Decisamente il paese non è sabinese. Nell'attuale provincia di Rieti conclude ancora dal 1927 l'Abruzzo prima del Reatino. Posto all'inizio della Media Valle del Velino come opportuna retroguardia, lascia a Cittaducale e a Santa Rufina, alle colline di Castelfranco e di Cantalice, e ai versanti di Poggio Bustone il compito di far affacciare le propaggini d'Abruzzo sulla conca reatina tanto quanto basti per contrastare o completare una diversa tradizione locale che il Varano, negli anni '20, ha già definito di esclusiva fede cristiana e di canti d'amore. Sotto il monte Giano e ai piedi di alte e ripide montagne e coste, Antrodoco allunga le sue braccia fino a Sigillo e Posta nell'Alta Valle del Velino, e a Borbona nella valle del Ratto, e fino a Sella di Corno verso l'Aquila. L'uso di ungere le scottature con olio e sale sbattuto, la sacra leggenda intitolata La benedizione delle pietre, la fiaba Petremosella sono i pochi brani che il De Nino raccoglie ad Antrodoco fra il 1883 e il 1891. Non abbozzano alcun quadro folkloristico. Lasciano scoperti come è la loro funzione i legami locali al vasto patrimonio d'usi e costumi abruzzese. Per lo stesso periodo sono invece le pur scarse memorie di archeologia leggendaria, raccolte ugualmente dal De Nino, che dispiegano una sicura aura popolare, animata convenientemente da personaggi o eroi paesani. Innanzitutto i tre potenti o prepotenti Gran Cani, che dai loro alti rifugi di monte Giano, monte Terminillo e di Casetta Ranieri, scorazzano e depredano con disinvoltura da Antrodoco a Cittaducale in un tristo periodo che è " prima della venuta del Padre Eterno". Poi, risalendo l'Alta Valle del Velino, il colossale Sansone, altro abitatore, prima di Sigillo, di cime. Artefice dell'antica via romana Salaria, ha l'abitudine di dissetarsi alle acque del Velino, divaricando le gambe dall'una all'altra riva. Infine, il Velino stesso che lambisce Antrodoco: non trarrebbe il proprio nome perché effettivamente velenoso, come dimostrano le piene disastrose che ricorrenti, arrivano a portarsi via terre e casali e parte del paese stesso. Per di più nel secolo XIX non è casuale che, ai piedi del monte Giano dove non tramonta mai la luce, nell'umida ombra che invece rimane fino al tardo mattino anche la rocca alta del paese riproponga inavvertitamente, proprio con le sue rovine, una inquietudine sottile come ad un crocevia. Nel 1844 il Lear, che pure ha già visitato Antrodoco, provenendo da Rieti, così non può fare a meno di registrare il suo moto d'animo " All'Ave Maria raggiunsi Borghetto |Borgovelino| e, dopo mezz'ora, Antrodoco. La rupe sopra la città sembrava più alta e tremenda che mai nella livida luce della sera; nessuna apertura tra le terribili pareti, strapiombanti da ogni lato. Ebbi l'impressione di essere entrato in un luogo senza uscita, tra le fauci di montagne, che non concedevano scampo. Il Velino si drizzava sopra la sua bianca distesa di pietre; il ponte e le strade strette, la piazza vecchia e grigia, le donne coperte da mantelli blu che svolazzavano dappertutto [...] Negli anni 1950 la raccolta etnomusicologica del Centro Nazionale Studi di Musica Popolare,attuata da Clara Regnoni, dà una modesta conoscenza delle tradizioni cantate antrodocane. Un primo quadro complessivo della letteratura popolare di Antrodoco può dare invece la Rubini, che l'assegna peraltro decisamente all'arca Sabina.Contando sul generoso apporto di ben settanta informatori, la Rubini dà conto di lezioni di poesia popolare perduranti in loco e - operazione nuova per siffatte inchieste dal vivo di questi anni - fornisce venti testi di tradizionali orali non cantate fra fiabe e scherzi e aneddoti. Tra i testi orali non cantati è una versione della nota novella abruzzese Lu cunde de la brutta saracina. Non basterebbe da Antrodoco salire verso l'Aquila e, superato appena il monte Nuria, legare questa versione a quella, de I tre cocommari di Torano nel Cicolano, raccolta più tardi, nel 1970, dal Sarego, per rintracciare il filo che dai tempi passati ha tenuto legato Antrodoco a Montenerodomo del Finamore? Come