"Agliu sòne de la grancasse
viva viva ju popolo basse... Agliu sòne de ji viulini
sempre morte ai Giacubbini."Ancora dopo un
secolo, questa era una canzone proibita. La cantava ogni
tanto, battendo il martello sulla suola, il calzolaio
Serafino, che aveva bottega in un pianterreno vicino a
casa mia; e pareva che le parole, dette quasi a bocca
chiusa, fossero lo stesso ronzio del martello che, a
colpi ritmici, ispessiva e induriva la suola per le
scarpe dei contadini. La canzone alludeva a un fatto
remoto, di cui nemmeno gli anziani si ricordavano; ma
qualcuno, più vecchio, diceva che si riferiva ai
francesi, che erano venuti nel Regno, ai tempi di Maria
Carolina e di re
Ferdinando. Siamo nell'autunno del 1798; re
Ferdinando IV, fosse o no stimolato dalla regina
Carolina, s'era alfine deciso a fare una spedizione
contro la Repubblica romana; ma come aveva sentenziato la
vox populi - vox Dei di Roma, l'eterno
Pasquino:<<Ferdinando venne, vide e
fuggì>>. Fuggì lui; fuggì il suo maresciallo
Micheroux, per quanto potesse disporre di 10 mila uomini
contro 1600 francesi; fuggì a Velletri il Mack,che,
come disse l'abate Bonelli, incaricato di affari per il
re di Sardegna nella corte di Napoli,aveva mostrato
<<grande avversione a battersi e maggiore
vocazione a fuggire >>; l'altro comandante poi, il
Metsch, veniva addirittura accusato di tradimento.
Sicché i francesi imbaldanziti, dopo aver vinte le
accanite resistenze delle popolazioni della
Sabina, e aver piegata Viterbo che s'era difesa
disperatamente attorno ai vessilli sui quali era dipinta
l'immagine di Santa Rosa, come nel Circeo quella della
Madonna della Vittoria, eccoli ai confini degli
Abruzzi. Li avevano naturalmente preceduti le terribili
notizie delle repressioni, delle persecuzioni, e delle
ruberie compiute dappertutto nelle città, e nei paesi e
campagne di là dal confine borbonico, e quando tali
notizie giunsero ai primi di dicembre all'Aquila, il
governatore, il vescovo e il tesoriere della città
imitarono subito il re, chiesero aiuto alle proprie
gambe. Gli invasori intanto scendevano da Rieti, per
Cittaducale, e s'avvicinavano; qualcuno andò a suonar
le campane, come all'approssimarsi d'una tempesta, e la
popolazione si riunì nella piazza principale, di fronte
alla chiesa del protettorato, San Massimo. E nella
chiesa tre nobili aquilani: il patrizio Giovanni Pica,
il marchese Giovanni de Torres e il barone Francesco
Rivera, convocarono come ai tempi dei comuni, il
parlamento. Fu subito deciso di formare una <<
massa >>, e acclamato a comandarla Gaspare
Antoniani. Anche nei paesi vicini si formarono
immediatamente altre << masse >>; ma allo
scopo di coordinare la difesa, dare unità al comando e
assicurare i viveri e le paghe, fu convocato qualche
giorno dopo un nuovo parlamento di tutte le masse a
Pizzoli, una borgata a pochi chilometri dall'Aquila,
sulla strada di Cittaducale. I capi delle diverse masse
diedero il comando supremo al capomassa di Arischia,
Giovanni Salomone; e possidenti e popolo si trovarono
concordi nel formare un fondo per le spese, fornendo
anche delle derrate chi non poteva dar denaro. Le truppe
francesi erano comandate, come è noto, dal generale
Championnet; e puntavano suddivise in quattro divisioni,
su Napoli per due vie; attraverso l'Abruzzo e attraverso
Terra di Lavoro. Per l'Abruzzo si diresse l'ala destra
dell'esercito, costituito da due divisioni: la divisione
Duhesme e la divisione Lemoine. Fu questa che da Rieti
scendeva verso l'Aquila, mentre l'altra da Ascoli Piceno
avrebbe dovuto attraversare il Teramano, e
ricongiungersi con la prima a Sulmona. Il primo scontro
tra massa aquilana e i soldati del Lemoine avvenne a
Borghetto, vicino a Borgo Velino; era il 9 di dicembre,
e Salomone contenne l'avanzata passo a passo, fino ad
Antrodoco, in attesa che giungessero dall'Aquila le
milizie borboniche. Ma i soldati di Ferdinando
somigliavano un pò a lui e ai suoi marescialli;
anzitutto arrivarono con ritardo, e quando poi, dopo
