Introduzione alla sociologia delle comunicazioni di massa

[a cura di Andrea Miconi]

1 Come si studiano i media

2 Storia e preistoria dei media

3 Eventi mediali

4 Le utopie

1.Come si studiano i media

Per avere una conferma dell'importanza assunta dai mezzi di comunicazione nella cultura contemporanea, è sufficiente osservare la crescente attenzione destinata ad essi da tutte le scienze umane. Rispetto a tutte le discipline e le scuole di pensiero che si occupano di comunicazione, le aree individuate costituiscono, naturalmente, una semplificazione. Tuttavia lo scopo di un'opera introduttiva, come questa, non è di esaurire gli argomenti di cui si occupa ma di ridurne la complessità, e di fornire una visione di insieme effettivamente rappresentativa dell'universo tematico a cui si riferisce. Se si considera che le discipline che possono interessarci non sono tutte quelle che si sono occupate di comunicazione sociale, ma soltanto quelle disposte ad eleggere la comunicazione a principale oggetto di studio, la rassegna proposta, per quanto forzatamente schematica, costituirà tanto più una buona approssimazione, un valido strumento per costruire la propria attrezzatura concettuale.

1.1 La ricerca empirica


Prima fase: gli effetti Con il novecento i media di massa raggiungono la loro massima diffusione, e con essi nasce una nuova sensibilità nei confronti della comunicazione sociale. Questa attenzione ha ottenuto la sua prima razionalizzazione in una disciplina che è stata definita genericamente communication research, cioè, appunto, ricerca sul ruolo e sugli effetti della comunicazione.

Avendo conosciuto prima di altri paesi la diffusione dei media di massa, a partire dalla radio, gli Stati Uniti hanno costituito anche il primo laboratorio della ricerca. In realtà, la prima idea diffusa sui media - tra gli anni venti e i trenta - è un'idea del tutto rudimentale e perfino antiscientifica. Passata alla storia con il nome di "teoria ipodermica" o "teoria del proiettile", quest'idea supponeva una diretta correlazione tra il messaggio veicolato dai media e i comportamenti passivamente adottati dal pubblico (colpito appunto da un proiettile o da un ago ipodermico). Non si trattava, in realtà, di un'autentica teoria (tanto che non ne esiste un autore), ma piuttosto di una sensazione di disagio nei confronti di un mezzo, come la radio, che aveva improvvisamente invaso gli spazi della vita privata. Il successo dello scherzo radiofonico di Orson Welles, che nel 1938 aveva gettato nel panico l'America recitando brani da La guerra dei mondi di Herbert George Wells, è la migliore dimostrazione di questo disagio. Questo rudimentale modello Stimolo-->Risposta era quindi legato ad una concezione eccessivamente negativa dei media di massa, ma in qualche modo era anche commisurato all'inesperienza e all'immaturità del pubblico, che nei decenni successivi avrebbe invece acquistato una maggiore consapevolezza di sé.

Con il superamento di quest'idea si apre il periodo più ricco della ricerca empirica tradizionale, tra gli anni trenta e gli anni cinquanta. Pur avendo abbandonato il modello ipodermico, peraltro, i primi analisti della comunicazione avevano ancora lo scopo di misurare gli effetti dei media sulla società. La principale urgenza conoscitiva, infatti, nasceva ancora nello sconcerto seguito alla penetrazione sociale della radio e all'utilizzo che di questo mezzo avevano fatto gli apparati propagandistici dei regimi totalitari (soprattutto Goebbels in Germania).

Nell'esperienza della communication research nordamericana è divenuto però sempre più evidente che nel rapporto tra emittente e ricevente intervengono diversi fattori di mediazione, e che quindi gli effetti dei media sono di natura "indiretta" o, per l'appunto, "mediata". Se prima si riteneva che la radio fosse capace di indurre nei suoi ascoltatori specifici comportamenti - acquistare un prodotto, votare un candidato - si inizia ora a sostenere che i media agiscono sugli atteggiamenti del proprio pubblico e non sul suo comportamento finale, che dipende invece da molte variabili. Da un modello tradizionale Stimolo-->Risposta si passa ad un modello Stimolo-->Interpretazione-->Risposta, che evidenzia come non tutti gli individui reagiscano allo stesso modo ad uno stesso messaggio. Gli effetti dei media dipendono infatti da diversi fattori, relativi sia alle caratteristiche del messaggio inviato che a quelle del pubblico. Diventa così una variabile decisiva la disponibilità dello spettatore: con i concetti di esposizione, percezione e memorizzazione selettiva si vuole appunto mostrare la discrezionalità del pubblico nell'esporsi ai messaggi che possono influenzarlo. I principali protagonisti di questo rinnovamento sono due ricercatori americani, Harold Lasswell e soprattutto Paul Lazarsfeld.

La ricerca più importante di questo periodo è stata svolta nel 1940 negli Stati Uniti, e precisamente nella comunità di Erie County, nell'Ohio. I risultati di questa ricerca, pubblicati nel 1944 con il titolo The People's Choice dagli studiosi Lazarsfeld, Berelson e Gaudet, hanno portato alla luce l'esistenza dei "leader d'opinione" e del cosiddetto "flusso a due fasi" (two-step flow) della comunicazione. La ricerca voleva analizzare gli effetti della propaganda elettorale in una precisa comunità, ed aveva portato a concludere che gli effetti di "attivazione" di un sentimento latente o di "rafforzamento" delle idee preesistenti sono molto più frequenti dei casi di autentica "conversione". Tuttavia, Lazarsfeld e i suoi collaboratori avevano scoperto qualcosa in più. Cioè che non esiste sempre un rapporto diretto tra emittente e ricevente, ma che questo rapporto è mediato da particolari figure, appunto i leader d'opinione, considerati competenti in alcune specifiche materie e chiamati quindi a interpretare e diffondere il messaggio proveniente dai media (flusso a due fasi). Ad ogni argomento presente nell'agenda dei media corrisponde, tendenzialmente, un diverso opinion-leader: in una comunità ci si rivolge ad esempio ad una casalinga per sapere se il detersivo pubblicizzato è davvero efficace, ad un uomo se si parla di un'automobile, e così via. Il rapporto tra emittente e ricevente è mediato da alcuni individui, e quindi gli effetti dei media dipendono dalle relazioni sociali che si stabiliscono intorno alla ricezione dei messaggi.

E' necessario precisare che le ricerche tradizionali sugli effetti dei media seguivano un metodo quantitativo, e che uno degli strumenti principali era costituito dall'analisi del contenuto. Calcolando la ricorrenza dei termini significativi (simboli-chiave) nei messaggi dei media, si cercava di astrarre una conclusione metodologicamente rigorosa sull'andamento globale della comunicazione e della cultura. Una tendenza, questa, che in tempi più recenti ha portato ad un'opposizione radicale - spesso, in verità, accentuata oltre misura dagli studiosi coinvolti - tra metodi quantitativi e qualitativi. Tra quanti sostengono la necessità di scomporre la realtà in singoli frammenti - in questo caso, in singole situazioni comunicative - empiricamente verificabili, per poi giungere a risultati statisticamente significativi, e quanti rivendicano invece l'urgenza di un sapere teorico di più ampio respiro, in grado di cogliere i processi culturali non riducibili a misure quantitative. In questo senso, dobbiamo ora rivolgerci ad una precisa area di ricerca, di tipo qualitativo, e ad un preciso periodo, gli anni '70, in cui non ci si è più interrogati sugli effetti dei media ma sul loro valore culturale. In cui, come si usa dire, non ci si più è chiesti "cosa fanno i media alle persone", ma invece "cosa fanno le persone con i media".

Seconda fase: il consumo

Se gli Stati Uniti avevano battezzato la ricerca sui media, questa seconda fase ha invece il suo epicentro a Birmingham, presso il Centre for Contemporary Cultural Studies. Qui un nuovo movimento di studi, noto appunto come Scuola di Birmingham, si pone l'obiettivo di studiare la cultura contemporanea nel suo senso "antropologico", intesa cioè come modo di essere degli individui e delle collettività. I cultural studies, come si definiscono, riguardano l'insieme di "pratiche e testi che costruiscono significati", cioè tutte le pratiche culturali che coinvolgono l'individuo medio, compresi quindi i generi "bassi" (fumetto, soap-opera, fotoromanzo, e così via). Cercando di analizzare la cultura di massa dal punto di vista dei suoi membri, gli studiosi di Birmingham si interrogano anche sulle relazioni sociali sviluppate intorno ai media.

La ricerca tradizionale, soprattutto attraverso l'analisi del contenuto, aveva considerato il testo come l'elemento più significativo dei processi di comunicazione. Il contributo fondamentale della Scuola di Birmingham consiste invece nell'avere evidenziato la natura polisemica del testo, mostrando come un prodotto mediale (un film, un articolo di giornale, e così via) sia oggetto di interpretazioni molto diverse con il variare delle condizioni socioculturali degli spettatori. Ad n spettatori, quindi, corrispondono n diverse strategie di lettura di uno stesso testo. Il ruolo dei media, quindi, si può valutare soltanto a partire dalle condizioni del pubblico a cui essi sono destinati.

La communication research, come visto, aveva fatto proprio lo schema Emittente-->Ricevente e, pur arricchendolo di nuove variabili - i leader d'opinione, il contesto di ricezione, l'esposizione selettiva, e così via - ne aveva preservato la struttura profonda, continuando a considerare il processo comunicativo come una congiungente tra l'emissore e il pubblico. Con i cultural studies britannici, invece, viene accettata la centralità del pubblico come agente positivo nella costruzione sociale della realtà. Uno dei massimi studiosi di questo periodo, David Morley, ha mostrato che il rapporto tra emittente e ricevente può perfino ribaltarsi, in quanto la trasmissione di un messaggio mediale deve essere valutata in base alla sua pertinenza rispetto alle condizioni culturali del pubblico. Questo sistema di pertinenze precede il momento dell'emissione: ad esempio, una famiglia operaia ha un suo quadro di pertinenze (che i media contribuiscono a definire, ma non esauriscono) costituito dagli argomenti verso i quali i suoi componenti hanno maggiore sensibilità. La comunicazione televisiva, quindi, è efficace soltanto quando i suoi contenuti sono conciliabili con il profilo culturale del pubblico (o meglio: dei pubblici).

I cultural studies, naturalmente, hanno bisogno di un metodo in grado di tradurre efficacemente queste convinzioni a livello operativo. E il metodo operativo più adatto a questo scopo è la ricerca etnografica, che possiamo considerare genericamente come lo studio di una cultura attraverso il contatto con le persone che la vivono. E infatti, tra gli anni settanta e gli anni ottanta, la cosiddetta "svolta etnografica" ha condizionato pesantemente i destini della ricerca sui media.

L'etnografia, secondo la definizione di Shaun Moores, vuole scoprire "il senso che i consumatori attribuiscono ai testi e alle tecnologie dei media nella loro vita quotidiana". Il ribaltamento rispetto alla ricerca empirica tradizionale non potrebbe essere più evidente: non si tratta più di scoprire in che modo, e attraverso quali mediazioni, il messaggio arriva al ricevente, ma invece di come i contenuti e le tecnologie dei media sono utilizzati dai consumatori. Si passa, in altri termini, dalla centralità del testo (il contenuto dei messaggi veicolati dai media) alla centralità del contesto sociale e culturale in cui i media si inseriscono.

Questo proponimento ideale - osservare una cultura nel suo farsi - comporta però, sul piano pratico, numerosi problemi di metodo. Infatti la ricerca empirica tradizionale aveva il vantaggio di fondarsi su una solida strumentazione di concetti e di procedimenti, e sulla garanzia della significatività statistica dei suoi risultati. La ricerca etnografica è invece di più difficile codificazione. Il suo obiettivo è quello di raccontare storie di vita, in cui si esprima il rapporto quotidiano tra gli individui e i mezzi di comunicazione di massa.

Due dei migliori interpreti di questo orientamento, Morley e Silverstone, hanno così sintetizzato le caratteristiche dell'etnografia: una particolare attenzione al contesto (come detto); l'uso di strumenti qualitativi; la triangolazione delle fonti (cioè il confronto tra i risultati di diverse rilevazioni, che ne verifica l'attendibilità). La ricerca etnografica usa, appunto, strumenti qualitativi, perché vuole misurare atteggiamenti non traducibili in statistiche e in dati quantitativi. Il suo metodo privilegiato è l'osservazione partecipante, cioè l'intervento diretto del ricercatore nel luogo in cui si svolge il consumo culturale (cioè, sostanzialmente, la famiglia). Si tratta in molti casi - l'osservazione partecipante, la storia di vita, l'intervista non strutturata - di strumenti di difficile utilizzo perché non rigidamente codificabili. La ricerca etnografica, rispetto a quella tradizionale, presenta infatti alcune difficoltà: l'esiguità del campione sottoposto ad indagine, la difficile traducibilità statistica dei risultati, la discrezionalità di alcune tecniche di rilevazione, la forte distorsione operata dai ricercatori sulle famiglie coinvolte nell'ossevazione partecipante.

Tuttavia queste difficoltà sono compensate dall'innovatività di una pratica di ricerca in grado di cogliere le dimensioni qualitative del consumo mediale, non riducibili a risultanze statistiche. Se, ad esempio, si vuole conoscere la diffusione di un medium o la popolarità di un genere televisivo, la ricerca quantitativa (con strumenti di solito standardizzati o facilmente standardizzabili) è certamente insostituibile. Ma se si vuole indagare sul rapporto di una particolare generazione con il mezzo televisivo - cioè su un tema che non è scomponibile in una batteria di domande definite, se non a prezzo di una forte perdita di informazione - il migliore strumento è costituito dai metodi qualitativi della storia di vita e dell'intervista in profondità (non strutturata). Nella ricerca sul campo, c'è una differenza sostanziale tra quello che si può chiedere e quantificare (ad esempio: quante ore al giorno guardi la televisione?), e quello che bisogna scoprire con un'orchestrazione di metodi qualitativi, perché non si può chiedere direttamente all'intervistato (ad esempio, come si comporta la famiglia intorno al televisore).

Un'opposizione tra metodi qualitativi e metodi quantitativi indubbiamente esiste: ma non è una ragione valida per esasperare le differenze tra i due approcci, come spesso viene fatto, piuttosto che cercare una possibile integrazione dei loro strumenti e dei loro vantaggi. A molti anni di distanza dai primi lavori della Scuola di Birmingham, e a molti decenni dall'inizio della communication research, questa sembra l'unica conclusione possibile.

1.2 La semiotica

Definizioni e svolte semiotiche

Iniziamo con una definizione. La semiotica non è soltanto lo "studio dei segni", ma, più precisamente, lo studio dei codici, cioè delle regole di correlazione che permettono di associare un significato ad un significante. Queste regole sono molto varie perché, ad esempio, le correlazioni tra il colore rosso del semaforo e l'obbligo di arresto, tra il fumo e il fuoco di cui è indice o tra la parola "cane" e l'idea a cui essa si riferisce, sono per l'appunto tre tipi di correlazione diversi. In ogni caso, appaiono evidenti le ragioni per cui la semiotica è stata considerata da subito una delle discipline più adatte all'analisi dei processi comunicativi.

Tutto inizia con il linguista Ferdinand de Saussure (1857-1913), che ha proposto per primo un concetto di segno come "associazione di un significante a un significato" (ovvero di "immagine acustica" e "pensiero"). Il segno, in Saussure, è sempre arbitrario, perché non c'è nessuna relazione necessaria tra il significante "cane" e il significato a cui esso rimanda (mammifero a quattro zampe eccetera). A questa concezione, l'americano Charles Sanders Peirce (1839-1914) ha aggiunto una terza variabile, sostenendo che oltre ad un significato e ad un significante che lo rappresenta sostituendolo (come una fotografia sostituisce una persona), esiste un destinatario del processo comunicativo. Questo destinatario decodifica il processo comunicativo attraverso un'immagine mentale di cui dispone, detta interpretante, che è a sua volta un segno, utilizzato come astrazione neccessaria a mettere in correlazione significati e significanti. Infatti non possiamo intendere la relazione tra la parola "cane" letta in un libro e il significato che essa vuole trasmettere se non avendo già un'idea di cosa significhi "cane": ma quest'idea dipende ancora da un'associazione di natura segnica, e così via, tendenzialmente all'infinito. Tanto è vero che si parla, in questo caso, di "semiosi illimitata".

