Chiquita, la banana ricca di pelle (umana)
NORMA RANGERI
Il Manifesto, 27 ottobre 2000

State alla larga dalla banane "Chiquita", disertate i prodotti Del Monte, non comprate i fiori made in Kenia, non mangiate i gamberetti della Thailandia perché, anche se non si vede, attaccata a frutta e fiori c'è la pelle dei contadini che lavorano nelle piantagioni o che affondano fino al collo nelle vasche di cloro. Pelle in senso proprio, che si ammala e si stacca dal corpo. Quel che abbiamo visto nel corso dei documentari di C'era una volta (Raitre, mercoledì, dopo le 23) basta e avanza a rendere indigeste le leccornie prodotte dal terzo mondo.
Uomini e donne costretti a lavorare senza indumenti di protezione mentre flottiglie di piccoli aerei innaffiano di pesticidi il mare verde dei banani. Sindacalisti (il segno di una coscienza viva) arrestati o fatti sparire, lager che chiamano case, circondati dal filo spinato, ovviamente preclusi alle telecamere dei reporter. Una moderna schiavitù gestita dalle multinazionali che ammalano intere popolazioni, obbligate a lavorare (orario 7-14) per 1800 lire al giorno. Pur con tutta la fantasia, il disastro non regge al confronto con la realtà: contadini che si suicidano, donne rese sterili dai prodotti chimici, territori dove, in dieci anni, al posto della foresta regnano paludi melmose.
Un grandioso spettacolo di distruzione silenziosa, progressiva, implacabile che ottiene la complicità del consumatore durante la spesa quotidiana. Senza alternativa visto che i prodotti delle multinazionali sono gli unici esposti sulle bancarelle del mercato sotto casa.
Questi documentari di denuncia sono necessari, ma non sarebbe male se in coda avessero delle istruzioni per l'uso, appendici capaci di indicare, se e quando c'è, una alternativa ai marchi da evitare. Da qualche parte si coltiveranno pure banane senza il sovraprezzo di carne umana. O no?

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