioritario di salvaguardia ambientale e sanitaria ma,

nel contempo, si pongono anche questioni più generali e che riguardano la lotta all’inquinamento.

Si dice, infatti, che con gli inceneritori si supera il problema delle discariche a cielo aperto e, quindi,

si diminuisce l’inquinamento complessivo.

Non è vero: con gli inceneritori, rimane il problema dello smaltimento dei residui dell’incenerimento e,

aumenta l’inquinamento complessivo del territorio, in primo luogo, a causa delle diossine che,

comunque, si producono attraverso l’incenerimento e, inoltre, a causa dell’insieme degli impatti che si

determinano nel territorio (per esempio, a causa dell’enorme aumento del traffico dei camion che

trasportano rifiuti da bruciare e che, spesso, debbono venire da province distanti).

Ma c’è, anche, una questione più di fondo.

L’Italia è agli ultimi posti in Europa per il riciclaggio dei rifiuti. Gli stessi obiettivi posti dal decreto

legislativo 22 del 1997 (il cosiddetto decreto Ronchi) che prevedono obiettivi da realizzare di riciclo e

riuso sono lontanissimi dall’essere raggiunti.

Il problema degli inceneritori, oltre all’inquinamento che producono, è che per la convenienza economica

dell’investimento, essi richiedono la produzione di sempre più rifiuti da bruciare. Si crea, quindi, una

contraddizione stridente tra ciò che si afferma nella legge (e si propaganda nei convegni) e quello che

si fa nel territorio. Il governo delle destre ha l’obiettivo di estendere al massimo il ricorso agli

inceneritori: un grande business per le imprese che godono di incentivi per inquinare e una ferita aperta

per il territorio e le popolazioni residenti, al tempo stesso, una contraddizione stridente con quanto

richiederebbe una nuova politica del ciclo dei rifiuti che deve puntare sulla riduzione alla fonte della

produzione dei rifiuti medesimi, del loro riciclo e il loro riutilizzo.