Anche se più marcata nel pensiero pragmatista di Peirce, l'adattabilità della semiotica allo studio della comunicazione sociale dovrebbe apparire evidente. E infatti sono ricchissimi i contributi della semiotica alla ricerca sulla comunicazione e sulla cultura di massa, al punto che approcci di tipo semiologico sono stati produttivamente applicati non solo alla teoria della comunicazione, ma anche all'analisi dei diversi media e generi contemporanei: la televisione, il cinema, la narrativa, la pubblicità, il fumetto e perfino le ricette culinarie.

Qui non si vuole, naturalmente, rendere conto dei diversi approcci e delle diverse correnti della semiotica, ma semplicemente prendere atto della centralità che questa disciplina ha guadagnato (al di là delle oscillazioni della moda) negli studi sociali. Ora, esistono, schematicamente, due tipi di semiotica: o meglio, esiste una semiotica in quanto studio dei segni, ed una semiologia, come studio dei segni destinato essenzialmente ai segni del linguaggio verbale (due filoni che risalgono ai fondatori della disciplina, cioè rispettivamente a Peirce e a Saussure). Entrambe queste tradizioni disciplinari sono state applicate, con profitto, allo studio delle comunicazioni di massa: anche se entrambe presentano, com'è inevitabile, alcuni rischi.

La semiologia, come detto, è uno studio dei segni appiattito sui segni linguistici. L'idea, cioè, non è che il linguaggio alfabetico sia una variante della comunicazione, ma che al contrario sia il linguaggio verbale a contenere in sé tutte le possibili forme di comunicazione (anche perché il linguaggio alfabetico verifica quella condizione tipica dei processi comunicativi, che è la disgiunzione tra espressione e contenuto). La "superiorità" del linguaggio verbale consiste nella sua maggiore duttilità: mentre altri sistemi di segni possono soltanto esprimere dei contenuti, il linguaggio verbale può anche parlare di se stesso. Tutti i codici hanno una loro precisa espressività (la musica, i gesti, la pittura, e così via), ma c'è soltanto un linguaggio nel quale tutti gli altri linguaggi sono traducibili, ed è quello verbale. Tuttavia questo tipo di approccio, molto marcato anche in un semiologo geniale come Roland Barthes (1915-1980), insiste forse troppo sulla traducibilità alfabetica degli altri linguaggi per sposarsi perfettamente con le ambizioni della ricerca sulle comunicazioni di massa, che deve necessariamente ricercare le qualità specifiche ed irriducibili di diversi formati espressivi (quello orale, quello scritto, quello visivo, e così via).

La semiotica, a differenza della semiologia, ha invece l'obiettivo di costruire una tipologia dei segni che prescinda dalla loro natura (segni linguistici e non linguistici). Il problema è che l'apertura a qualsiasi genere di segno crea, come visto in precedenza, un meccanismo di "semiosi illimitata", cioè una deriva in una catena interminabile di significazione (se qualsiasi pratica sociale è portatrice di significato, come è possibile ordinare e comprendere l'insieme di queste pratiche?). Per evitare questo rischio, la semiotica ha provveduto a porre una cornice rigida ai processi di significazione: e questa cornice è quella del testo. Per quanto cioè idealmente disposta ad analizzare tutti i segni, la semiotica si è di fatto concentrata soltanto su quelli contenuti nella categoria di testo (e quindi, di nuovo, su segni di natura alfabetica). E', questo, il caso di Umberto Eco, secondo il quale un testo non ha un significato univocamente definito, ma può essere interpretato dal lettore. Tuttavia questa interpretazione è (semiologicamente) legittima, cioè non dà luogo ad una "sovrainterpretazione", soltanto se è interna alla gamma delle possibili interpretazioni contenute dal testo. Quindi, in poche parole, esiste sempre una demarcazione tra ciò che è corretto in quanto interno ad un meccanismo di natura testuale, e ciò che è scorretto in quanto esterno a questa cornice, aberrante.

Sulla necessità di una svolta, in questo senso, si è pronunciato il semiologo italiano Paolo Fabbri (che ha intitolato un suo libro proprio La svolta semiotica). Fabbri sembra ribaltare il procedimento classico della semiotica: non scompone il linguaggio nelle sue unità minime (appunto i segni), ma vuole invece costruire "universi di senso" più ampi. E quindi studiare non più il segno - che esiste solo come convenzione scientifica - ma la significazione, cioè qualsiasi processo in cui esistono un significante ed un significato diversi tra di loro (perché se un albero rappresenta un albero, cioè se stesso, non c'è significazione vera e propria). Questi processi non sono soltanto di natura verbale, ma rimandano a qualsiasi pratica che può essere portatrice di significato.

Questo passaggio rischia di riprodurre quella stessa deriva verso la "semiosi illimitata" che abbiamo incontrato in precedenza: rischia anzi di accentuarla, perché Fabbri sostiene che non c'è differenza tra le parole e le cose (ad esempio la prigione è il significante di un significato, quello di delinquenza, perché per capire lo stato della delinquenza non bisogna pensare all'idea di prigione, ma al modo in cui le prigioni sono realmente costruite). Torna così a porsi il dilemma tradizionale: porre dei limiti concettuali ai processi di significazione, e quindi escluderne alcuni, oppure rispettare la varietà di questi processi e quindi rendere impossibile una loro codificazione. Perché se tutto è portatore di significato, detto in termini più rudimentali, non esiste una vera semiotica (che si fonda su una delimitazione del campo, cioè sulla differenza tra ciò che è significazione e ciò che non lo è); ma se invece sono considerati portatori di significato solo alcuni processi (quelli testuali o alfabetici, di solito), si perde l'obiettivo di analizzare il rapporto generico tra significati e significanti.

Tuttavia il compito della semiotica - quella successiva alla svolta - non è di ridurre queste forme di significazione ad un unico linguaggio (verbale), né di incastrarle in un sistema definito (il testo). Anzi, è impossibile compiere queste operazioni perché non può esistere una tipologia precostituita dei segni: se non, appunto, a prezzo di una loro riduzione ad una categoria particolare. Ad ogni processo comunicativo corrisponde un codice diverso: il compito della semiotica, secondo Fabbri, è quello di stabilire categorie di significato (o "quadri di pertinenza") variabili per i diversi modi comunicativi. In questo caso, quindi, non c'è una riduzione di tutti i linguaggi ad un'unità ultima di testo: al contrario, è il concetto di testo ad essere moltplicato, perché a diverse pratiche comunicative corrispondono criteri di testualità qualitativamente diversi. Se si è insistito molto sul contributo di Fabbri, rispetto ad altri, è proprio perché questa "svolta" - come apparirà evidente - apre nuove possibilità di utilizzo della semiotica nello studio delle comunicazioni di massa.

Modelli comunicativi

Questa strumentazione - i concetti di significato e significante, di codifica e decodifica - è stata utilizzata per costruire diversi modelli comunicativi, adattabili anche al caso delle comunicazioni di massa.

In realtà il primo di questi modelli comunicativi - che ha ispirato in modi diversi tutti gli altri - è stato messo a punto tra il 1948 e il 1949 da due ingegneri, Claude Shannon e Warren Weaver, per cercare di ridurre le perdite informative nel trasferimento di informazione tra una macchina e l'altra (anche se il modello è stato considerato valido anche per la comunicazione interpersonale). La loro teoria, nota come "teoria matematica dell'informazione" segue questo schema:

 



Questo modello riguarda quindi soltanto l'efficienza di un processo comunicativo (che si raggiunge con la riduzione del rumore e della perdita informativa). La semiotica ha cercato invece di spiegare il funzionamento effettivo di questo processo, aggiungendo il concetto di codice (e quindi i momenti della codifica e decodifica). Ne deriva questo modello, elaborato nel 1965, tra gli altri, da Umberto Eco e Paolo Fabbri:

 


Il funzionamento di un processo di comunicazione dipende quindi dai processi di codifica e decodifica. Dopo la codifica, che avviene alla fonte, il messaggio viene trasmesso (come significante che rimanda ad un significato, quindi appunto sulla base di un codice), e quindi decodificato dall'emittente. Perché ci sia un corretto scambio comunicativo, quindi, è necessario che emittente e ricevente condividano lo stesso codice. Se, ad esempio, uso l'aggettivo "intelligente" in senso ironico (per sostenere che una persona è stupida) e il mio interlocutore lo intende in senso letterale, il trasferimento informativo risulta compromesso, proprio perché non c'è stata intesa sul codice utilizzato.

Questo modello semiologico di base, detto anche modello "semiotico-informazionale", può essere ulteriormente complicato. E' quanto accade con il cosiddetto modello "semiotico-testuale", elaborato da Eco e Fabbri nel 1978. L'idea, in questo caso, è che un destinatario non riceva mai un singolo messaggio (come in una condizione teorica ideale) ma sempre un insieme di messaggi, detto "insieme testuale". Questo modello è stato pensato specificamente per le comunicazioni di massa (e non per le comunicazioni in generale), perché un individuo riceve dai media una quantità enorme di messaggi: il suo rapporto con l'emittente non è paritario, come quando si scambiano singole informazioni, ma subalterno. I media veicolano quindi un insieme di testi, che l'individuo decodifica soprattutto in base all'insieme di pratiche testuali che già possiede grazie alla sua esperienza.

Guardando un film in televisione, ad esempio, noi non riceviamo un semplice messaggio, ma una quantità di sollecitazioni e di informazioni. Un film non ci racconta soltanto una storia, ma ci comunica per prima cosa la sua natura testuale di film, che possiamo decodificare solo perché possediamo alcune "pratiche testuali depositate", cioè perché sappiamo già cos'è un film, avendone visti molti altri in precedenza. Se la comunicazione è, in generale, una trasmissione di informazioni, la comunicazione di massa è trasmissione di testi che comprendono in sé anche una definizione della propria natura e una definizione della natura del pubblico.

Il corretto funzionamento della comunicazione è legato, come detto, alla coerenza tra codifica e decodifica: se il ricevente utilizza lo stesso codice usato dall'emittente, si dà una corretta trasmissione, altrimenti si parla di "decodifica aberrante", cioè di un'errata interpretazione del codice che vanifica la trasmissione. Tuttavia, nel caso delle comunicazioni di massa, è piuttosto raro che l'emittente e il ricevente utilizzino lo stesso codice (basta pensare gli schermi che si usano verso i messaggi televisivi: l'ironia, la contestazione ideologica, il disinteresse, la sopravvalutazione degli argomenti considerati interessanti, e via dicendo). E' quanto ha rilevato nel 1980 uno studioso inglese (nell'area dei cultural studies), Stuart Hall, con il suo modello "encoding/decoding" (cioè, appunto, "codifica e decodifica"). Secondo Hall, il ricevente non deve necessariamente rispettare la codifica avvenuta alla fonte, ma può invece utilizzare tre strategie diverse, definite lettura preferita, negoziata e di opposizione: può cioè, rispettivamente, condividere peinamente il codice dell'emittente, condividerlo solo parzialmente o contestarlo del tutto. Ma la cosa importante è che la lettura preferita non è, come nei modelli semiologici "puri", il caso dominante: è anzi quello più raro, perché il ricevente modifica sempre in qualche modo il codice usato dall'emittente. La "decodifica aberrante" è quindi, nel caso delle comunicazioni di massa, il caso più frequente.

1.3 La sociologia dell'interazione

Interazioni di sistema...

Il primo contatto tra il pensiero sociologico e la questione dei media avviene al livello che si definisce "macrosociologico", cioè a livello di analisi delle grandi strutture che costituiscono la società. L'orientamento di pensiero che ha cercato di spiegare più sistematicamente l'andamento della società è quello della sociologia funzionalista (che deriva, appunto, dalla riflessione struttural-funzionalista generale). Quello che il funzionalismo propone è una visione d'insieme della società, che in quanto tale prescinde, per molti versi, dai suoi singoli componenti (si parla, in questo senso, di posizione "olistica"). In questa prospettiva, infatti, la società è considerata come un insieme, come un sistema globale e integrato che mira al proprio mantenimento.

E per mantenersi, un insieme sociale (nell'ottica funzionalista) deve risolvere alcuni problemi fondamentali (detti "imperativi funzionali"), che sono tradizionalmente considerati: la conservazione del sistema (attraverso la socializzazione degli individui, che vengono così educati ad interiorizzare le norme di comportamento, piuttosto che a subirle); l'adattamento all'ambiente (per cui un sistema sociale deve adeguarsi alle varie condizioni geografiche, sociali ed economiche in cui si inserisce); la definizione degli scopi (ad esempio: la scolarizzazione, la piena occupazione, eccetera); l'integrazione tra le parti (che è condizione fondamentale dell'esistenza di un sistema). In qualche modo, il funzionalismo ricalca quindi quell'analogia tra struttura sociale e organismo animale (in quanto entrambi insiemi che dipendono dall'armonia delle parti) che aveva caratterizzato il primo periodo della sociologia, alla fine del diciannovesimo secolo.

In sociologia, il funzionalismo ha vissuto una stagione molto fortunata, ma è stato poi soggetto a molte critiche. In particolare, è stata fortemente contestata la sistematizzazione fornita dal sociologo americano Talcott Parsons (1902-1979), l'interprete più riconosciuto di questa scuola di pensiero. Non è qui possibile dare conto dei meriti e delle imperfezioni del modello teorico, tanto più che le critiche rivolte ad esso rimangono a tutt'oggi quelle più tradizionali: secondo le quali il funzionalismo fornisce una visione statica dei processi sociali e, soprattutto - esaltando i fattori di integrazione - non dà conto dei conflitti che si consumano nella società (tanto che il funzionalismo è spesso opposto, per l'appunto, alle "teorie del conflitto", quali la sociologia marxiana).

In realtà, nelle sue versioni più evolute, la teoria funzionalista ha rinunciato alla staticità di questa visione originaria, accettando la distinzione, ad esempio, tra funzioni "manifeste" e funzioni "latenti". Sempre all'interno della riflessione funzionalista, soprattutto, è stata messa in evidenza una serie di disfunzioni (ovvero di funzioni negative) che rendono più verosimile (in quanto meno armonico) il quadro teorico complessivo. Tuttavia, malgrado l'apporto di queste sostanziali innovazioni, l'obiettivo del funzionalismo rimane quello di spiegare la società come struttura globale che dipende dall'integrazione e dal funzionamento "corretto" delle sue parti.

In questa visione d'insieme, naturalmente, è stato preso in considerazione anche il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa. Esistono infatti diverse teorie comunicative costruite sull'impianto generale della sociologia funzionalista, destinate a studiare - per l'appunto - le funzioni dei media rispetto alla società. L'obiettivo è quindi analizzare l'importanza strategica dei media rispetto alla società nel suo insieme, ma anche rispetto alle sue componenti (gruppi e individui). Naturalmente, le funzioni dei media possono essere di vario genere: ma quelle solitamente considerate sono le funzioni di socializzazione (per chi consuma i media), di attribuzione di status (per chi è protagonista nei media) e, più in generale, di diffusione dell'informazione.

Alla riflessione funzionalista ha partecipato, soprattutto negli Stati Uniti, una parte significativa dell'intelligenza sociologica (Lazarsfeld, Blumer, Katz, Wright, McQuail, Gurevitch, Rosengren, Merton). Il prodotto più tipico della scuola funzionalista, nel campo della comunicazione di massa, è sicuramente la teoria degli "usi e gratificazioni" ("uses and gratifications"), elaborata, nelle sue versioni mature, negli anni settanta. L'idea è che il sistema dei media, in quanto componente dell'insieme sociale, sia dotato di una serie di funzioni fondamentali che ne favoriscono l'uso da parte degli individui, in vista (appunto) di particolari gratificazioni. Secondo la versione più accettata di questa teoria, gli individui utilizzano i media per alcuni bisogni fondamentali: bisogni cognitivi (ricerca di informazioni e di sapere), bisogni affettivi (ricerca di emozioni), bisogni di integrazione individuale (status personale) e sociale (rafforzamento dei rapporti sociali), bisogni di evasione (come superamento della tensione).

