Billie Holiday

 

Come vuole la leggenda, aveva sentito il suo primo blues in un bordello; diversamente da altri grandi del jazz, diceva che sarebbe stato lo stesso se fosse accaduto a una riunione delle Giovani Esplora­trici. Come i suoi amati Bessie Smith e Louis Armstrong, non sapeva leggere uno spartito; ma bastavano un giro in la minore e un amico che le dicesse: ‘vai avanti tesoro, fin dove ce la fai’, e cominciava a distillare o scaraventare emozioni in un canto che superava i generi come nessun altro fino allora.

E succede: quel prototipo di ragazzina degli slums che è Eleonora Harris, in riformatorio a dieci anni e call-girl a quattordici, tronca il suo destino di sguattera per le signore bianche e di passatempo per i loro uomini e diventa Billie Holiday detta Lady Day, mito del sound anni Trenta e Quaranta, modello per tutta la sua generazione, da Ella Fitzgerald a Sarah Vaughan a Sinatra. Dei miraggi infantili - un telefono bianco, una Cadillac, un cane, tante cose buone da mangiare, amori e soldi e vestiti di seta - molti ne ha realizzati.

Eppure in fondo rimane la stessa. Imprevedibile: prima cantante nera in un’orchestra di bianchi, sopporta pazientemente di entrare dalle porte di servizio pregando i compagni di non fare a pugni per lei: ma la sua composizione più famosa è un grido di protesta contro il razzismo, e così molte delle sue esplosioni di pianto e di collera. Manipolabile: vende milioni di dischi e i diritti d’autore sono briciole, ottiene ingaggi da favola e c’è sempre qualcuno a intercettarli. Generosa: insieme alla madre, fa della sua casa una sorta di ostello­mensa popolare per musicisti squattrinati, durante la guerra canta instancabilmente per le truppe, non ha paura di ospitare un disertore, si dispera per lo spreco di vite e talenti. Sontuosa, non va in scena senza una gardenia nei capelli e adora cucinare fagioli rossi nelle stanze d’albergo. Ma per lo più dorme in pullman fra uno spettacolo e l’altro; e mendica una dose, molte dosi, una bella provvista.

Perché Lady, abbandonata l’innocente marijuana dell’adolescenza, ha preso la via di cocaina, eroina e oppio. Racconterà nell’autobiografia che il guaio non è quando cominci, è quando cerchi di smettere, e sulle scale delle cliniche ti aspettano reporter famelici e poliziotti inca­ricati di schedare chi entra e chi esce. Arrestata nel 1947, il suo primo concerto dopo quasi un anno di prigione è alla Carnegie Hall e ha un successo enorme. Ma la riarrestano, la pedinano, le tolgono la tessera per cantare nei club newyorchesi; droghe e alcool la schiantano.

Fino all’ultimo annaspa davanti ai microfoni, parodia della stupenda vocalist di un tempo: malata di mille malattie, muore giovane, come Charlie Parker e altri geniali forzati ‘del vivere cento giorni in uno solo’. In ospedale sognava un night tutto suo, dove la gente potesse suonare, dormire e mangiare quando voleva e non secondo i diktat dei proprietari e i regolamenti di polizia.

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