cinque giorni di guerriglia sostenuta dalle masse, si
trovarono di fronte al nemico, se non scapparono poco ci
mancò; e lo stesso ministro Acton, scrivendo al
marchese De Torres, deplorò << la codardia di
taluni corpi di linea >>. Antrodoco, dove si
svolse questo scontro decisivo, fu dovuta abbandonare; e
lo sforzo di Salomone fu reso vano dalla fretta che il comandante
di quelle milizie aveva di tornare a imbucarsi nel
castello dell'Aquila. Il 16 dicembre i francesi
giungevano sotto le mura della città. Mandarono un
parlamentare a intimare la resa; ma prima che la porta
si aprisse per far passare l'inviato del Lemoine,
trascorsero cinque ore. Fu per dar tempo ai soldati e
alla popolazione di preparar le difese? Fu
per dare uno schiaffo al baldanzoso invasore? Fatto sta
che il generale francese se la legò al dito; e andò su
tutte le furie quando il parlamentario tornò con la
notizia che la città non si arrendeva. Era
sull'imbrunire, e cominciò a tuonare il cannone. Gli
aquilani sparavano dalle finestre e dai tetti e dovunque
si potesse da un riparo sicuro ficcare la canna d'un
fucile. Di strada in strada, di casa in casa la mischia
durò tutta la notte e la mattina seguente. Ma i soldati
borbonici erano scomparsi; cioè non s'erano mai visti
uscire dal castello che domina la città.
Dov'erano, e dov'era il loro comandante, Pluncket? Nel
castello, inerti, a far da spettatori. Se lo ricorderà
l'anno dopo il popolo aquilano: appena le masse, nel
maggio del 1799 liberarono l'Aquila, uno dei primi
fucilati fu proprio il comandante Pluncket. Tuttavia
occupata l'Aquila , non fu tanto facile al Lemoine
continuare la marcia verso Popoli per raggiungere
Sulmona. Le masse, per quanto disperse, davano sempre
del filo da torcere. Dovunque era possibile, opponevano
una resistenza accanita, sebbene non più fortunata di
quella di Aquila. Ma anche Popoli, come a Sulmona
qualche giorno dopo, i due generali borbonici Tschoudi e
De Gambs imitano, più o meno, il comandante Pluncket;
come già avevano fatto i generali Micheroux, Mack e
Metsch. Pasquino non aveva dunque soltanto ragione per
re Ferdinando. Il Thibault, cronista francese di questa
guerriglia nei paesi d'Abruzzo, chiama << briganti
>> i popolani e i capi delle masse; ma erano dei
<< briganti >> che sapevano curare i feriti
francesi, e rispettavano sempre i prigionieri. Lo stesso
non si può dire dei soldati di Lemoine e di Duhesme che
saccheggiavano e massacravano dovunque trovavano un
ostacolo; e anche quando non lo trovavano, si sfogavano
contro le campane delle chiese, che avevano suonato
l'allarme al loro avvicinarsi. Beninteso, dopo aver
fucilati i campanari. Fu allora che, come ai tempi di
Annibale, i montanari d'Abruzzo, non potendo più
suonare le campane che erano state spezzate, ricorsero
alla torta buccina
dei Sanniti i grossi corni da pastore, che ripetevano
per quelle stesse valli, come osservò il Rodolico, il
grido contro lo straniero. E lo poté riconoscere lo
stesso Championnet, in una lettera al direttorio datata
dal << quartier général de Naples le 5 pluviose
an VII >> ( il 24 gennaio 1799 ) : << jamais
combat ne fut plus opiniâtre; jamais tableau ne fut
plus affreux. Les Lazzaroni, ces hommes étonnants....
sont des héros >>. Si riferiva al popolo di
Napoli, il generale; ma non credo nel suo giudizio
potesse escludere la resistenza dei montanari d'Abruzzo.
Questa resistenza legata alla storia della Repubblica
Napoletana del 1799, ebbe il suo epilogo con la
rivincita di pochi mesi dopo. L'Abruzzo era stato
conquistato, ma soltanto per modo di dire; perché non
solo la guerriglia delle masse non cessava, ma i soldati
francesi si trovavano spesso bloccati. Nell'Abruzzo
aquilano appunto - che è l'argomento della nostra
narrazione - il capo delle masse , il generale Salomone,
dominava quasi tutto il territorio della provincia.Andava
di paese in paese a rincuorare i nuclei locali, a
distribuire di nascosto armi, a rendere difficili i
rifornimenti di cui i presidi francesi avevano bisogno.