L'approccio funzionalista alle comunicazioni di massa ha quindi dei vantaggi oggettivi rispetto ai metodi tradizionali di studio, come la ricerca sugli effetti dei media. Rispetto a questi studi, infatti, la teoria degli "usi e gratificazioni" considera lo spettatore come un soggetto attivo, che compie delle scelte in vista di un obiettivo da raggiungere. Questo modello sminuisce quindi il potere dei media, perché li considera come agenzie in concorrenza con altre agenzie per la soddisfazione di alcuni bisogni essenziali, e rivaluta invece il ruolo del pubblico. Il problema, tuttavia, è che questa teoria mantiene la caratteristica del pensiero funzionalista: costruisce cioè un sistema chiuso in cui tutte le possibili combinazioni di fattori sociali e culturali tendono ad integrarsi in un ciclo sostanzialmente armonico di bisogni e di funzioni.

A questa caratteristica non sfugge nemmeno la cosiddetta "teoria della dipendenza", messa a punto tra gli anni settanta e gli anni ottanta dai ricercatori americani Melvin De Fleur e Sandra Ball-Rokeach. Anche se frutto di una lunga lavorazione, la "teoria della dipendenza dal sistema dei media" è appunto, in realtà, l'ultimo tentativo di applicare il modello funzionalista allo studio delle comunicazioni di massa. L'idea è che la società abbia una relazione di dipendenza nei confronti dei media (sia nei confronti del sistema mediatico, che nei confronti di un singolo medium o di un singolo genere, come il telegiornale), e che questa dipendenza venga attivata quando uno spettatore seleziona un programma da vedere (o un testo da leggere, un programma radiofonico da ascoltare, e così via). Lo spettatore si pone così in una situazione di coinvolgimento non solo cognitivo, ma anche affettivo e comportamentale, perché dipende dai media per obiettivi di natura diversa (di "comprensione, orientamento e svago"), che hanno a che fare con tutta la sua esperienza sociale.

...e interazioni quotidiane

Ad un livello "microsociologico", cioè di interazioni quotidiane, il discorso cambia. Naturalmente questo piano di analisi (in qualche modo condiviso da sociologia e psicologia sociale), che riguarda le relazioni interpersonali, non si presta a grandi riflessioni sul ruolo dei media nella società. Si presta piuttosto alla ricerca sul modo in cui i media si inseriscono nel vissuto sociale (etnografia dei consumi) o lo modificano (ricerca sugli effetti), come già visto in precedenza. Tuttavia non solo a livello empirico (come nei casi appena citati), ma anche a livello teorico, la prospettiva microsociologica ha offerto spunti interessanti allo studio della comunicazione. In quest'area di studi, come detto, non è possibile mettere in campo una riflessione sistematica sui media, come nel caso della macrosociologia. Ma è invece possibile, come vedremo, sviluppare un'indagine che tenga conto della comunicazione come variabile decisiva nei comportamenti sociali. E, come vedremo, queste indagini, pur non riguardando direttamente i media, offrono alla ricerca mediologica elementi perfino più significativi, in molti casi, di quelli offerti dalla riflessione di area macrosociologica sul ruolo dei mezzi di comunicazione.

E' il caso di Erving Goffman (1922-1982), sociologo tra i più raffinati nella cultura contemporanea, e del suo studio sulla "vita quotidiana come rappresentazione" (1959). L'idea di Goffman (frutto sia di una ricerca empirica che di una speculazione teorica) è che i gruppi sociali si dividano in due categorie: i gruppi di "performance" e i gruppi di "audience". La vita sociale è, appunto, una rappresentazione (si parla infatti di "metafora drammaturgica"), che i gruppi sociali mettono in scena di fronte ad altri gruppi. Goffman cita l'esempio dei camerieri in un hotel delle isole Shetland (dove aveva svolto la sua ricerca). Verificando che il gruppo di performance dei camerieri, di fronte al proprio pubblico (ovvero i clienti del ristorante), inscena una rappresentazione, mostrandosi deferente, rispettoso, discreto, e così via. Questo accade in uno spazio di "palcoscenico" (cioè dove il pubblico è presente): mentre nello spazio di "retroscena", nascosto al pubblico, i camerieri hanno un comportamento del tutto diverso, molto più informale e irrispettoso. E' quanto accadeva nella cucina dello Shetland hotel.

La vita sociale, quindi, si divide in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè in spazi privati, in cui gli individui non "recitano", e spazi pubblici in cui inscenano invece una precisa rappresentazione. Naturalmente, il comportamento nel retroscena contraddice il comportamento pubblico: una persona insicura, ad esempio, può assumere in pubblico un atteggiamento spavaldo, e mostrarsi invece vulnerabile soltanto nel suo retroscena (ad esempio in famiglia). Secondo Goffman, quindi, la vita sociale si fonda sulla demarcazione dei confini tra palcoscenico e retroscena: infatti il gruppo di audience non deve accedere alle situazioni di retroscena che contraddicono il comportamento pubblico.

Vediamo perché questo modello è importante per lo studio della comunicazione. La società, sostiene Goffman, si divide in gruppi di audience e di performance (dove ogni individuo, a seconda delle situazioni, appartiene sia a gruppi di audience che a gruppi di performance). Per appartenere ad un gruppo, quindi, bisogna condividere il suo retroscena, che è lo spazio in cui si prepara la rappresentazione pubblica. Condividere il retroscena, però, significa soprattutto conoscere i "segreti distruttivi" del gruppo (cioè quei segreti che, portati all'esterno, renderebbero poco credibile la rappresentazione): appartiene al gruppo dei camerieri chi sa quello che i camerieri fanno nel retroscena della cucina. Infatti se un cameriere raccontasse al pubblico dei clienti i segreti del gruppo - il modo in cui i camerieri preparano le portate, il modo in cui mangiano o in cui deridono i clienti - il gruppo stesso verrebbe distrutto, perché la sua rappresentazione apparirebbe falsa e non credibile. I segreti devono quindi rimanere all'interno del gruppo: e per questo motivo, il gruppo stesso deve comprendere, per definizione, tutte le persone che sono a conoscenza di questi segreti. Quindi, appartenere ad un gruppo sociale - un gruppo di amici, una categoria professionale, un'associazione, un circolo informale - significa soprattutto condividere i suoi segreti, cioè il suo patrimonio di conoscenze. Pertanto Goffman (non a caso un autore fortemente "durkheimiano", e quindi interessato alla costruzione dell'ordine tramite il vissuto culturale) finisce per fondare la sua sociologia sull'informazione come risorsa strategica e come criterio di differenziazione. Solo il controllo dell'informazione distingue un gruppo sociale da un altro: è sufficiente trasportare questa considerazione sul piano macrosologico, per verificare quanto sia rilevante nello studio delle comunicazioni di massa.

Non è un caso che Joshua Meyrowitz, uno studioso americano autore forse dell'ultima grande teoria mediologica sulla televisione, abbia utilizzato proprio il pensiero di Goffman per costruire il suo modello di analisi del rapporto tra tv e società. In realtà, Meyrowitz parte dal superamento della sociologia goffmaniana, sostendendo che la televisione ha eliminato i confini tra palcoscenico e retroscena, rendendo visibili tutti gli angoli della società. Infatti oggi, attraverso la tv, è possibile conoscere il retroscena dei gruppi a cui non si appartiene: non è più necessario essere un medico per conoscere i segreti distruttivi della categoria dei medici (ad esempio), perché questi sono mostrati a tutti dalla televisione. Meyrowitz ha ragione nel sostenere che, rispetto al pensiero di Goffman, non esiste più identità tra luogo e informazione (come quando le notizie di retroscena circolavano, appunto, solo nel retroscena), perché la televisione ha illuminato (ed eliminato) tutti i retroscena. Tuttavia lo studio di Meyrowitz, pur superando i contenuti della sociologia di Goffman, ne ricalca in realtà il metodo, mostrando come la dinamica sociale dipenda sempre più dal modo in cui vengono distribuite le risorse strategiche dell'informazione.

1.4 La "mediologia"

La mediologia come studio dei mezzi

Tutti gli approcci che stiamo prendendo in considerazione studiano la comunicazione a partire da un preciso punto di vista: dal punto di vista della società (la sociologia), dal punto di vista dei codici utilizzati (la semiotica), dal punto di vista degli effetti che essa provoca sugli individui (la ricerca empirica) o del modo in cui si inserisce in un contesto sociale (l'etnografia). Vediamo ora cosa succede nel momento in cui si decide di studiare la comunicazione da un punto di vista interno ad essa, e cioè a partire dai mezzi attraverso i quali la comunicazione avviene.

L'epicentro di questa fase di studi è Toronto, dove, a partire dagli anni cinquanta e a diverse ondate, un gruppo di ricercatori (Innis, McLuhan, Havelock, de Kerckhove, più altri meno conosciuti in Europa) ha iniziato a studiare il rapporto tra la cultura occidentale e i supporti fisici della comunicazione (cioè i mezzi attraverso i quali la cultura si diffonde e si mantiene). I protagonisti principali di questo rinnovamento sono due studiosi piuttosto particolari, Harold Adams Innis (1894-1952) e Marshall McLuhan (1911-1980).

Innis è il vero fondatore della Scuola di Toronto, perché (dopo essersi occupato di economia e di politica industriale) ha indagato per primo in modo sistematico la relazione tra civiltà e mezzi di comunicazione. La sua idea è che una civiltà sia definita, principalmente, dai suoi equilibri spaziotemporali e dalle sue convenzioni culturali: nel momento in cui questi equilibri e queste convenzioni entrano in crisi, la civiltà si dissolve e viene rimpiazzata da una nuova forma sociale e istituzionale. I mezzi di comunicazione, secondo Innis, sono esattamente gli agenti di questa possibile rottura storica, perché la loro natura tecnologica implica un particolare modo di impiego e genera una precisa forma istituzionale. L'argilla non è soltanto un mezzo di comunicazione, ma uno strumento di diffusione del sapere: essendo difficilmente trasportabile, dà luogo ad una forma istituzionale - quella delle civiltà mesopotamiche - in cui il sapere, e quindi il potere, è fortemente concentrato. Essendo più facilmente trasportabile, invece, il papiro ha permesso un'organizzazione politica più complessa, come quella della civiltà egizia. La semplificazione delle tecniche di scrittura con l'invenzione dell'alfabeto ha permesso un ulteriore allargamento della vita civile, e quindi la nascita della democrazia (anche se esclusiva) in Grecia.

McLuhan, vivace studioso di letteratura e di teatro convertito alla ricerca sui media, utilizza questa concezione, arricchendola di una straordinaria capacità di intuito e di esposizione, e sintetizzandola nei suoi celebri slogan. Il più noto di questi slogan è, senza dubbio, "il mezzo è il messaggio". E cioè: un mezzo di comunicazione esiste in quanto tale, e la sua natura sarà sempre più importante dei suoi contenuti. Quindi, ad esempio, quale che sia il suo messaggio esplicito, la televisione è significativa in quanto televisione. Questa era anche la tesi avanzata da Innis, secondo il quale i diversi media (argilla, papiro, eccetera) definiscono un sistema di realtà semplicemente per la loro natura - malleabilità, duttilità, e così via - e non per l'utilizzo che di essi viene fatto. Anzi: l'utilizzo di un medium è sempre vincolato alla sua natura, previsto dalla sua qualità tecnica.

McLuhan applica questo discorso anche ai media contemporanei, costruendo una tipologia, divenuta classica, che prevede tre fasi storiche. In principio era l'oralità, cioè l'epoca in cui l'uomo comunicava solo verbalmente o attraverso i gesti. L'invenzione dell'alfabeto fonetico ha invece creato una disgiunzione tra il linguaggio e la realtà (perché mentre il pittogramma di un albero somiglia ad un albero, la parola "albero" non ha niente a che vedere con il suo referente fisico, ma dipende da una convenzione culturale e da un particolare utilizzo dell'apparato di fonazione). Con questa disgiunzione, estremizzata dalla stampa (McLuhan parla infatti di "galassia Gutenberg"), il modo di pensare dell'uomo si sgancia dalla sua esperienza fisica, e fa quindi nascere l'astrazione intellettuale e gli ordinamenti sociali che ne derivano (la società in senso lato). Questo perché la comunicazione orale sollecita l'udito, mentre la scrittura porta ad una visualizzazione del sapere (infatti nell'epoca della stampa nasce anche la prospettiva) e stimola quindi la vista. Con i media elettronici - radio e televisione - la comunicazione orale guadagna invece una nuova posizione di egemonia (la cosiddetta "oralità secondaria" o "di ritorno"), e quindi, secondo McLuhan, sollecita di nuovo l'udito, favorendo il recupero di forme di associazione non più societarie ma tribali, come era nell'epoca dell'oralità primaria (anche se questa aggregazione, favorita dai media elettronici, può avvenire a livello planetario, tanto che McLuhan parla di "villaggio globale").

McLuhan (che era un autore talmente enfatico da divenire spesso antiscientifico) ha commesso alcuni errori sostanziali. Infatti le diverse fasi oralità-scrittura-oralità secondaria non si pongono in una relazione di reale discontinuità (o meglio: sono discontinue sul piano fenomenologico, ma continue sul piano storico). A differenza di quanto sostenuto da McLuhan, in realtà, ogni fase rinforza quella precedente: non è un caso che nell'epoca della televisione la lettura (a dispetto di quello che si sostiene) sia molto più diffusa che in precedenza. In questo campo, sono certamente più profonde le riflessioni di Eric Havelock, storico della lingua greca molto attento al passaggio dalla cultura orale all'alfabeto fonetico, e del padre gesuita Walter Jackson Ong (peraltro esterno alla Scuola di Toronto), studioso di retorica e di lettere antiche, autore della migliore monografia sul rapporto tra oralità e scrittura. Ma l'utilità di McLuhan - la sua carica antiaccademica, la sua fortissima capacità innovativa - non è in discussione: la mediologia non può anzi prescindere dal suo contributo.

Tre sono, in sintesi, i meriti fondamentali della Scuola di Toronto: aver portato la comunicazione al centro del dibattito scientifico, fino a sviluppare un modo di studiare la storia in funzione della comunicazione stessa; avere svelato il condizionamento che i media operano in quanto tecnologia, indipendentemente dall'utilizzo che se ne fa; e, infine, aver mostrato come tutti i sistemi culturali e comunicativi dell'uomo, a partire all'invenzione dell'alfabeto, siano di natura tecnologica e artificiale (una considerazione che invalida quindi le tante discussioni sulla presunta superiorità della scrittura sull'immagine, del libro sulla televisione, e così via). Ma questo orientamento di studi comporta anche un rischio. Quello di cadere nel cosiddetto "determinismo tecnologico", cioè di spiegare tutti gli eventi storici e sociali soltanto come conseguenze della tecnologia, e non, più realisticamente, come negoziazione tra tecnologia e società. E' probabilmente per questo che un'area sempre maggiore della mediologia (intesa come studio qualitativo dei media) si è concentrata sull'archeologia dei mezzi di comunicazione, cercando di scoprire le ragioni sociali che precedono l'ideazione tecnologica dei media.

La mediologia come ricerca archeologica

La mediologia, come detto, non può rinunciare al contributo della Scuola di Toronto. Tuttavia il suo scopo è quello di dare conto della relazione dialettica che si stabilisce tra tecnologia e società, mentre quella di McLuhan, come visto, è una posizione "determinista", che spiega cioè la società come espressione della tecnologia (scrittura, comunicazione elettronica, e così via). Ma questo tipo di mediologia rischia di risultare - pur in tutta la sua produttività - piuttosto arida. E qui nasce una seconda fase della mediologia, quella "archeologica".

I media hanno ovviamente una storia: ma hanno anche una protostoria. Infatti la nascita dei media dipende dalla ricerca tecnologica (e quindi dalla produzione industriale), ma il loro successo è commisurato alla necessità sociale a cui questi media riescono a rispondere. Quindi è vero che i media condizionano la società, ma è anche vero che - nel lungo periodo - la società condiziona i media, nel senso che le dinamiche socioculturali creano una condizione adatta all'affermazione di una tecnologia piuttosto che di un'altra. Per capire la cultura televisiva attuale, quindi, non basta più studiare la tecnologia audiovisiva: bisogna anche studiare la storia delle civiltà che hanno conosciuto la televisione, a partire dalla rivoluzione industriale e quindi dalla modernità.