a dire: al tenero cuore d'Abruzzo? Ecco la versione raccolta dalla Rubini (1958/1959): C'era `na `ota u' fiju du rre che cerchéa mòje. Se misse in giro e non li piacéa nisciuna. `Ncùntra `na vecchia e li `étte tre melarance e li `isse: "Quanno ne rapri una, esce `na giovinotta, e li déi buttà l'acqua in faccia, se nò se ne va" Cammina cammina e la fece subbito la prova, ma non tenéa l'acqua e la giovane se ne va. E coscì fece pé'la seconda. La terza l'apre vicino a`na fonte li butta l'acqua `faccia e la giovane rimane. Annò a pijà la carrozza, e la giovane se ne sale sopra a `na fondana. Arriva `na brutta mora e pija l'acqua e se specchia alla fonte: La padrona mia dice che sò tanto brutta, invece sò tanto bella pé' dispetto vòjo rompe la brocchella. Dopo varda in su e vidde la bella giovine, li `isse: "Che sta a fane: Cala jò". E quella poaritta li racconté la storia. Allora la brutta mora pijé `na spilla e jé la fece `nzeccà `ntesta: la bella diventà u' piccione. La mora se misse allu pòstu della bella. Va lu rre, la guarda la vidde coscì brutta, ma se la dovette pijà pé' forza. Quanno che forze a pranzo li cochi non potéano `ndovinà un pasto, li jéva tutto a male. Lu piccione s'era misso `ncima a `na finestra e cantéa: Coco coco, non v'arrabbiate a bon'ora non cucinate pé la brutta mora; io prego che il coco se possa addormentà così ogni cosa se possa abbrucià. Allora lu rre `ndiede in cucina a vejé, vidde lu piccione, lu chiappa e li trova lu spillone, li leva e lu piccione arredeventeva la sua bella giovine. Allora disse: "Questa è la sposa mé", e la mora la fece `mprigionà. Ancora negli anni '60 sono vive le testimonianze sull'archeologia leggendaria dei luoghi. Una correzione al DE Nino sembra essere quella particolare dei tre briganti (e non Gran Cani) dimoranti l'uno sul monte Giano, l'altro sul Terminillo e il terzo su Torrecane presso Nuria (e non Casetta Ranieri). Da Posta e Sigillo note leggendarie può aggiungere il Mosca. Da Posta arrivano senza difficoltà le ultime memorie della bella Pastorella raccolta da A.M. Cirese che si pongono accanto a quelle della Santa Allegrezza antrodocana per la natività di Gesù. Rocca di Fondi con i suoi roccani selvatici sotto il Nuria e praticanti spaesati di Antrodoco, è schernito facilmente. Nella stessa Antrodoco, dove i blasoni popolari non sono scarsi, anche le zone o quartieri sembrano aver marchiato l'umore o i caratteri dei loro abitanti: Li Peschi rudi sotto la rocca cancellata, La Mantella signorile verso Posta, A piedi la Terra, verso il fiume, mite, e S. Terenziano, verso L'Aquila, senza particolare nomèa. E dappertutto il tradizionale rimedio al malocchio che quasi si smorza. La corona del Rosario, con cui esso è praticato, si confonde fra le curiosità dei tempi tramontati ed è il suo appicàgnolo - di solito uno scudo romano al posto del crocifisso - a ricevere una qualche considerazione per gli scongiuri che ancora richiede. Nel complesso un chiaro sentimento del tempo lega ancora in unità il paese crocevia con quelli con termini sulle molteplici vie di transito d'Abruzzo. Ma con la decadenza della pastorizia e lo svilimento in atto della poca agricoltura degli orti e dei vigneti, un ricordo non sempre nostalgico è divenuto il vecchio avventuroso rientro delle greggi dalle pianure romane. Laceri, impolverati,al ponte d'ingresso di Antrodoco i pastori dopo i cinque giorni di transumanza a piedi. Ecco i greggi di Castrucci (Tittaréllu), di Cardellini (Bacocco), di Valloni (Carmenàtu). Dopo ai pascoli Cinno e Prati Rusci, e Le Prata Viànu (monte Giano), e Piscignola (sotto Nuria). Sul Terminillo e sul monte Giano le aquile non volano, estinte negli anni '20. Rare le poiane. Per gli aceri diffusi non solo l'Acerone sul Terminillo, ma anche quello monumentale di Rascito di Ranieri sul monte Giano (due dei tre Gran Cané). Nella valle sempre umida, fiore troppo ingenuo è la leggenda della regina Giovanna che fa radere al suolo Antrodoco a causa del furto di un suo cagnolino ad opera degli stessi abitanti. |
Antrodoco - Ponte del Rio (foto primo novecento) |