RUTH  BENEDICT

Anche se è stata accusata dai suoi colleghi di essere una "etnografa per ammiragli", non si può dimenticare che a Ruth Benedict si devono due fra i più grandi successi mondiali dell’antropologia del Nove­cento: Modelli di cultura e I1 crisantemo e la spada. che le valsero un ingresso straordinariamente rapido nella disciplina, ai vertici della Columbia University.

Ruth, donna schiva, raffinata, altera e rigorosa, scoprì tardi la sua vocazione per l’antropologia: il primo libro lo pubblicò a quarantasette anni, il secondo a cinquantanove, due anni prima di morire. Fu sempre considerata un’antropologa anomala: le sue opere, infatti, sono tutte scritte di seconda mano, in base a resoconti di altri ricercatori o viaggiatori, e non conobbe mai l’esperienza, dai suoi colleghi ritenuta fondamentale, della ricerca sul campo. La sua è un’etnologia quasi edificante, un’antropologia a sfondo pratico, nella quale il sapere è sempre finalizzato a migliorare le cose. Il suo tipo di scrittura è a effetto, la sua descrizione degli altri vuol farci sussultare, sconcertarci e farci riflettere su noi stessi.

L’alterità degli "altri", da lei così brillantemente evocata per ser­virci come riscontro autocritico, rende i suoi scritti molto più vicini ai romanzi di Swift e Montesquieu, che usarono la metafora dell’estra­niamento per dare un’immagine critica della società in cui vivevano, che alle scuole antropologiche finalizzate a comprendere le strutture nascoste delle altre culture. A Ruth sembra che interessi, sempre e comunque, solo il suo mondo: le altre società, i ‘diversi’, hanno per lei una funzione di contrasto con noi, ci possono rivelare l’arbitrarietà del nostro quotidiano e renderlo così modificabile in meglio. Ruth non è mai presa dalla fascinazione degli ‘altri’, né inclina al relativisnio.

La sua opera migliore, lo studio sul Giappone, trae origine dal lavoro di informazione e di propaganda da lei svolto durante la guerra, in collaborazione con il generale Mac Arthur. Si tratta di un libro avvincente, proprio perché la diversità dei giapponesi viene forte­mente accentuata con una serie convincente di esempi che coprono tutto l’arco della vita umana, dall’allevamento dei tigli all’alimenta­zione. Una delle differenze con i giapponesi che più sembra averla colpita è l’indifferenza per il lieto fine. Persino le opere più popolari, rileva Ruth, come i film di propaganda bellica, in Giappone finivano male. Proprio l’opposto di quelli americani che, come i libri di Ruth, ci rimandano un grande ottimismo sulla cultura occidentale, ottima fra tutte, se pure migliorabile all’infinito.

 

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