Uno dei fondatori di questa area di ricerca è certamente il sociologo francese Edgar Morin, ideatore di un approccio che si definisce "culturologico" (in quanto analisi dei processi culturali generali in cui si inseriscono i media, le tecnologie, i conflitti e così via). Morin parla di "spirito del tempo" per spiegare una nuova condizione culturale, quella della società di massa, che ha preparato l'avvento e la diffusione della televisione. Secondo Morin, infatti, la società industriale avanzata genera una cultura di massa, resa necessaria dall'allargamento dei diritti (politici e, appunto, culturali). Questa cultura, per essere adeguata ad un pubblico di massa, non può che fondarsi su stereotipi: e appunto di stereotipi si costituisce la comunicazione audiovisiva. Quindi: in una società esiste un immaginario collettivo (un insieme di credenze, di simboli e di conoscenze), rappresentato da alcuni archetipi (simboli o valori ideali), che la cultura televisiva trasforma in stereotipi, mettendoli in circolo in un circuito di consumo sociale. La televisione, pertanto, non nasce solo come imposizione, ma anche come desiderio, nel senso che riproduce alcuni valori socialmente diffusi.

Una simile prospettiva "culturologica" è stata adottata, in Italia, da Abruzzese. Portando avanti l'idea che la televisione non sia la causa dei processi culturali della modernità (come spesso si sostiene), ma invece la sua conseguenza. Abruzzese riprende infatti una letteratura ricca ma poco organica (Simmel, Benjamin, Sennett, Kracauer) facendo precipitare tutte le questioni culturali della modernità occidentale nello spazio della metropoli. E' proprio nelle metropoli, nei grandi conglomerati urbani sorti nel XIX secolo (e quindi assai prima dell'invenzione della televisione) che si viene a creare quella ridefinizione dei rapporti tra spazi interni (la casa) e spazi esterni (la strada), che sarà messa in atto definitivamente dalla tv (che per l'appunto apre una "finestra sul mondo" all'interno dello spazio domestico). Soprattutto, nella metropoli viene esaltata l'esperienza visiva attraverso una lunga serie di dipositivi: l'illuminazione nelle strade, il valore estetico assunto dalle merci, l'abbellimento delle vetrine, lo sfoggio spettacolare delle Esposizioni universali. Situazioni e "cornici" che anticipano la televisione, e che ne creano lo spazio culturale. Abruzzese parla in questo senso di "dinamiche prototelevisive", cioè di eventi che hanno abituato gli individui al confronto con una complessità visiva e linguistica che la televisione ha poi riprodotto e amplificato. La tv riesce quindi ad incarnare un desiderio sociale a lei preesistente: e questa è la ragione del suo fascino, ma anche della sua fragilità (nel senso che se la televisione è stata generata dalla storia della modernità, il passaggio alla post-modernità, creando nuove necessità sociali non più di aggregazione ma di differenziazione individuale, rende inevitabile anche la rovina della tv).

Questo approccio archeologico è stato spesso contestato sul piano scientifico (per via di una certa assenza di metodo), ma ha certamente il merito di fornire una migliore visione d'insieme dei processi culturali in cui i media di massa si sono trovati ad agire. E, in aggiunta, questo metodo consente anche una valutazione serena e ideologicamente equilibrata della cultura di massa, molto spesso fatta oggetto di critiche severe e irriducibili da parte degli ambienti intellettuali.

Non è casuale, infatti, che questo approccio trovi i suoi migliori precedenti teorici nell'opera di alcuni autori poco apprezzati dall'accademia, ma capaci più di altri di intendere la diversità culturale dell'epoca moderna rispetto a quelle precedenti: capaci soprattutto di cogliere, nelle pieghe di un processo quantitativo (la trasformazione della società tradizionale in società di massa e l'incremento delle folle urbane) un valore qualitativo, cioè l'affermazione di una nuova cultura. E' il caso di pensatori difficilmente collocabili come Walter Benjamin (1892-1940), Siegfried Kracauer (1889-1966) e perfino Antonio Gramsci (1891-1937), protagonisti di una prima legittimazione dei generi della cultura di massa (cinema, romanzo giallo, romanzo d'appendice, musica operettistica, letteratura di consumo, e così via) nel nome delle funzioni svolte da questi generi nella società industriale avanzata.

1.5 Media e politica

Elezioni e tv

Uno dei problemi più dibattuti negli ultimi anni è il rapporto tra politica e televisione. Questo problema ha molte dimensioni: il limite da porre alla presenza dei personaggi politici in tv, la regolamentazione della propaganda elettorale e la propaganda "occulta", il controllo politico (parlamentare) sull'emittenza, il conflitto di interessi e la normativa antitrust, e così via. Tuttavia, in termini mediologici, la questione fondamentale riguarda proprio il rapporto (in generale) tra la politica e i media. E cioé: dal momento che la vita politica è sempre più "mediatizzata", in che modo cambiano le sue regole?

A questa domanda, tuttavia, bisogna arrivare in modo graduale. Infatti la prima questione da risolvere riguardava, inevitabilmente, gli effetti della televisione, e cioè il potenziale distruttivo della propaganda televisiva rispetto agli ordinamenti democratici. In questo come in altri casi, peraltro, si è passati progressivamente da una concezione "forte" degli effetti dei media ad una valutazione più equilibrata dei poteri della televisione. Un ideale spartiacque tra queste due concezioni può essere individuato nella ricerca condotta dagli studiosi Jay Blumler e Denis McQuail sulle elezioni inglesi del 1964. Focalizzata su due collegi elettorali, questa ricerca ha messo in luce un legame reale tra le preferenze espresse dagli elettori e la loro esposizione alla propaganda elettorale: in particolare, (anche) alla televisione poteva essere imputato il successo sorprendente del "terzo partito" (il partito liberale). Tuttavia, se è vero che la popolarità del partito liberale era cresciuta nel corso della campagna elettorale, è anche vero che aveva contagiato soprattutto i soggetti che affermavano di rivolgersi alla televisione per chiarire la propria posizione politica, e quindi soggetti non dotati in partenza di un'idea "forte", e anzi particolarmente (e consapevolmente) malleabili anche perché poco interessati alla politica, al di là dell'appuntamento elettorale. Quindi il potere della televisione, per molti versi, viene assai ridimensionato dai risultati di questa ricerca.

Giungendo a conclusioni equilibrate, e poggiando su una metodologia di ricerca inappuntabile, lo studio di Blumler e McQuail ha costituito a lungo il miglior esempio di analisi degli effetti di una campagna elettorale. Tuttavia i tempi, rispetto ad allora, sono cambiati. Con l'era della cosiddetta "videopolitica", o della "politica spettacolo", il problema del rapporto tra televisione e consenso elettorale si è posto in termini più urgenti: le discussioni suscitate dalla vittoria di Berlusconi nelle elezioni del 1994 e del 2001 ne costituiscono la migliore dimostrazione. A partire dal 1994, infatti, in Italia si sono moltiplicate le iniziative di studio destinate ad analizzare il rapporto tra elezioni e propaganda televisiva. E' naturalmente difficile dare conto della varietà di questi studi, ma se ne può fornire una minima visione d'insieme. Infatti per questi scopi, oltre agli studi di Paolo Mancini, è sufficiente ricordare la ricerca di Luca Ricolfi sulla campagna elettorale del 1994 (la più scrupolosa sugli effetti della televisione) e, sempre a partire da questa scadenza, l'attività dei gruppi di ricerca e di monitoraggio sulle apparizioni dei leader in televisione, coordinate da Franco Rositi all'Università di Pavia (il celebre "osservatorio di Pavia") e da Mario Morcellini all'Università di Roma. Anche di queste attività, com'è ovvio, non si può fornire un resoconto significativo. Bisogna però rilevare, più in generale, la frattura che si è creata tra le forti convinzioni sugli effetti della televisione maturate dall'opinione pubblica e dalla pubblicistica (soprattutto di sinistra), e i risultati della ricerca mediologica di vario genere, che ha portato a conclusioni varie, ma comunque meno allarmanti rispetto a questo clima di opinione.

Sarebbe però superficiale far coincidere l'avvento della "politica spettacolo" con il successo di Berlusconi, per quanto quest'ultimo ne abbia certamente costituito la manifestazione più clamorosa e più appariscente. In realtà questa trasformazione era già in atto nei decenni precedenti all'avventura di Forza Italia. E' anticipita, negli Stati Uniti, dalla presidenza di John Kennedy (1960-1963), diviene visibile con i mandati di Nixon (1968-1973) e Carter (1976-1980), ed è già definitivamente compiuta nel periodo della presidenza Reagan (1980-1988). Con i suoi celebri interventi televisivi noti come "discorsi al caminetto", ad esempio, Carter aveva inaugurato una nuova stagione comunicativa, votata ad un tono protettivo e confidenziale (molto significativo era l'utilizzo del maglione al posto dell'abbigliamento "ufficiale"). E negli anni ottanta, come accennato, Ronald Reagan ha portato a compimento questo processo, servendosene come strumento essenziale alla definizione della propria leadership (non dissimile, in Italia, è stata negli stessi anni la strategia di Craxi).

Su questa "mediatizzazione" della politica bisogna però riflettere. Infatti, anche se la posta in gioco è la stessa, e cioè la conquista del consenso, c'è una differenza sostanziale nel modo in cui i leader contemporanei gestiscono la comunicazione, rispetto a come la gestivano i leader politici tradizionali. Infatti, laddove questi ultimi erano (si sforzavano di essere) autoritari, i leader di oggi si mostrano sempre più seduttivi e confidenziali: non devono imporsi, ma devono piacere. Di fronte ad una telecamera, si direbbe, più che ad esercitare un potere sono chiamati a difendere la propria immagine.

Infatti la "televisizzazione" della politica non ha aumentato il potere dei leader - come spesso si sostiene - ma lo ha invece indebolito. Lo ha spiegato uno studioso come Meyrowitz, mettendo in luce come la televisione tenda a ridurre lo scarto tra governati e governanti. Con la tv, infatti, i governanti divengono per la prima volta nella storia visibili: al punto che diviene visibile, come dimostra il caso di Clinton, anche la loro vita privata. Questo processo, naturalmente, indebolisce la figura del leader perché la umanizza e ne scopre gli aspetti di maggiore vulnerabilità. E scoprendo questi aspetti, inevitabilmente, i media espongono i leader politici al rischio di essere screditati e messi in difficoltà (come nel caso appunto di Clinton, processato in mondovisione), o addirittura delegittimati (come nel caso dello scandalo "Watergate", alimentato dal "Washington Post" fino alle dimissioni di Nixon). Queste trasformazioni radicali ci riportano all'interrogativo di partenza, e cioè al ruolo della politica nella società mediale. Perché la democrazia televisiva, a ben vedere, non è semplicemente una democrazia giocata su un terreno diverso (quello mediatico), ma è invece un tipo diverso di democrazia.

E' possibile una mediologia dello Stato?

Con la diffusione della televisione, si è detto, nasce una democrazia diversa da quelle precedenti. Se non altro perché, attraverso la televisione, l'elettore può essere direttamente e continuamente aggiornato sulle questioni politiche, svincolandosi quindi dalla sua dipendenza informativa verso un istituto di mediazione come il partito (e questa è una spiegazione della crisi dei partiti politici). Per molte ragioni, siamo quindi nel pieno di una democrazia di tipo "televisivo". Ma ogni mezzo di comunicazione dominante (nel periodo in cui è cioè il più importante mezzo di comunicazione) ha il potere di definire una particolare forma dell'azione politica.

Lo aveva intuito, già negli anni '20, lo studioso americano Walter Lippmann, notando come la formazione di un'opinione pubblica dipenda dalla creazione di ambienti informativi, cioè di rappresentazioni della realtà. Essendo impossibile, nelle società complesse, un contatto diretto tra l'individuo e l'evento (se non in casi particolari e comunque minoritari), la creazione di questo ambiente informativo dipende sostanzialmente dall'azione dei media: Lippmann cita infatti l'esempio degli abitanti inglesi e tedeschi di un'isola sperduta che, non essendo stati informati dello stato di guerra tra Inghilterra e Germania, si comportavano come se la guerra non esitesse. E quindi - questo è il punto - la guerra non esisteva: perché sono i media a definire le condizioni e le possibilità del confronto (o dello scontro) politico.

Se i media definiscono la porzione di realtà di cui si interessa la politica e i modi in cui se ne interessa (si pensi ai tempi dei dibattiti, sempre più contratti per esigenze televisive), l'intreccio comunicazione-politica investe questioni anche più rilevanti degli effetti (presunti o reali) della propaganda televisiva. Come è possibile spiegare questo intreccio? O meglio: è possibile un'analisi comunicativa della politica, una mediologia della forma-Stato?

Ne é convinto, senza riserve, Régis Debray, singolare studioso francese (ex guerrigliero guevarista ed ex consigliere di Mitterrand), recentemente convertitosi alla ricerca sui media. Secondo Debray, lo Stato si è sempre mantenuto attraverso il controllo dei mezzi di costruzione della propria immagine: i diversi ordinamenti istituzionali della storia moderna (monarchia assoluta, monarchia feudale, repubblica) dipendono soprattutto una strategia di costruzione dell'immagine. L'araldica e l'iconografia (cioè l'insieme dei ritratti e degli stemmi di una casa regnante) sono esempi di strategie di legittimazione del potere messe in atto appunto attraverso le immagini. Esiste quindi uno "Stato scritto", uno "Stato scuola" e uno "Stato schermo", nel senso che le trasformazioni nella sfera dei media determinano una trasformazione delle possibilità dello Stato di accedere ai mezzi per costruire la propria immagine. Non si può comunque negare che l'idea di Debray - malgrado i suoi innegabili aspetti di interesse - è frutto di una colossale costruzione intellettuale non sempre rapportabile alla realtà delle cose.

Passiamo ad un piano più concreto, e più attuale. Se esiste una democrazia televisiva (con caratteristiche riconoscibili: massima partecipazione al voto, spettacolarizzazione della politica, esaurimento progressivo del ruolo dei partiti), quale democrazia corrisponderà all'epoca della Rete telematica (Internet)? Il problema, sostanzialmente, è questo: se la rete Internet, essendo interattiva, permettesse a tutti i cittadini di avere un contatto diretto con le istituzioni e con le amministrazioni, quale sarebbe il ruolo della politica? Serviranno ancora le istituzioni rappresentative (i partiti, il parlamento, i comitati, e via dicendo) se ogni cittadino potrà esprimere direttamente la propria opinione, sul nuovo territorio telematico?

Su questo tema, la posizione più radicale è certamente quella del giovane filosofo francese Pierre Lévy, per qualche anno lo studioso europeo più quotato nel campo delle comunicazioni di massa. L'idea di Lévy è che la Rete renderà inutili, secondo il meccanismo di cui si è detto sopra, le istituzioni politiche attuali. Questa idea ruota intorno alla distinzione tra democrazia "diretta" e democrazia "rappresentativa". La democrazia diretta è la condizione ideale dell'esistenza umana, cioè la democrazia vera e propria, in quanto governo di tutto il popolo: per questioni pratiche, tuttavia, questo ideale non è mai stato realizzato se non, molto parzialmente, nelle polis classiche (molto parzialmente perché la democrazia ateniese non era "inclusiva" ma "esclusiva", cioè limitata ai cittadini e preclusa agli schiavi). Nelle società complesse è ovviamente impossibile la democrazia diretta (nella misura in cui è impossibile pensare ad un parlamento che raccolga decine di milioni di persone), ed è stata quindi adottata la formula rappresentativa in cui i cittadini delegano la propria autorità attraverso le elezioni. Ma la democrazia rappresentativa, ricorda Lévy, non è un ideale ma un'approssimazione, o meglio uno strumento e non un fine, reso indispensabile dall'estensione delle società (una democrazia diretta è possibile, per forza di cose, solo in una piccola comunità).

