INTERVISTA  
Il coraggio sotto il burka
Zoia e Marian, due donne in lotta contro l'oscurantismo.
Un tessuto paziente di relazioni, incontri, amicizia, politica.
I veli imposti dal fondamentalismo alle donne diventano la loro forza.


VAURO SENESI - ISLAMABAD

Islamabad venerdì 2 febbraio 2001. Marian ha 27 anni, i suoi gesti sono sicuri e pacati. Zoia invece è vivace come lo sguardo mobilissimo dei suoi occhi neri. Eppure il marchio invisibile sui loro volti è impresso indelebilmente nelle loro storie, come una cronologia della tragedia dell'Afghanistan: il padre di Marian ucciso dai russi vicino a Kabul al tempo dell'invasione sovietica, il padre e la madre di Zoia morti entrambi nel 1993, vittime di uno scontro a fuoco tra opposte fazioni di mujaheddin "liberatori" nella Kabul "liberata".
Zoia e Marian fanno parte del Rawa (Revolutionary association woman Afghanistan). Zoia racconta: "Il Rawa è nato in Afghanistan nel 1977 come un movimento di donne che lottavano per la loro emancipazione in una società dominata dagli uomini, ma anche come movimento politico per una rivoluzione socialista". Quale rivoluzione? Quella importata dai carri armati sovietici? Quella dei taleban? Zoia ha un moto di irrigidimento: "La nostra rivoluzione, da noi stesse, per noi stesse". Eppure con il governo di Najibullah e addirittura sotto l'invasione russa le donne afghane potevano studiare, uscire a viso scoperto... "Najibullah era solo un pupazzo dei russi", interrompe dura Marian. Poi ritrovando un sorriso riprende: "Se a Mosca pioveva lui apriva l'ombrello a Kabul". Zoia è ancora più drastica e non sorride affatto: "Se permettevano alle donne di frequentare l'università era per trasformarle in spie al loro servizio e anche in puttane, i russi offendevano profondamente il sentimento religioso della mia gente".
Sentimento religioso? Ma se proprio quelli che si sono nominati custodi di quel sentimento religioso, i taleban, hanno imposto una delle più feroci oppressioni delle donne che la storia abbia mai visto? Zoia ripropone le sue certezze: "I fondamentalisti sono falsi religiosi, se li sono inventati gli americani e il Pakistan ha inventato i taleban che servono solo interessi stranieri". E l'Alleanza del Nord, i mojaheddin di Massoud? "Uguali ai taleban, criminali come loro, l'unica differenza è che hanno padroni diversi".
Le Nazioni unite hanno imposto le sanzioni al governo dei taleban "ma noi siamo contro le sanzioni, perché sono a senso unico: perché solo ai taleban e non a Massoud?". "Le sanzioni - interviene Marian - non colpiscono i taleban che hanno molti modi di finanziarsi, per lo più illegali. Le sanzioni peseranno solo sulla nostra gente, aggiungeranno miseria a miseria, fame a fame".
E' proprio la fame, forse, più della guerra civile a riempire i campi profughi di Peshawar, in Pakistan: un milione e duecentomila rifugiati, una cifra che può dare la dimensione di questo esodo, ma che non può descrivere le condizioni di vita miserabili alle quali questa gente è condannata e che pure rappresentano un progresso rispetto a quelle dentro l'Afghanistan, una speranza per chi vorrebbe fuggire dal paese. Da novembre le frontiere del Pakistan sono chiuse e altri campi sono sorti dentro i confini dello stesso Afghanistan, campi fatti solo di corpi dove anche una tenda è un privilegio. La notte tra il due e il tre febbraio ad Herat la temperatura è scesa a -25 gradi, centodieci di questi corpi - corpi di donne, corpi di bambini, corpi di vecchi - non si sono più rialzati, uccisi dal gelo. E cancellati anche dalla conoscenza e dalla coscienza dell'Occidente.
Nel '79, quando la guerra in Afghanistan era anche il teatro dello scontro tra le due superpotenze, l'Urss e gli Usa, i riflettori delle "istituzioni umanitarie" illuminavano almeno a tratti quel dramma: l'Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati aveva stanziato 23 milioni di dollari di aiuti. Poi i riflettori si sono spenti. Nel 2000 gli stanziamenti dell'Alto commissariato dell'Onu si sono ridotti a 2 milioni di dollari.
Zoia, Marian e le donne del Rawa vivono tutti i giorni la realtà dei campi profughi: "Organizziamo scuole per le donne e per i bambini. Portiamo un minimo soccorso sanitario - dice Marian - siamo impegnate con tutte le nostre risorse a tentare di rendere più umane le condizioni di vita nei campi, specialmente per le donne sulle quali oltre alla miseria continua a pesare l'oppressione del fondamentalismo religioso". Quali risorse? "I fondi che raccogliamo da persone e gruppi che all'estero conoscono il nostro impegno - risponde Zoia - i soldi che ricaviamo dalla vendita dei tappeti, tessuti a mano dalle nostre donne. Quando la polizia pakistana non chiude i nostri conti postali come è successo da poco. Siamo considerate un rischio dalle autorità pakistane, e delle criminali dai fondamentalisti; il pericolo di essere arrestate e picchiate è continuo. Eppure il 10 dicembre a Islamabad siamo riuscite a scendere in piazza con più di duemila donne contro il fondamentalismo; la manifestazione è stata attaccata dagli integralisti incoraggiati dall'indifferenza della polizia, ma è riuscita". Con orgoglio conclude che "circa duecento di quelle donne erano venute apposta dall'Afghanistan per parteciparvi".
Dall'Afghanistan? "Andiamo e veniamo dall'Afghanistan. Anche là noi del Rawa istituiamo scuole clandestine nelle case private, facciamo propaganda, organizziamo le donne: siamo riuscite così a portarle anche alla manifestazione a Islamabad". Sotto il naso dei taleban? Zoia si apre in un sorriso divertito: "Il burka, la veste che copre interamente il volto e il corpo delle nostre donne, proprio il burka che i taleban ci hanno imposto come strumento di negazione e di umiliazione, è il nostro passaporto. Sotto il burka siamo tutte uguali, alla frontiera non ci possono guardare in faccia e quindi non riescono a identificarci. Sotto il burka facciamo entrare libri e pubblicazioni. Ci vogliono come i fantasmi? i fantasmi possono oltrepassare i muri. Figuriamoci le frontiere".
Quando raccontano, le voci di Marian e di Zoia si riempiono di colore. Perdono la piattezza delle risposte alle prime domande, angustamente politiche, e acquistano la concretezza e la fantasia di chi trova e spende la dimensione politica nella realtà di tutti i giorni, accettando il rischio dell'ingenuità; come quando mi dicono di contare sul vecchio re Zahir Sha come punto di riferimento per la costituzione di un consiglio di governo nazionale che le comprenda ma escluda tutti i fondamentalisti. Quel re, che vive a Roma, nemmeno sa dell'esistenza del Rawa.
Davvero siete convinte che la vostra azione possa qualcosa contro il potente intreccio di interessi che strangola l'Afghanistan, contro una condizione della donna che trova radici in tradizioni secolari? "Se non fossimo certe che la situazione può cambiare, almeno per le future generazioni di donne, non ci resterebbe che il suicidio". No, donne come Zoia e Marian non si suicideranno.

16 Febbraio 2001- Il Manifesto