L'Aquila, dove i francesi s'erano insediati nel
castello, si poteva dire bloccata dalle masse; i viveri
cominciavano a scarseggiare, i francesi dovevano fare
delle sortite, e non di rado si buscavano delle
fucilate. Intanto, Salomone aveva fatto occupare i passi
al confine romano, da Leonessa ad Accumoli; e il 15
gennaio, appena un mese dopo l'occupazione della città,
le masse diedero l'assalto ad Aquila, ed entrarono. Ma i
francesi ricorsero ancora al cannone, e fecero fuoco dal
castello sulle vie. Ci fu un nuovo massacro; le masse
furono costrette a ritornare sulle posizioni di
partenza, i villaggi circostanti, da Arischia a Bazzano,
da Rojo a Barete, da cui s'erano mosse. E i francesi si
vendicarono fucilando i prigionieri ch'erano caduti il
giorno prima nelle loro mani. Fu un atto di brutale vendetta;
che servirà però a rinfocolare l'odio delle masse. Passò
così il febbraio; e nonostante lo scacco subito, dovuto
in parte a deficienza di coordinazione nel comando delle
squadre in cui le masse erano suddivise, il generale
Salomone non si perdette d'animo. Il primo di marzo
convocò un nuovo << parlamento >> nella
chiesa della Madonna di Rojo, un colle ad occidente
della città, oltre l'Aterno; e settanta caporali di
squadre giurarono di ubbidire ai suoi ordini. La notte
del giorno dopo le masse sferrarono l'assalto; le difese
francesi che erano state poste alle porte furono prese
di sorpresa; in alcuni punti, verso porta Romana e porta
Bazzano, i più audaci scavalcarono le mura, e la
mattina seguente la città era di nuovo nelle mani di
Salomone. Come al solito, i francesi si chiusero nel
castello. L'assedio durò venti giorni e sarebbe finito
con la resa dei francesi che mancavano dei viveri, se
una colonna di soldati mandati da Rieti di rinforzo non
fossero riusciti a travolgere la squadra che teneva il
passo di Antrodoco. Quasi all'improvviso la colonna
piombò sulla città, e le masse accorse a parare questo
nuovo pericolo, nella confusione del momento e data
anche la scarsità di combattenti, dovettero abbandonare
l'assedio al castello, consentendo ai francesi
d'uscirne. Prese tra due fuochi esse si difesero con
estrema disperazione, ma furono sopraffatte. Era il
sabato santo; e il giorno di Pasqua i francesi si
abbandonarono al massacro e al sacco. Andarono nella
chiesa di San Bernardino, dove cittadini e frati s'erano
asserragliati. Sfondarono le porte; trucidarono
ventisette frati, due canonici, e buon numero di
cittadini. Sul corso, che divide la città da porta
Napoli a porta Castello, giacevano, secondo un testimone
dei fatti, parecchi cadaveri, e << non vi era chi
si fidasse di toglierli e portarli alla chiesa per
seppellirli >>. La chiesa era piena di sangue; e i
francesi, dopo il massacro, tolsero dall'altare il
deposito dove giaceva la spoglia del santo, la ruppero
per toglierne l'argento che vi stava dentro, e fecero
man bassa sulle pissidi, i calici e gli ostensori di
quella e delle altre chiese. Il sacco durò due giorni,
e costò alla città centomila ducati. Il martedì dopo
Pasqua,lasciato un forte presidio in città, i francesi
partirono alla volta di Rieti. Ma San Bernardino, come
dissero gli aquilani, si vendicò presto. E fu doppia
vendetta. La prima, immediata, perché i trecento
soldati che il martedì lasciarono l'Aquila, con il
bottino delle chiese, le taglie raccolte, i cannoni e i
cavalli che avevano portati, furono assaliti dalle masse
scampate e riordinatesi in fretta e furia agli ordini di
Salomone. Attesero i francesi al passo di Borghetto, e a
un segno convenuto gli piombarono addosso. Dei trecento
soldati , se ne salvarono ottanta; i due comandanti, uno
dei quali aveva sfogata la propria ferocia sui frati di
San Bernardino uccidendone cinque, ci rimise la pelle; e
del ricco bottino non restò loro in mano nulla. A
questa prima vendetta San Bernardino ne fece seguire
qualche mese dopo una seconda, e fu la definitiva.