Ma cosa succede nel momento in cui - attraverso la tecnologia - è possibile immaginare un parlamento con decine di milioni di persone? Succede, prosegue Lévy, che la democrazia rappresentativa viene superata e si instaura una democrazia diretta, in cui tutti i cittadini intervengono alla discussione e alla deliberazione attraverso la Rete. La risposta di Lévy, in verità, non è troppo convincente, e ancor meno convincente è l'estusiasmo con cui il filosofo francese immagina la nascita di questo "parlamento virtuale". Esistono infatti (almeno) due obiezioni rispetto a questo modello. In primo luogo, è da considerare la possibilità che l'accesso alla rete non sia realmente a beneficio di tutti, se non altro per questioni economiche (e questo potrebbe creare una discriminazione fondata sulla ricchezza). In secondo luogo, è indimostrabile (e poco probabile) che gli utenti della Rete siano, per questa stessa ragione, membri di una "comunità intelligente", cioè persone in grado di interrogarsi sulle questioni politiche più delicate, come imporrebbe l'appartenenza al parlamento telematico o "agorà virtuale".

1.6 Apocalittici e integrati

Chi sono

Esistono, secondo un approccio ormai tradizionale, due modi di affrontare i media: uno "apocalittico" e uno "integrato". Questa distinzione, proposta da Umberto Eco nel 1964, ha avuto un successo straordinario, fino a condizionare fortemente il rapporto della cultura italiana con la tecnologia. Sono "apocalittici" i pensatori che sostengono un'idea negativa della cultura di massa e "integrati", viceversa, quelli che seguono un approccio più ottimistico, senza pregiudizi ideologici verso il "midcult" e il consumo di massa. E' appena il caso di sottolineare che il primo orientamento, quello degli apocalittici, è molto più diffuso del secondo: basta pensare al clima di opinione fortemente avverso alla televisione, sostenuto ancora oggi da molti intellettuali.

Naturalmente, neanche gli apocalittici sono realmente estranei a quella realtà che dicono di disprezzare. Anzi, il loro lavoro critico è sempre più interno ad un meccanismo di produzione (industriale) e di consumo (di massa), che rende piuttosto paradossali certe esternazioni (così come è paradossale sostenere, senz'altra specificazione, che la televisione "rincretinisce" il pubblico, perché chi lo sostiene è necessariamente un telespettatore, e quindi una vittima eventuale). Rispetto all'idea di Eco, vanno però aggiunte anche alcune considerazioni più precise. Infatti non sembra che gli apocalittici abbiano realmente come aspetto distintivo un giudizio negativo sui mezzi di comunicazione: al punto che gli intellettuali (e gli apocalittici sono sempre intellettuali, o pretendono di esserlo) fanno un uso sempre più consapevole delle tecnologie (appaiono in tv, utilizzano Internet e la posta elettronica, e così via). In realtà, gli apocalittici non hanno (necessariamente) un'idea negativa dei media, ma hanno sempre un'idea negativa del pubblico di massa.

Quando si parla di apocalittici, è impossibile non pensare alla Scuola di Francoforte. Con questo termine ci si riferisce ad un gruppo di filosofi e di studiosi, raccolti negli anni Trenta intorno all'Istituto per gli Studi Sociali di Francoforte, e poi emigrati negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo. I pensatori più noti di questa scuola sono Herbert Marcuse (1898-1979) e Theodor Adorno (1903-1969), filosofo e sociologo il primo, filosofo e musicologo il secondo. Secondo Adorno, la società contemporanea ha progressivamente eliminato e razionalizzato "il mito", cioè l'insieme dei valori culturali in cui si riconoscevano le civiltà tradizionali. La vita è quindi ridotta alla semplice applicazione dei comandi imposti dalle "macchine", cioè dalla tecnologia avanzata, e il progresso non fa che esasperare questa tendenza. Allo stesso modo, Marcuse ritiene che la società industriale avanzata, per ottimizzare il proprio rendimento, abbia gradualmente imposto il silenzio a tutte le "voci antitetiche", cioè a tutte le discipline portatrici di opinioni contrarie all'ideologia del progresso (l'arte, il libero pensiero, la letteratura). In entrambi i casi, i mezzi di comunicazione hanno un ruolo decisivo nell'alimentare questa ideologia del progresso, fino a creare, come sostiene Marcuse, una società "ad una dimensione".

La riflessione dei francofortesi nasce da un tentativo di reinterpretare il pensiero marxiano. Questi autori si sono infatti interrogati sul fallimento della prospettiva rivoluzionaria (e quindi dell'idea di Marx), individuandone la ragione nella capacità della "sovrastruttura" (i media, la cultura, la stampa) di agire sulla "struttura" (l'ordinamento del capitalismo) legittimandola e preservandone l'integrità. Di qui, naturalmente, una forte critica nei confronti dei media, che, tuttavia, è spesso scaduta in un semplice esercizio di critica verso la modernità, e verso la superficialità della cultura di massa. Ragione per cui la riflessione della Scuola di Francoforte sull'industria culturale non può che provocare effetti schizofrenici: del tutto efficace nello svelare i meccanismi di cui si costituisce l'apparato della produzione culturale (la razionalizzazione, la "chiusura dell'universo di discorso", la collusione dei poteri), risulta invece assai approssimativa nel prendere in esame il rapporto tra i media ed il loro pubblico. Rimarrà, questo, il grande nodo irrisolto del pensiero critico: voler dedurre dalla macchina della produzione, e dall'iniquità del suo funzionamento, uno stato di passività del consumatore che costituisce, invece, un problema di ordine diverso.

Il pensiero negativo che serve

L'opposizione tra apocalittici e integrati, tuttavia, non spiega tutto. Infatti anche un approccio integrato non può non tenere conto dei poteri e dei valori negativi di cui i mezzi di comunicazione di massa sono portatori. Essere "integrati", quindi, non significa sostenere un'idea indiscriminatamente positiva dei media, ma mantenere un approccio di studio equilibrato. Se le convinzioni "apocalittiche" più estreme, come accennato, sono del tutto improduttive, ci sono infatti alcune teorie (ormai classiche) sugli effetti negativi dei media, che vanno invece tenute in considerazione.

La letteratura scientifica conviene sul fatto che la ricerca (soprattutto nordamericana) sugli effetti dei media è distinta in due fasi. Il primo periodo è occupato dagli studi sugli effetti "immediati" dei mezzi di comunicazione (cioè sull'assunzione di comportamenti immediatamente riconducibili all'esposizione mediale, come assistere ad una campagna elettorale e poi votare per il candidato più pubblicizzato), ed ha avuto esiti complessivamente negativi, nel senso che questi effetti "immediati" non sono realmente riscontrabili. La seconda fase, al cui sviluppo hanno concorso studiosi europei e nordamericani, riguarda invece gli effetti di "lungo periodo" dei media: si ritiene cioè che la televisione (per fare l'esempio classico) non influenzi direttamente il comportamento del pubblico, ma che, nel lungo periodo, l'esposizione prolungata alla tv alteri l'atteggiamento dell'individuo e la sua percezione della realtà (si parla infatti non più di effetti "comportamentali" ma di effetti "cognitivi"). Questa seconda fase, che giunge a piena maturità negli anni '70, ha fornito alcuni modelli di studio degli effetti dei media, che neanche un approccio "integrato" può trascurare.

Il più noto tra questi modelli è quello conosciuto come "agenda-setting". Messo a punto principalmente da due studiosi americani, McCombs e Shaw, nel corso degli anni settanta, questo modello costituisce una delle ipotesi più accreditate nella ricerca sugli effetti. L'idea è che i media definiscano, per l'appunto, un'agenda: cioè che non riescano ad imporre che cosa pensare, ma che siano in grado di definire gli argomenti sui quali riflettere. Quindi, per fare un esempio banale, non è detto che lo spettatore abituale delle reti Mediaset abbia un'opinione positiva di Berlusconi: ma è inevitabile che la figura di Berlusconi sia presente nella sua "agenda".

Secondo questa ipotesi, il pubblico è portato a dare importanza agli argomenti ai quali i media danno importanza (se non altro perché i media sono l'unica fonte di informazione), al punto che esiste una corrispondenza significativa tra l'importanza attribuita dai mezzi di comunicazione a diversi eventi o problemi e l'importanza ad essi attribuita dagli spettatori (o ascoltatori, o lettori). Il pubblico, pertanto, costruisce la propria "agenda" di conoscenze inserendo in essa ciò che è presente nei media ed escludendo ciò che nei media non è presente (quindi l'agenda del pubblico riproduce sostanzialmente l'agenda dei media).

Originariamente, questa teoria è stata elaborata con riferimento al "potere di agenda" della stampa: anche se risulta certamente applicabile agli altri media (radio e televisione), va detto che ad ogni medium corrisponde un potere di agenda diverso (che le ricerche, sorprendentemente, hanno scoperto più marcato nella stampa che nella tv), e che è quindi difficile riunire tutti i mezzi di comunicazione di massa in un'unica visione di insieme. Qualche problema si pone anche nel momento in cui bisogna misurare l'effetto di agenda con una ricerca sul campo. In primo luogo, è difficile calcolare l'intervallo di tempo ("time-lag") in cui questo effetto si verifica (quanto tempo serve perché l'agenda del pubblico si modelli su quella dei media?). In secondo luogo, se è abbastanza semplice valutare l'agenda dei media (anche attraverso l'analisi del contenuto), è invece più complicato ricostruire l'agenda di uno spettatore, nel senso che non sempre la presenza di un argomento è indice della sua rilevanza (se nel periodo considerato, ad esempio, la tv ha insistito molto sul tema dell'adozione, e lo spettatore intervistato cita la questione delle adozioni, rimane difficile da valutare l'intensità del suo interesse); anche perché non sempre la frequenza di una parola in una conversazione (in questo caso, la parola "adozione" o simili) è una misura significativa della sua importanza.

Una teoria più radicale, ma che ha comunque orientato il dibattito scientifico, è quella della cosiddetta "spirale del silenzio". Elaborata tra gli anni settanta e i primi anni ottanta dalla studiosa tedesca Elisabeth Noelle Neumann, questa teoria chiama in causa l'influenza dei media nell'orientare la discussione pubblica. Secondo la Noelle Neumann, infatti, il sistema dei media è portatore di un messaggio culturalmente omogeneo, al di là delle differenze di superficie tra diversi generi o tra emittenti diverse, e diffonde continuamente questo messaggio nella società. Per queste due caratteristiche, che la Noelle Nuemann definisce di "consonanza" e di "cumulatività", i media creano un'opinione maggioritaria, nel senso che l'opinione pubblica tenderà a sposare la visione della realtà propagandata dai mezzi di comunicazione.

Nel momento in cui l'opinione pubblica si conforma al messaggio veicolato dai media, per i soggetti sociali che sostengono idee diverse, tendenzialmente, non rimane che il silenzio. Infatti sostenere un'idea non propagandata dai media è difficile, per diversi motivi: in primo luogo, naturalmente, perché è difficile perfino conoscerne l'esistenza, visto che i media sono la fonte (quasi) esclusiva di informazione; in secondo luogo, però, anche perché la visibilità mediatica di un'opinione (per esempio l'apparizione in tv di persone che la sostengono) è un incentivo per quanti la condividono, e fornisce anche le argomentazioni necessarie a difenderla. Se, ad esempio, un telespettatore italiano condivide le ragioni di Ocalan (il leader curdo espulso dall'Italia e attualmente nelle carceri turche), avrà grosse difficoltà ad esprimere un'idea che è, per l'appunto, minoritaria rispetto a quella maggioritaria veicolata dai media: gli mancano, infatti, sia il sostegno emotivo di una buona copertura televisiva della sua opinione, sia il possesso delle notizie e delle argomentazioni che soltanto questa copertura potrebbe garantire (si tratta, appunto, di una spirale).

In entrambi i casi (agenda-setting e spirale del silenzio) abbiamo naturalmente semplificato. Tuttavia le idee essenziali che informano queste teorie rimangono particolarmente utili - qualunque sia l'approccio di studio - per la ricerca sulle comunicazioni di massa.

La guerra santa dei neo-apocalittici

Negli ultimi anni, il dibattito (e, in particolare, il dibattito italiano) sui media è stato scosso dagli interventi di diversi intellettuali "apocalittici". Il caso più clamoroso è quello di Karl Popper (1902-1994), epistemologo e filosofo della scienza tra i maggiori del novecento, che a pochi mesi dalla morte ha dato alle stampe un pamphlet significativamente intitolato "una patente per fare tv". La sua idea (peraltro indimostrabile) è che la televisione educhi i suoi spettatori, soprattutto i bambini, alla violenza, desensibilizzandoli attraverso l'esposizione continua di comportamenti devianti e aggressivi. Essendo un mezzo pericoloso, la tv va quindi controllata, e la concessione delle licenze di trasmissione deve essere vincolata ad una sorta di prova di moralità. Secondo Popper, la soluzione ideale sarebbe l'istituzione di una commissione in grado di concedere e revocare la "patente", cioè l'autorizzazione a trasmettere. Un'idea che, come ognuno potrà giudicare, somiglia sinistramente ad una proposta di censura.

Un altro contributo molto critico verso la televisione è dovuto al politologo italiano Giovanni Sartori, docente alla Columbia University, che ha invece denunciato l'aspetto "antropologico" delle mutazioni indotte dalla tv. Secondo Sartori, infatti, la televisione trasforma l'uomo da essere razionale (homo sapiens) a essere superficiale e istintivo (homo videns), perché, a differenza della scrittura, non stimola ma anzi atrofizza le facoltà mentali e intellettuali degli individui. In realtà, naturalmente, non c'è una ragione reale per cui un'educazione fondata sulla scrittura debba essere superiore ad un'educazione fondata sull'immagine: senza contare che, soprattutto, la scrittura non rappresenta quella condizione ideale e necessaria a cui Sartori la fa coincidere, ma è a sua volta una tecnologia, con i vantaggi ed i limiti di ogni altra tecnologia (e che la scrittura non sia necessaria è dimostrato dal fatto che, se l'homo sapiens esiste da circa 40.000 anni, la "scrittura" propriamente detta è stata inventata solo intorno al 3500 avanti Cristo nelle regioni mesopotamiche).

Popper e Sartori costituiscono due esempi significativi dell'atteggiamento delle classi intellettuali (con poche eccezioni) nei confronti della televisione (lo stesso discorso riguarda ad esempio Pierre Bourdieu, uno dei maggiori sociologi europei, ed il circolo di intellettuali progressisti riuniti in Italia intorno alla rivista "Reset"). In realtà le critiche avanzate da questi intellettuali - come dimostrano gli esempi presi in esame - sono scientificamente molto immature, e spesso perfino risibili: tuttavia il loro impatto sull'opinione pubblica è talmente rilevante, da non poter essere passato sotto silenzio (anche perché, e questo è l'aspetto più singolare della vicenda, questi autori sono studiosi di grande spessore, che hanno raggiunto risultati molto rilevanti nelle loro discipline).

La distinzione tra "apocalittici" e "integrati", quindi, assume oggi un nuovo valore: non oppone più gli "ottimisti" ai "pessimisti" ma, prima ancora, contrappone gli specialisti dei media a quanti invece studiano i media dall'esterno. Non è un caso, infatti, che i grandi apocalittici siano intellettuali di vario genere (filosofi, scrittori, linguisti, scienziati della politica, e così via) ma che non siano mai realmente dei sociologi della comunicazione. Se si studiano i media dal loro interno, infatti, se ne avrà una visione più complessa di quella proposta dai pensatori critici: che porti ad un'idea ottimistica, equilibrata o anche più critica e "conflittuale" dei mezzi di comunicazione, infatti, questa scelta di campo esclude per sua natura un'opzione ideologicamente caratterizzata come quella degli apocalittici.

Gli autori


Roland Barthes

Roland Barthes (1915-1980), semiologo tra i più brillanti della cultura contemporanea, ha insegnato al Collège de France e all'École Pratiques des Hautes Études di Parigi. Tutta la sua esperienza di studio è stata dedicata alla scoperta dei processi di significazione nascosti nei fenomeni artistici (scrittura, fotografia, pittura) ma anche nelle pratiche sociali quotidiane (design, pubblicità, e così via). Barthes ha infatti esteso i concetti della semiotica per analizzare tutti i linguaggi della società contemporanea: esemplare, in questo senso, è la rassegna di Mythologies (tradotto in Italia con il titolo di Miti d'oggi), in cui Barthes ha preso in esame i più svariati fenomeni della cultura di massa (il catch, le vacanze, i detersivi, i giocattoli, le patate fritte, il Tour de France, e così via). Va anche aggiunto che, molto spesso, Barthes ha applicato a questi linguaggi i concetti della cultura alfabetica, sacrificandone quindi alcune particolarità. Tuttavia la sua ricerca è importante proprio perché ha portato ad una legittimazione dei diversi generi e linguaggi della cultura di massa.

