Janis Joplin

 

Una santa, un’apostola, l’agnello sacrificale della sua generazione, così nel 1970 l’America beat reagisce alla morte di Janis Joplin, a ven­tisette anni, per overdose, in una stanza d’albergo, nessuno accanto. Perché la ex ragazza middle class di Porth Arthur, Texas, non è solo la grande performer che con Jimi Hendrix ha destabilizzato il blues per improntarlo all’energia caotica del momento; è il simbolo della dedi­zione all’attimo fuggente, della voglia di cambiare, mettersi alla prova, stare insieme, essere liberi; ed è la prima donna che si impone come leader nel mondo del rock.

Impresa complicata. Nell’America anni Sessanta impera la mistica della femminilità, nel rock la mistica della mascolinità, una masco­linità trasgressiva, certo, androgina, adolescente a vita, elegantemente ruffiana e ben decisa a non spartire con le donne uno spazio così ses­suato e così potente. Per le ragazze ci sono altri ruoli: groupie. fan, corista, tuttofare al seguito, naturalmente moglie; sul palcoscenico, le madonne folk e le interscambiabili chick singers, versione canterina delle vispe, sessualmente disponibili e mai lagnose ‘pollastrelle’ politi­cizzate che circondano i dirigenti del movimento studentesco.

Arriva Janis stile Gaudì, coperta di collanine di semi e vetro, con il suo borsone pieno di cianfrusaglie, sigarette, pezzi di carta, scatole di cosmetici, plettri, aspirine, polverine e una bottiglia di Southern Comfort e l’autobiografia di Zelda Fitzgerald. Janis l’iperfemminile maschiaccio, “hiya boys! è qui la festa’?”, che sventola la bandiera del cameratismo e si comporta come loro, quando si sa, maledizione, che una ragazza non è proprio equipaggiata per farlo. E un’inversione radicale dell’androginia rock, e il dissequestro di una femminilità fino allora confinata nei manierisrni alla Jagger e alla Little Richard.

Malaccolta: spavalda e desolata, indisponibile a lasciarsi inventare da altri che da se stessa, tanto meno a autoparodiarsi per rendere accet­tabile il suo carisma; troppo carnale, troppo occupata a raccattare amanti nei bar e a piangerci sopra senza l’autoironia di rigore; troppo ‘hard’ per una cantante bianca, anche se sarà questo a renderla cara al rock nero. In seguito adorata, le canzoni degli altri che cantate una volta diventano le sue, lei radiosa per un pubblico vorace e devoto, esempio rarissimo di come si può conquistare amore e fama rove­sciando le regole di tutti i giochi, compreso il gioco degli amici.

Concerti, festival, viaggi, arresti, sbornie, buchi, Janis corre un passo avanti agli altri, a chi le dice ‘esageri’, risponde ‘faccio del mio meglio’. Nel maelstrom alcolico-psichedelico dove molti si affacciano e passano, lei sta andando dritto al centro, convinta che la negatività la attraversi senza toccarla; sempre estrema e sempre la più fragile, perché a differenza di un uomo non ha un altrove dove tornare.

Dopo la sua morte tanti le scrivono, increduli, disperati, offesi; il senso era che non avrebbe dovuto lasciarli.

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