Occupando la città e i borghi principali d'Abruzzo, i
francesi avevano istituite delle milizie, appoggiandosi
qua e là ai << galantuomini >>, di cui
avevano assicurati gli averi; ma il popolo mordeva il
freno. Ogni tanto una schioppettata mandava un francese
all'altro mondo; e tener l'ordine era difficile. Anche
per questo il generale Lemoine diede l'ordine di
concentrare tutte le forze francesi sparse negli Abruzzi
nella città dell'Aquila; erano circa 3500 uomini.
Soltanto nelle fortezze e nelle città principali
restavano dei presidi; la campagna era tornata tutta in
potere delle masse e quindi dei popolani. Salomone
intanto vegliava, e il 2 maggio, quando quella colonna
di 3500 uomini partì dall'Aquila per risalire verso
Rieti, concentrò le masse nei dintorni di Antrodoco. I
francesi vi erano passati baldanzosi il dicembre
dell'anno prima; ora dovevano ripassarvi. Il 2 maggio
era il giorno dell'Ascensione. La mattina, alle 10, la
lunga colonna francese lasciava la città. La marcia,
lenta e taciturna, s'avvia lungo la strada romana. E qui
lasciamo la parola allo stesso generale Salomone,
l'infaticabile capo delle masse. <<
Le masse... si trattengono appiattate nei loro posti
fino a che il nemico non sia tutto ingolfato nella gola
di Rocca di Corno, luogo per lui svantaggiosissimo.
Allora, secondo il piano
prefisso, ferma rimanendo la nostra colonna del centro,
gli corre celermente alle spalle quella della sinistra
con una marcia segreta, nel mentreché eseguono
altrettanto le altre due colonne di qua e di là della
strada romana, le quali avevano ordine di coglierlo alle
spalle . Appena si
sentono attaccati, i francesi raddoppiano la marcia
rivolgendosi di tanto in tanto per delle improvvise
scariche contro le masse. Ma giunti alla Madonna delle
Grotte, due miglia lontano da Antrodoco, trovano ivi la
prima lor sepoltura. Quattrocento
coraggiosi Antrodocani pervenuti a tempo si erano
imboscati in quel vado. Posti in mezzo a quattro fuochi
si costernano, si avviliscono, alzano le mani
chiamandosi prigionieri, vogliono fuggire, ma non
trovano come scampare la morte. Siccome il tempo era dirottatamente
piovoso ed i fucili non facevano più fuoco, i paesani
stringono, si confondono coi francesi e finiscono
per sopraffarli colle armi bianche,
con i calci dei fucili, con i pugni; 500 ne rimangono
estinti in quella mischia. Il grosso della colonna
abbandonato l'intero carriaggio, e quasi tutti i
cavalli, si precipita giù per la valle e prende
Antrodoco. I paesani che sempre più crescono di numero,
e che resi i fucili pressoché inservibili dalla
pioggia, acquistano sopra i nemici tanto vantaggio,
quanto ne hanno uomini robusti ed avvezzi al travaglio
sopra macchine logore dal lusso e dalla mollezza,
gl'inseguono e gli fanno in meno di un'ora evacuare
Antrodoco. Di là sono allo stesso modo, e da tutte le
parti investiti, e trucidati fino a Borghetto, le cui
masse unite a quelle di Antrodoco e dei paesi vicini,
quasi compassionando i nostri paesani, impegnati
per 12 ore a perseguitare i
francesi sottentrano esse con nuove forze nel
combattimento, dànno l'ultima rotta al nemico, gli
fanno lasciare i rimanenti cavalli; e di quegli stessi
3500 francesi che la mattina avevano lasciato l'Aquila
tutti carichi di bottino e contenti di aver predato
quanto colla loro fierezza, avarizia ed inganno avevan
potuto, soli 1000 ne giunsero al confine spogliati,
feriti, disarmati, abbattuti, e maledicendo l'ora della
loro venuta nel regno >>. E' la
relazione che il generale mandava il 29 luglio 1799 al
re Ferdinando, che non meritava certamente tanta
fedeltà. La massa poplare s'impossessò subito del
fatto. E lo cantò in dialetto aquilano:
Quanno fu alla 'Mpretatora
Oh! che passu! alla malora!
Quanno fùruru a Viglianu,
se ne ìano pianu pianu.
Quanno fu alla Colonnella,
li pigliò la trimarella.
Quanno fu a Rocca 'e Cornu,
circondati 'ntornu 'ntornu.
Quanno furono alle Rutti,
gli annu fatti quasci tutti.
Quanno furono a 'Ntreocu
'gni montagna facea focu.
Quanno furo a lu Borghittu
li buttèano l'ogghiu frittu!
Giovanni Titta Rosa
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