Riflettendo sulla propria opera, Barthes aveva individuato tre fasi essenziali della sua riflessione: la fase della semiologia come critica ideologica (negli anni cinquanta), quella della semiologia "pura" (gli anni sessanta), e infine la fase della semiologia come analisi del testo (gli anni settanta). Al di là di queste diverse ispirazioni, in ogni caso, nella ricerca di Barthes esiste una sostanziale linea di continuità, segnata dalla progressiva esplorazione dei modi in cui la società contemporanea ha espresso ed esprime la propria cultura.

Tra le sue numerose opere, possiamo ricordare: Miti d'oggi (1957), Il sistema della moda (1967), S/Z (1970), Il piacere del testo (1973), Frammenti di un discorso amoroso (1977), La camera chiara (1978), La grana della voce (pubblicato nel 1981).

Per saperne di più: U. Eco, La maestria di Barthes, prefazione a R. Barthes, Miti d'oggi, Einaudi, 1994; P. Fabbri, La svolta semiotica, Laterza, 1998; P. Malcolm, W. Thody, Introducing Barthes, Totem Books, 1997; R. Rylance, Roland Barthes, Harvester, 1994; U. Volli, Il libro della comunicazione, Il Saggiatore, 1994.

Jean Baudrillard

Jean Baudrillard (1929) è uno degli autori più sofisticati e più discussi della filosofia sociale contemporanea, ormai tradizionalmente impegnato nella ricerca sulle comunicazioni di massa. In particolare, l'interesse del filosofo francese per i consumi di massa (materiali e culturali) nasce da un tentativo di applicare alle società industriali avanzate le riflessioni marxiane sul "feticismo" della merce. Secondo Marx, infatti, la merce avrebbe progressivamente perso il suo "valore d'uso" per acquisire un valore estetico, legato più alla sua "spettralità" che all'immediata riconoscibilità delle sue funzioni. Se, ad esempio, l'oggetto "piatto" è sempre stato usato dall'uomo per la sua utilità concreta (cioè per contenere del cibo), nell'epoca del capitalismo diviene invece una tentazione estetica (per fermarsi allo stesso esempio, si può acquistare un servizio da tavola, pur non avendone un immediato bisogno, semplicemente perché lo si trova bello e decorativo).

Baudrillard - che è un autore apocalittico - radicalizza questo discorso. Se ogni oggetto ha un'aura estetica che trascende la sua funzionalità, infatti, significa che la società dei consumi è una colossale macchina di straniamento che nasconde progressivamente la realtà dietro una rappresentazione artificiale, imponendo all'individuo dei falsi bisogni. Il ruolo dei media, in questo sistema, è proprio quello di costruire una forma di realtà alternativa che nasconde il reale svolgimento delle cose (per cui esiste un "eccesso di realtà", determinato dalla pervasività della televisione, e insieme una sparizione della realtà concreta).

Le sue opere più conosciute sono: Il sistema degli oggetti (1968), La società dei consumi (1974), Per una critica dell'economia politica del segno (1976), Della seduzione (1979), Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? (1995).

Per saperne di più: D. Harvey, La crisi della modernità (1990), Il Saggiatore, 1993; D. Kellner, Baudrillard: A Critical Reader, Blackwell, 1994; A. Sokal, J. Briomont, Imposture intellettuali, Garzanti, 1999; U. Volli, Fascino. Feticismi e altre idolatrie, Feltrinelli, 1997.

Règis Debray

Régis Debray (1941), affermato teorico della "mediologie", è uno dei più singolari studiosi di comunicazione. E' possibile che al fortuna attuale di Debray - prima guerrigliero guevarista in Bolivia, poi membro del Consiglio di Presidenza di François Mitterrand ed infine, appunto, teorico della mediologia - sia legata proprio alla sua esperienza di vita, che ha attraversato le diverse fasi della politica contemporanea: quella militare, quella diplomatica e quella "mediatica", che vede oggi in primo piano appunto il ruolo dei media (come dimostra, in Italia, il caso di Berlusconi). Ma procediamo con ordine.

Debray propone un metodo "mediologico": ritiene cioè che per studiare la comunicazione si debba analizzare la struttura fisica dei supporti che rendono possibile la trasmissione del sapere (la carta, il telegrafo, e così via). E' quello che Debray chiama "materismo" (cioè, appunto, studio della dimensione "materiale", concreta, dei media). Anche se intrigante, in realtà, la proposta di Debray non è troppo innovativa (anche se può sembrare tale per la cultura europea, meno abituata di quella americana a procedere in termini "mediologici"), e anzi si riallaccia sostanzialmente alle idee della Scuola di Toronto di Innis e McLuhan (che avevano appunto sottolineato l'importanza dei mezzi e dei supporti fisici della comunicazione nel creare gli equilibri sociali e istituzionali). Ma il merito di Debray (che ha applicato questo metodo soprattutto all'analisi della forma-Stato) è probabilmente quello di (cercare di) sistematizzare questa convinzione in una visione di insieme per molti versi lacunosa, ma inevitabilmente seducente (e necessaria) per la cultura europea.

I suoi scritti più importanti (in ambito mediologico) sono: Cours de médiologie générale (1991), Vie et mort de l'image (1992), Lo stato seduttore (1993), Transmettre (1997).

Per saperne di più: A.A.V.V., Pourquoi des médiologues?, "Cahiers de médiologie", 6, 1998; K. Reader, Régis Debray: A Critical Introduction, The Free Press, 1995.

Umberto Eco

Umberto Eco (1932), professore di semiotica all'Università di Bologna, è il semiologo attualmente più conosciuto e uno degli studiosi più apprezzati in senso assoluto. Eco ha infatti costruito la più ricca strumentazione teorica per gli studi semiologici, dedicandosi anche ad un (appezzabile) tentativo di trasformare la sua attività di ricerca in un'opera di più ampia divulgazione (soprattutto con il Diario minimo del 1963 e il Secondo diario minimo, del 1992).

Nella ricerca di Eco convivono anime diverse. La prima è quella più strettamente semiologica: a Eco è infatti dovuta la più imponente sistematizzazione degli studi semiotici e dei concetti fondamentali della disciplina (soprattutto con il Trattato di semiotica generale e con Semiotica e filosofia del linguaggio). La seconda "anima" è quella di Eco narratologo, e riguarda gli studi compiuti dall'autore intorno al concetto di "opera aperta", che hanno rivalutato il ruolo del lettore nella costruzione e nel consumo del testo letterario. La terza dimensione significativa negli studi di Eco è quella sociologica, che ha a che fare soprattutto con l'approccio positivo e "integrato" proposto dall'autore verso i prodotti della cultura di massa. C'è poi, infine, l'Eco narratore: è infatti inevitabile considerare le sue opere narrative come una sorta di prolungamento (non sempre coerente) delle sue riflessioni narratologiche. Confrontarsi alla ricerca di Eco è quindi un'operazione piuttosto complessa, che richiede, come spesso accade alle forme di pensiero così enciclopediche, un atteggiamento critico: ma è ancora, per lo studio della comunicazione, un'operazione necessaria.

Nella produzione sterminata di Eco, sono di particolare importanza (nelle diverse aree): Opera aperta (1963), Apocalittici e integrati (1964), Trattato di semiotica generale (1975), Lector in fabula (1979), Semiotica e filosofia del linguaggio (1984), I limiti dell'interpretazione (1990), Sei passeggiate nei boschi narrativi (1994).

Per saperne di più: P. Fabbri, La svolta semiotica, Laterza, 1998; R. Grandi, I mass media tra testo e contesto, Lupetti & Co., 1994; P. Magli, G. Manetti, P. Violi, Semiotica: storia, teoria, interpretazione. Intorno a Umberto Eco, Bompiani, 1992.

Paolo Fabbri

Paolo Fabbri (1939), professore di Semiotica dell'arte all'Università di Bologna, è oggi uno degli interpreti più innovativi della disciplina. Dopo avere insegnato in diverse Università in Nord America e in Europa e aver lavorato a Parigi con A. J. Greimas, Fabbri ha costruito un modello semiotico in qualche modo alternativo a quello (più conosciuto) di Umberto Eco. Il tentativo di Fabbri è infatti quello di sottrarre la semiotica all'area delle scienze umanistiche, per confrontarla invece ai processi più concreti della comunicazione sociale.

Se in una prima fase aveva analizzato la comunicazione lavorando all'applicazione dei concetti classici della semiotica, negli anni più recenti Fabbri si discosta invece dagli aprocci tradizionali, proponendo infine una vera e propria "svolta semiotica". A questa svolta dovrebbe corrispondere una rifondazione che permetta alla disciplina di occuparsi non solo di "segni" ma di "significazioni", cioè di tutti i processi che hanno a che fare con la produzione e con la diffusione sociale dell'informazione. E' ipotizzabile quindi non solo una semiotica delle passioni (che già appartiene al patrimonio classico della disciplina) ma anche, ad esempio, una semiotica degli oggetti, nella misura in cui proprio gli oggetti sono costruzioni sociali portatrici di significato. Non è forse casuale che a questo rinnovamento disciplinare si accompagni un forte rinnovamento di stile e di metodo, che Fabbri ha condotto rinunciando (almeno in parte) al prestigio accademico della scrittura (e del libro), in favore di una più intensa attività di divulgazione orale (convegni, seminari, interviste, e così via).

Tra le sue opere, vanno segnalate: Prima proposta per un modello di ricerca interdisciplinare sul rapporto televisione-pubblico (1968, con U. Eco e altri), Progetto di ricerca sull'utilizzazione dell'informazione ambientale (1978, con U. Eco), Tacticas de los signos (1996), La svolta semiotica (1998).

Per saperne di più: per informazioni di vario genere e per una bibliografia completa, consultare il sito Internet di Paolo Fabbri, all'indirizzo <http://www.guaraldi.it/fabbri/default.htm>

Harold Innis

Harold Adams Innis (1894-1952) è uno degli autori più importanti nella storia della ricerca sulla comunicazione. Studioso di politiche economiche e industriali, Innis si è dedicato poi alla sociologia partecipando alle ricerche della cosiddetta Scuola di Chicago, e solo nei suoi ultimi anni ha affrontato il problema della comunicazione, fondando la Scuola di Toronto (resa poi celebre da Marshall McLuhan).

Il contributo di Innis allo studio della comunicazione è stato fondamentale. Infatti, mentre i sociologi della comunicazione usavano lo strumento privilegiato dell'analisi del contenuto, Innis sostiene che la parte più significativa dei processi comunicativi non è legata ai contenuti trasmessi, ma invece al mezzo tecnico che ne costituisce il supporto. Per questa ragione, Innis elabora un metodo di studio della storia, in cui proprio i mezzi di comunicazione sono considerati un fattore decisivo: le diverse fasi della civilizzazione dipenderebbero quindi dai media attraverso i quali viene conservato e trasmesso il sapere (argilla, papiro, carta, comunicazione via etere, e così via). Da variabile dipendente, i media divengono così la variabile indipendente: è - per usare un'espressione abusata - un'autentica rivoluzione copernicana.

Malgrado la sua innovatività, Innis è un autore poco considerato nella ricerca sui media, e ancora poco conosciuto in Europa. Conferma di questo, è il fatto che siano state tradotte in italiano soltanto due sue opere: Le tendenze della comunicazione (1951) e Impero e Comunicazioni (1950).

Per saperne di più: J.W. Carey, Harold Adams Innis and Marshall McLuhan, "The Antioch Rewiew", 1, 1967; T.W. Cooper, McLuhan and Innis: The Canadian Theme of Boundless Exploration, "Journal of Communication", 3, 1981; F. Ferrarotti, La storia e il quotidiano, Laterza, 1986, M. Sanfilippo, V. Matera, Da Omero ai cyberpunk. Archeologia del villaggio globale, Castelvecchi, 1995.

Harold Lasswell

Harold D. Lasswell (1902-1978), politologo americano, è stato uno dei primi studiosi di questioni istituzionali e politiche ad interrogarsi in modo sistematico sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa. In particolare, Lasswell ha analizzato le strategie di propaganda, ritenendo che il linguaggio della politica fosse un indice diretto delle dinamiche di potere. La sua ricerca appartiene quindi ad un'epoca di studi sui media molto condizionata (a partire dagli anni trenta) dall'utilizzo che dei media (e soprattutto della radio) veniva fatto da parte degli apparati politici e militari.

Il metodo utilizzato da Lasswell è di ordine strettamente quantitativo, e il suo strumento decisivo è l'analisi del contenuto. Misurando la ricorrenza dei termini più significativi (o "simboli-chiave") nel discorso politico, Lasswell vuole infatti comprendere quello che definisce il "mito politico", cioè il particolare universo di valori al quale una strategia di propaganda fa riferimento. Anche se evidentemente condizionato, in origine, dalle urgenze della guerra e della mobilitazione ideologica, il modello lasswelliano è stato in seguito adattato all'area più generale della comunicazione sociale.

Il metodo di Lasswell è, in realtà, piuttosto datato. Dopo gli studi di Innis e di McLuhan, infatti, l'analisi del contenuto ha perso la posizione di egemonia che deteneva nella ricerca sulla comunicazione. E datata, di fatto, è anche la tipologia costruita da Lasswell, secondo la quale, per comprendere la comunicazione di massa, bisogna chiedersi "chi dice cosa attraverso quale canale a chi con quale effetto" (il cosiddetto modello delle cinque w, con cui iniziano in inglese questi cinque termini chiave). A tutt'oggi, a Lasswell va comunque riconosciuto un merito: quello di avere mostrato la complessità dei processi comunicativi, sottraendoli alle interpretazioni schematiche di cui erano inizialmente fatti oggetto.

Le sue opere più importanti sono: Propaganda Techniques in the World War (1927), Politics: Who Gets What, When, How (1936), World Revoluntionary Propaganda (1939), Il linguaggio della politica (1949, con N. Leites).

Per saperne di più: G. Losito, L'analisi del contenuto nella ricerca sociale, Franco Angeli, 1993; A. Mattelart, La comunicazione mondo (1991), Il Saggiatore, 1994; A. Rogon (a cura di), Politics, Personality and Social Science in the Thentieth Century: Essays in Honor of Haold D. Lasswell, University of Chicago Press, 1969; M. Wolf, Teorie delle comunicazioni di massa, Bompiani, 1985.

Paul Lazarsfeld

Paul Felix Lazarsfeld (1901-1976) è stato uno dei fondatori della sociologia della comunicazione nordamericana. Statunitense di origine austriaca, dopo avere frequentato gli ambienti intellettuali (e socialisti) di Vienna, si "converte" allo studio dei media negli anni trenta (pur essendo, di formazione, un matematico), analizzando con particolare cura gli effetti della comunicazione radiofonica sul pubblico.

La più conosciuta ricerca di Lazarsfeld è stata condotta nel 1940 nella comunità di Erie County, nell'Ohio, durante la campagna per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Con questa ricerca, Lazarsfeld e i suoi collaboratori (Berelson e Gaudet) hanno scoperto l'esistenza dei "leader d'opinione", cioè di soggetti particolarmente esposti ai media ed in grado quindi di diffondere l'informazione ricevuta agli altri membri della comunità (si parla, appunto, di "flusso a due fasi" della comunicazione). Con questa ricerca si è aperta una nuova fase nella ricerca sui media, in quanto è stata definitivamente superata l'idea che gli effetti dei mezzi di comunicazione fossero forti proprio perché diretti (mentre sono, per l'appunto, "mediati").

Il nome di Lazarsfeld, in realtà, è legato anche alla cosiddetta macchina "Lazarsfeld-Stanton" (elaborata insieme al funzionario della CBS Frank Stanton), usata per misurare la reazione degli ascoltatori alla comunicazione radiofonica (nel senso che l'ascoltatore sottoposto alla prova poteva esprimere giudizi di soddisfazione o di fastidio premendo tasti diversi). La necessità di misurazione degli effetti introdotta da Lazarsfeld, bisogna aggiungere, è alla base di una vocazione empirica (che lo stesso Lazarsefd definiva "ricerca amministrativa") che ha tradizionalmente differenziato la sociologia della comunicazione nordamericana dalla sociologia europea.

Le sue opere più significative sono: Radio and the Printed Page (1940), Radio Research (1943, con F. Stanton), The People's Choice (1944, con B. Berelson e H. Gaudet).

Per saperne di più: E. Cheli, La realtà mediata. L'influenza dei mass-media tra persuasione e costruzione sociale della realtà, Franco Angeli, 1992; G. Losito, Il potere dei media, La Nuova Italia Scientifica, 1994; R. K. Merton (a cura di), Qualitative and Quantitative Social Research: Papers in Honor of Paul F. Lazarsfeld, Free Press, 1980; M. Wolf, Teorie delle comunicazioni di massa, Bompiani, 1985.

Pierre Lévy

Pierre Lévy (1956), professore prima nel dipartimento Hypermédia dell'Università di Parigi VIII e poi nel dipartimento di Comunicazione dell'Università del Quebec, filosofo, allievo di alcuni importanti intellettuali della cultura francese (Serres e Castoriadis), nella seonda metà degli anni novanta è stato considerato - ormai lo si può dire: frettolosamente - come il più quotato studioso europeo nel campo delle comunicazioni di massa e, in particolare, della cultura informatica. Infatti gli studi di Lévy sono dedicati al rapporto tra le culture tradizionali ed i prodotti dell'innovazione tecnologica, come il computer e la Rete telematica.

Lo scopo di Lévy è mostrare come le tecnologie dei nuovi media siano perfettamente conciliabili alle funzioni fondamentali della vita umana (Le tecnologie dell'intelligenza), e come possano anzi costituire un compimento ed una realizzazione di queste funzioni. In questo senso, naturalmente, non si possono considerare le nuove tecnologie come artefatti esterni alla vita dell'uomo. Infatti l'idea di Lévy è che la tecnologia sia del tutto complementare alla società, in quanto entrambe costruzioni "artificiali" (o meglio: virtuali) che l'uomo utilizza per definire il proprio ambiente di vita che è quindi, per l'appunto, un ambiente virtuale (Il virtuale).

Le possibilità offerte dalle nuove tecnologie interattive (che consentono, tramite Internet, un accesso diretto e non controllato all'informazione) sono tali da aprire, secondo Lévy, una nuova fase "antropologica", in cui l'uomo può realizzare tutte le proprie esigenze di autorealizzazione (fino ad ora frustrate) proprio grazie ad un nuovo e più diretto rapporto con la tecnologia (L'intelligenza collettiva). Anche se molto intrigante (e bene argomentata) l'idea di Lévy sembra - comunque la si guardi - fin troppo ottimistica, e poco sensibile ai rischi di esclusione generati dalle nuove tecnologie dell'informazione.

Le sue opere più riuscite sono: Le tecnologie dell'intelligenza (1990), L'intelligenza collettiva. Per un'antropologia del cyberspazio (1994), Il virtuale (1996), Cyberculture (1997).

Per saperne di più: F. Berardi, Introduzione a P. Lévy, Le tecnologie dell'intelligenza (1990), Synergon, 1992; P. Lévy, M. Autier, Les arbres de connaissances, La Découverte, 1992.

Marshall McLuhan

Herbert Marshall McLuhan (1911-1980) è stato l'interprete più noto e più rivoluzionario dell'epoca delle comunicazioni di massa. Canadese, studioso di letteratura e critico teatrale di formazione (si era occupato soprattutto di Shakespeare), McLuhan ha applicato alla ricerca sui media un metodo del tutto particolare e difficilmente ripetibile. Animatore principale della Scuola di Toronto, lo studioso canadese ha sovvertito in modo radicale gli orientamenti principali della sociologia della comunicazione, trasformando la ricerca sui contenuti della comunicazione nella ricerca sulla qualità dei media.

Secondo McLuhan, "il mezzo è il messaggio", nel senso che un mezzo di comunicazione determina una precisa visione della realtà (partecipativa nel caso dell'oralità, distaccata e scientifica con la scrittura, di nuovo tattile con l'oralità dei media elettronici) e deforma irrimediabilmente i propri contenuti. A ben vedere, McLuhan non è realmente (come spesso si sostiene) un autore entusiasta, ma è invece consapevole della complessità delle relazioni tra l'uomo e le proprie "estensioni tecnologiche". Infatti la sua idea è che i media siano, appunto, estensioni di un senso - la vista per la scrittura, l'udito per la radio, il tatto per la tv, e così via - e che quindi costringano l'uomo ad un determinato rapporto con la realtà sociale.

Una caratteristica essenziale di McLuhan è la sua quasi totale assenza di metodo e di rigorosità scientifica. Questo è, naturalmente, il suo difetto principale: ma è anche, paradossalmente, il suo merito e la ragione della sua popolarità. Perché soltanto una propaganda intensa e anti-istituzionale come quella di McLuhan poteva ribaltare i termini del dibattito scientifico, facendo dei mezzi di comunicazione non più un valore di sfondo ma l'oggetto principale della ricerca sociale. A diversi decenni dalla sua predicazione, infatti, fare a meno di McLuhan non è ancora possibile.

Le sue opere fondamentali sono: La sposa meccanica (1951), La galassia Gutenberg. Nascita dell'uomo tipografico (1962), Gli strumenti del comunicare (1964), Dall'occhio all'orecchio (1982).

Per saperne di più: AA.VV., I conti con McLuhan trent'anni dopo, "Problemi dell'informazione", 3, 1997; G. Bechelloni, L'immaginario quotidiano. Televisione e cultura di massa in Italia, Eri, 1984; G.Gamaleri, La galassia McLuhan. Il mondo plasmato dai media, Armando, 1995; M. McLuhan, E. McLuhan, La legge dei media (1988), Edizioni Lavoro, 1994.

Edgar Morin

Edgar Morin (1921) è uno dei maggiori sociologi viventi ed uno dei massimi studiosi della cultura di massa. Insignito della laurea honoris causa dalle università di diversi paesi europei, già coordinatore di alcune riviste ("Arguments", "Communications"), ha diretto a lungo il Centro di Studi Interdisciplinari all'École des Hautes Études di Parigi, ed è oggi considerato, in assoluto, uno degli studiosi più prestigiosi nell'area delle scienze umane.

La ricerca di Morin è molto complessa, e si articola in diverse fasi: l'analisi delle culture contemporanee e delle dinamiche della società di massa (L'industria culturale; Le star), lo studio dell'immaginario (Il cinema o l'uomo immaginario) e del rapporto tra essere sociale ed essere biologico (L'uomo e la morte), ma anche dei problemi metodologici della sociologia (Il metodo, 1991-1997). Al termine di questa riflessione, com'era forse inevitabile, Morin ha proposto, tra anni ottanta e anni novanta, una vera e propria rifondazione del pensiero, necessaria per comprendere i problemi più urgenti della fine del XX secolo (Penser l'Europe, 1987).

Rispetto alla ricerca sulle comunicazioni di massa, il contributo più interessante di Morin risale agli anni sessanta, quando il sociologo francese ha fornito un'importante legittimazione dell'industria culturale di massa, mostrando come essa non sia imposta ai consumatori (come sostenuto da quasi tutti gli intellettuali), ma sia invece il frutto di una continua negoziazione tra le esigenze della produzione industriale e quelle del pubblico di massa: una negoziazione che produce, come risultato, esattamente gli stereotipi di cui si costituisce la cultura audiovisiva di massa.

Tra le opere di Morin, le più importanti sono: L'uomo e la morte (1951), Le star (1955), L'industria culturale (1962), Il paradigma perduto (1972), Il cinema o l'uomo immaginario (1978), Sociologia (1994).

Per saperne di più: A. Abruzzese, A. Miconi, Zapping. Sociologia dell'esperienza televisiva, Liguori, 1999; F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Bompiani, 1993; M. Kofman, Edgar Morin, Pluto, 1996; G. Lipovetsky, L'impero dell'effimero. La moda nelle società moderne (1987), Garzanti, 1989.

David Morley

Il ricercatore inglese David Morley è stato probabilmente l'interprete più efficace della "svolta etnografica" seguita dalla ricerca empirica sui media, a seguito della forte opera di mobilitazione dei cultural studies britannici (nati nel secondo dopoguerra intorno alla Scuola di Birmingham). Nel corso degli anni ottanta, Morley ha infatti messo a punto alcuni modelli di ricerca molto fortunati, che rappresentano al meglio le ragioni e le ambizioni di questa "svolta" metodologica.

La prima ricerca è stata condotta da Morley sul pubblico del programma di attualità "Nationwide" (1980), per mostrare - come puntualmente si è verificato - che i diversi segmenti del pubblico interpretano in modo diverso uno stesso messaggio. In realtà, questa ricerca è stata molto contestata, e a ragione, sul piano metodologico: in ogni caso, l'obiettivo di mostrare la "polisemia" del testo audiovisivo era certamente raggiunto.

Più riuscita è stata invece la ricerca di Morley su "Family Television" (1986), condotta attraverso una serie di interviste non strutturate, sul tema della tv, in diciotto nuclei familiari paragonabili per condizioni etniche e socio-culturali. Questa ricerca ha mostrato l'esistenza delle cosiddette "pertinenze", cioè di un sistema di aspettative che appartiene al pubblico e che precede l'emissione delle informazioni: l'analisi del contesto di fruizione, che può rivelare queste pertinenze, diviene così necessaria per comprendere il ruolo dei media (non più riconducibile soltanto ai poteri della produzione editoriale o industriale). La "svolta etnografica" è giunta al suo compimento ideale.

Le opere più importanti di Morley sono: The "Nationwide" Audience (1980), Family Television (1986), Communication and Contexct (1991, con R. Silverstone), Television, Audience and Cultural Studies (1992).

Per saperne di più: R. Grandi, I mass media tra testo e contesto, Lupetti & Co., 1994; M. Jancovich, David Morley, The Nationwide Studies, in M. Barker, A. Breezer (a cura di), Reading into Cultural Studies, Routledge, 1992; S. Moores, Il consumo dei media. Un approccio etnografico, il Mulino, 1998.

Paul Watzlawick

Paul Watzlawick (1921), tra i tanti studiosi che si sono occupati di comunicazione, è certamente uno dei più atipici. Austriaco di nascita, ha studiato tra l'Italia e la Svizzera, ha insegnato psicoterapia a Filadelfia e a El Salvador, ed è attualmente professore di psichiatria alla Stanford University e all'Istituto di Ricerca Mentale di Palo Alto (ed è, appunto, il massimo rappresentante della cosiddetta "Scuola di Palo Alto").

Watzlawick giunge allo studio della comunicazione passando appunto per la psichiatria. La sua idea, infatti, è che le malattie mentali non nascano nell'individuo, ma dipendano invece dal suo rapporto con l'ambiente sociale. Questo rapporto è legato però ad un processo comunicativo: infatti tutta la realtà sociale è fatta di comunicazione, perché ogni comportamento comunica qualcosa, compreso il silenzio (di qui la fortunata conclusione sul fatto che è "impossibile non comunicare"). Comprendere la comunicazione, quindi, significa comprendere e risolvere le patologie di cui soffrono gli individui (Pragmatica della comunicazione umana).

Watzlawick, com'è ovvio, non si occupa di comunicazioni di massa. Tuttavia il suo metodo è significativo, anche perché mostra la crescente attenzione che tutte le discipline delle scienze umane hanno dovuto rivolgere alla comunicazione. La conclusione dello psichiatra austriaco, in questo senso, è di fondamentale importanza: Watzlawick afferma infatti che è proprio la comunicazione a costruire la realtà (La realtà della realtà), come dimostrano alcuni esempi più o meno verosimili (Watzlawick usa anche dei casi-limite, parlando della comunicazione tra uomini e orsi e tra uomini ed extraterrestri) in cui un piccolo difetto comunicativo costruisce un sistema di realtà completamente diverso dal previsto.

Tra le sue opere, vanno ricordate: Pragmatica della comunicazione umana (1967, con H. Beavin e D. Jackson), Change (1974, con J. H. Weakland e R. Fisch), La realtà della realtà (1975), Il linguaggio del cambiamento (1977), La realtà inventata (1988).

Per saperne di più: J. Fredenborg, Paul Watzlawick: A Bibliography (disponibile in Internet al sito www.amazon.com); P. Watzlawick, G. Nardone, L'arte del cambiamento, Ponte alle Grazie, 1990.

Raymond Williams

Raymond Williams (1921-1988), storico della cultura, critico letterario e sociologo inglese di area marxista, è stato tra i fondatori e tra gli esponenti più significativi dei cultural studies, nati nel secondo dopoguerra intorno all'Università di Birmingham, con lo scopo di analizzare la cultura delle società complesse. Se l'obiettivo di questa scuola era di conciliare (finalmente) il sapere sui media alla pratica dei media (facendo nascere quindi il sapere da un'analisi accurata dei processi sociali e non da costruzioni teoriche astratte), Williams ne è stato un interprete ideale: al punto che le sue teorie sulla televisione nascono nella sua esperienza di critico televisivo per alcuni quotidiani britannici.

L'idea di Williams è che la rivoluzione industriale abbia creato una frattura decisiva nella storia della civiltà occidentale, portando ad una valorizzazione del nucleo domestico privato e insieme ad una maggiore mobilità (fisica e sociale) degli individui (Williams parla infatti di "privatizzazione mobile"). Se si considera l'origine della modernità, è allora errato interrogarsi sul rapporto di causalità tra tecnologia e società: nel senso che esse sono due parti complementari di uno stesso processo di evoluzione (la tv, come recita il sottotitolo di un suo libro, è appunto "tecnologia" ma anche "forma culturale"). L'unico metodo per comprendere la cultura di massa, allora, è la "storia sociale" delle tecnologie, cioè una riflessione che tenga conto dei diversi fattori chiamati in causa nell'evoluzione quotidiana della società industriale avanzata. Metodo messo in atto puntualmente da Williams, con una delle più convincenti intepretazioni storico-sociologiche della televisione.

Le sue opere fondamentali sono: La lunga rivoluzione (1961), Televisione. Tecnologia e forma culturale (1974), Keywords (1976), Marxismo e letteratura (1977), Sociologia della cultura (1981).

Per saperne di più: R. Grandi, I mass media tra testo e contesto, Lupetti & Co., 1994; S. Laing, Raymond Williams and the Cultural Analysis of Television, "Media Culture & Society", 13, 1991; C. Spada, Introduzione a R. Williams, Televisione. Tecnologia e forma culturale (1974), De Donato, 1981.

2. Storia e preistoria dei media

2.1 La radio

Le società moderne, quelle nate dalla rivoluzione industriale, hanno avvertito come bisogno fondamentale l'urgenza di comunicare a distanza, per raggiungere nuove porzioni di territorio e per superare i problemi organizzativi legati allo sviluppo delle istituzioni complesse. La storia della comunicazione moderna è costituita dalle diverse soluzioni che la civiltà occidentale ha ideato per questa urgenza. E' ormai opinione diffusa che questa storia inizi con il telegrafo ottico, messo a punto nel 1973 dal francese Claude Chappe (1763-1805). La sua invenzione consisteva in una serie di postazioni (ovviamente tra loro visibili, e quindi dislocate ad una distanza ancora relativa) in grado di trasmettersi l'informazione attraverso i particolari movimenti di un braccio meccanico, ed era utilizzata soprattutto per scopi militari (cioè per comunicare tra il fronte e le retrovie, o tra le province e il distretto centrale). I limiti di impiego del telegrafo ottico sono molto evidenti: tuttavia con la sua ideazione, per la prima volta nella storia occidentale, l'informazione poteva viaggiare ad una velocità maggiore rispetto a quella dell'uomo (infatti i messaggi inviati tramite il telegrafo meccanico erano più veloci dei tradizionali messaggeri a cavallo).

Il telegrafo elettrico è stato invece brevettato nel 1837 dal pittore americano Samuel Morse (1791-1872), impegnato nella ricerca tecnologica in modo dilettantistico ma molto produttivo (come molti inventori dell'Ottocento). La prima sperimentazione effettiva del nuovo mezzo si è avuta nel 1844, quando il primo messaggio elettrico ("Quante meraviglie ha creato Dio") è stato trasmesso tra Washington e Baltimora. Qualche decennio più tardi, nel 1876, Alexander Bell (1847-1922) metteva a punto il telefono (sfruttando alcuni studi precedenti, tra cui quelli di Meucci). Intanto, diversi scienziati avevano studiato in modo sempre più approfondito i fenomeni del magnetismo e della propagazione elettrica, che si sarebbero dimostrati decisivi per lo sviluppo delle comunicazioni. Non rimaneva che miscelare correttamente questi elementi, per ottenere la radio.

Guglielmo Marconi (1874-1937) aveva appena vent'anni quando ideò la trasmissione di informazione lungo le onde elettromagnetiche (o "hertziane"), intuite dal matematico James Maxwell (1831-1879) e poi scoperte da Heinrich Hertz (1857-1894). Lavorando ad un rudimentale apparecchio nel giardino di casa, Marconi ha realizzato (tra il 1896 e il 1897) il primo telegrafo in grado di trasmettere senza fili. Anche se Marconi è considerato (seppure non unanimemente) l'inventore della radio, va detto che le sue ricerche appartengono ad un periodo in cui la comunicazione radiofonica stava gradualmente prendendo corpo, attraverso diversi esperimenti e diversi prototipi, come il ricevitore di onde hertziane messo a punto dall'ingegnere russo Alexandre Popov (1859-1905). A questo punto, la comunicazione radiofonica era giunta alla sua maturità: nel 1901 Marconi inviò il primo segnale senza fili attraverso l'Atlantico (tra le stazioni poste in Cornovaglia e a Terranova), al 1906 risale la prima trasmissione radiofonica della voce umana, e nello stesso periodo Lee De Forest (1873-1961) mise a punto la valvola, che amplificando i segnali in entrata ed in uscita, ha trasformato il telegrafo senza fili in un vero apparecchio radiofonico. Allo scoppio della prima guerra mondiale, di fatto, la radio era già considerata come una fondamentale arma strategica.

A differenza dei media precedenti, la comunicazione radiofonica (sfruttando come supporto onde elettromagnetiche di una precisa frequenza) poneva però degli urgenti problemi di regolamentazione, necessari ad impedire il più possibile le interferenze tra trasmissioni diverse. Questa urgenza è stata avvertita da subito, al punto che la prima conferenza dell'Unione internazionale delle telecomunicazioni risale al 1906 (con sede a Berlino), e fu seguita da molte altre che avevano lo stesso scopo di regolamentare la distribuzione delle radioonde e delle frequenze di trasmissione. La difficoltà di regolamentare la comunicazione radiofonica è precisamente il motivo per cui le nazioni in guerra e anche le minoranze politiche militanti hanno fatto un uso così massiccio della propaganda attraverso trasmissioni radiofoniche "pirata". Un miglioramento sensibile del servizio si è ottenuto con l'inizio della comunicazione via satellite (il primo satellite per trasmissione di informazione a uso civile, Telstar, è stato lanciato dalla Nasa nel 1962). Anche se non del tutto risolti, i problemi di interferenza nelle trasmissioni radiofoniche sono stati così ridotti, grazie anche ad una divisione razionale degli spazi a livello di comunicazione internazionale.

Una volta messa a punto e resa tecnicamente possibile la trasmissione radiofonica, rimaneva naturalmente da valutarne la ricaduta sulla società. Infatti il destino sociale della radio è stato particolare, e non del tutto prevedibile in base alle caratteristiche tecnologiche del mezzo. In Italia, la comunicazione radiofonica ha seguito il modello "broadcasting" (diffusione delle notizie da un singolo emittente verso il pubblico) già a partire dalle prime trasmissioni regolari, iniziate nel 1924 (con la nascita dell'Unione radiofonica Italiana, antenata della Rai, e del primo trasmettitore di San Filippo, inaugurato a Roma il 6 ottobre). In realtà, lo Stato si era assicurato il monopolio delle trasmissioni radiofoniche già nel 1910, prima ancora dell'inizio delle trasmissioni, in base ad un accordo con lo stesso Marconi, ed avrebbe utilizzato questo diritto per attuare (seppure con molte difficoltà) la politica culturale del fascismo. Organizzata in due canali pubblici a partire dalla Liberazione, la comunicazione radiofonica avrebbe poi accompagnato lo sviluppo dell'industria culturale italiana, fino a conoscere la sua piena liberalizzazione con l'avvento delle reti private negli anni settanta. In ogni caso, dall'interesse dello Stato italiano per le ricerche di Marconi era nato il presupposto per il monopolio pubblico che, per la radio come per la televisione, ha poi caratterizzato la gestione della comunicazione nei paesi europei.

Molto diverso è il caso degli Stati Uniti, dove la comunicazione radiofonica (così come poi quella televisiva) è stata da subito gestita dai soggetti privati, riuniti in comunità informali di radioamatori. Queste comunità sfruttavano, di fatto, le potenzialità della radio in quanto apparecchio ricevente e trasmittente, ed avevano così stabilito una rete di relazioni che li rendeva simili ai gruppi di discussione che si riuniscono oggi in Internet, più che a quello che sarebbe diventato il pubblico radiofonico. Tuttavia questo uso della radio era limitato appunto a piccole comunità, mentre il desiderio più diffuso nella società (a differenza di quanto accaduto proprio nel caso delle reti telematiche) era quello di un mezzo in grado di trasmettere musica e informazione in tutte le case.

Il primo a comprendere le potenzialità della radio come modello "broadcasting" è stato un giovane ingegnere, David Sarnoff, dipendente della American Marconi Company (la società nata per sfruttare negli Stati Uniti i diritti dell'invenzione di Marconi), e già conosciuto per avere ricevuto nel 1912 l'Sos del Titanic. Sarnoff propose di trasformare la radio da apparecchio trasmittente ad apparecchio ricevente ad uso domestico, da utilizzare appunto per diffondere musica nelle case (il cosiddetto "radio music box"). Dopo la nascita della RCA (Radio Corporation of America), in cui lo stesso Sarnoff ebbe un ruolo rilevante, nel 1921 iniziarono a New York le trasmissioni radiofoniche regolari.

Una volta perfezionata, la comunicazione radiofonica ha vissuto due fasi fondamentali, la prima di grande rilevanza politica (anni '30 e '40) e la seconda di grande rilevanza sociale (a partire dagli anni '50). La radio è stata infatti fatta oggetto di grandi investimenti da parte dei poteri pubblici, e nell'epoca dei totalitarismi e poi nella seconda guerra mondiale ne è stato fatto un uso sistematico per scopi di propaganda. Infatti anche se le nazioni coinvolte nei conflitti avevano usato per i loro scopi tutti gli strumenti disponibili (cinema, stampa quotidiana, volantini, perfino il fumetto), nessun mezzo è così indicativo della stagione della propaganda come la radio, che - consentendo la trasmissione delle informazioni anche nei territori occupati dagli avversari - sembrava costituire la migliore arma di penetrazione culturale.

Con la fine della seconda guerra mondiale, la radio ha perso il suo ruolo strategico per essere definitivamente convertita all'intrattenimento e al consumo quotidiano. La radio ha avuto infatti una funzione fondamentale nella società: quella di fornire una nuova localizzazione al consumo culturale, portandolo all'interno del domicilio privato (mentre cinema e teatro erano ancora vincolati ad un preciso spazio di rappresentazione), e preparando così l'avvento della televisione. Quando invece la radio è uscita dalle case, con la produzione della radio portatile e poi dell'autoradio (resa possibile dall'invenzione del transistor, messo a punto nel 1948) ha operato una ulteriore localizzazione del consumo, svincolando l'ascolto dall'ordinamento gerarchico della famiglia e favorendo quindi nuove forme di aggregazione e nuovi comportamenti giovanili (soprattutto a partire dagli anni cinquanta, con la diffusione del rock'n'roll).

Tutto questo rende necessaria una considerazione (peraltro ormai accettata dagli storici dei media): e cioè che la televisione, a dispetto di molte previsioni (e di molte idee sul suo presunto impatto catastrofico) non ha sostituito la radio ma si è invece affiancata ad essa, trasformandola e spingendola ad esplorare nuovi spazi. La radio è infatti sopravvissuta (godendo tutto sommato di buona salute e di buon ascolto, soprattutto presso i giovani) sfruttando al meglio le fasce orarie (o "nicchie" di programmazione) deboli della televisione (alcune ore della mattina e del pomeriggio) e, più ancora, gli spazi domestici ed extradomestici che la televisione non riesce a raggiungere (e che la radio, con i supporti dell'autoradio, del walkman e della filodiffusione può invece coprire). E' allora probabile che sul filo di queste e di nuove trasformazioni si giocherà (anche nella cosiddetta "epoca digitale") il destino della radio come mezzo di localizzazione dei consumi culturali e musicali.

2.2 Il telefono

Quando si parla di mezzi di comunicazione di massa (comprendendo in questo termine stampa, cinema, radio e televisione) spesso si esclude, arbitrariamente, il telefono, mortificando l'importanza che questo medium ha avuto nello sviluppo delle società industriali avanzate. Tra tutti i media tradizionali, infatti, il telefono è l'unico mezzo realmente interattivo, che permette cioè un rapporto diretto e paritario tra due interlocutori (mentre gli altri media seguono un modello diffusivo, con un centro ed una periferia). Non è infatti casuale che le forme attuali di interattività si siano servite proprio del telefono, sia nel caso dell'interattività simulata (nel senso che la partecipazione del pubblico ai programmi televisivi e ai sondaggi è stata possibile per via telefonica) che di quella effettiva (infatti anche Internet sfrutta il supporto delle linee telefoniche). Un'altra interessante applicazione della telefonia è il fax, ignorato per un lungo periodo e poi soggetto, negli ultimi anni, ad una riscoperta improvvisa e sorprendente. L'evidenza assunta oggi da questi fattori, insieme al clamoroso boom della telefonia cellulare, non può che riportare in primo piano il telefono, ed il ruolo che questo mezzo ha giocato nel corso della sua storia sociale.

Anche se il primo apparecchio per trasmettere segnali acustici denominato "telefono" è stato ideato alla fine del XVIII secolo, l'inventore della telefonia moderna è Antonio Meucci (1808-1889), che, dopo avere svolto svariate professioni, iniziò a lavorare alla sua invenzione intorno alla metà del XIX secolo. Meucci brevettò il telefono nel 1871 negli Stati Uniti, ma riuscì a confermare questo brevetto (a scadenza annuale) soltanto per due anni, e dovette rinunciare per assenza di fondi nel 1874. Nel 1876, esattamente nello stesso giorno, il brevetto del telefono viene depositato da due scienziati americani, Elisha Gray (1835-1901) e Alexander Graham Bell (1847-1922): di questi, tuttavia, soltanto il secondo avrebbe realmente messo a punto la telefonia.

Il prototipo di Bell si basava sulla trasmissione del suono attraverso la variazione di intensità di due campi magnetici, e su una speciale membrana in grado di convertire appunto la parola in una vibrazione (nell'apparecchio emittente) e poi di riconventirla in parola (nell'apparecchio ricevente). La nascita del telefono era quindi strettamente legata (come tutta la comunicazione moderna) agli studi compiuti da alcuni scienziati, in particolare James Maxwell (1831-18979) e Heinrich Hertz (1857-1894), sulla trasmissione delle onde elettromagnetiche. Nel 1886, intanto, la Corte Suprema degli Stati Uniti avrebbe riconosciuto la priorità dell'invenzione di Meucci, senza peraltro poter intervenire concretamente sullo sfruttamento dei diritti (proprio in quanto il brevetto registrato dall'inventore italiano era scaduto).

Oltre che abile inventore, Bell si dimostrò in grado di sfruttare commercialmente l'invenzione del telefono, scegliendo come ribalta per le prime dimostrazioni l'Esposizione universale tenuta a Filadelfia nel 1876. E già nell'anno successivo, Bell era riuscito a perfezionare il proprio dispositivo, riuscendo a trasmettere il suono alla distanza (molto rilevante per l'epoca) di oltre venti chilometri. Nel 1878 comparve così a New Haven, negli Stati Uniti, il primo rudimentale centralino, basato sul meccanismo della commutazione manuale, in grado di raccogliere ventuno utenze telefoniche. Il primo centralino europeo, inaugurato nel 1879, fu quello di Parigi: in Italia si dovette aspettare invece il 1889, quando venne costruita a Milano la prima centrale telefonica. Per uno sviluppo reale della telefonia, in realtà, si sarebbe dovuta attendere la sostituzione del centralino a commutazione manuale con quello automatico (che permetteva di selezionare direttamente il destinatario della chiamata anziché richiederlo al centralino). Utilizzato alla fine dell'ottocento solo da alcune utenze privilegiate (come il Vaticano, che disponeva di un modello evoluto già negli anni ottanta del XIX secolo), il centralino a commutazione automatica si è diffuso soltanto nel primo quindicennio del ventesimo secolo.

Prima di diventare un mezzo di massa, il telefono (come tutti o quasi tutti i media) ha vissuto una fase sperimentale, nel corso della quale è stato adottato solamente da alcune porzioni della società. Molto particolare è stata la curva di diffusione del telefono negli Stati Uniti, dove il nuovo mezzo è stato inizialmente destinato soprattutto a scopi professionali, ed è stato utilizzato dai privati quasi esclusivamente per l'ordinazione di merci e prodotti (cioè ancora per ragioni di servizio). Non sorprende quindi che la massima concentrazione di telefoni fosse registrata negli alberghi, al punto che i grandi hotel di New York, già a fine ottocento, arrivavano a contare anche migliaia di chiamate giornaliere in uscita. Anche nella sua prima diffusione di massa, peraltro, il nuovo mezzo ha seguito negli Stati Uniti una curva di distribuzione molto particolare: la sua necessità è stata infatti avvertita nelle campagne prima ancora che nelle città, in quanto la comunicazione telefonica privata è stata considerata, nelle zone più soggette all'isolamento geografico (appunto le zone rurali) come un surrogato ideale della presenza fisica (laddove invece gli altri media di massa - stampa, cinema e televisione - si sono diffusi inizialmente nelle metropoli).

In ogni caso, la diffusione del telefono negli Stati Uniti è stata relativamente rapida, nel senso che già il censimento del 1907 ne registrava un'apprezzabile penetrazione, con una copertura vicina al 100% del territorio in alcuni Stati dell'unione. In Europa la diffusione del telefono è stata invece più lenta, e condizionata in misura perfino maggiore dalla stratificazione sociale. Tra la fine dell'ottocento e la prima metà del novecento, infatti, il telefono era un servizio di lusso destinato esclusivamente alle classi privilegiate dell'aristrocrazia e della ricca borghesia industriale. Con il miglioramento dei servizi e con la diffusione del benessere economico, naturalmente, questo squilibrio è stato progressivamente sanato. Tuttavia la diffusione (letteralmente) di massa del telefono, in Europa, è una conquista molto recente: ancora nel 1970, infatti, negli Stati Uniti esistevano 56 telefoni ogni 100 abitanti, mentre (sempre rispetto a 100 abitanti) ne esistevano solo 20 in Germania e appena 16 in Francia e in Italia.

Come tanti altri mezzi di comunicazione di massa, anche il telefono è stato eletto a simbolo del progresso occidentale e dell'innovazione tecnologica. La costruzione del primo cavo transatlantico per la trasmissione telefonica (1956) e il lancio del primo satellite utilizzabile per le telecomunicazioni (1962) hanno aperto una nuova epoca, in cui il telefono ha costituito uno dei mezzi di inteconnessione tra le diverse parti del pianeta (molto significativa di questa connessione era la cosiddetta "linea rossa", che metteva in contatto diretto i governi di Mosca e di Washington).

Gli sviluppi più recenti della comunicazione telefonica sono però legati, naturalmente, alla telefonia cellulare, apparsa timidamente negli anni ottanta e poi diffusa (in modo forse imprevedibile) nel corso degli anni novanta. Anche in questo caso, lo sviluppo è stato molto più rapido negli Stati Uniti che in Europa: negli Usa è stata infatti superata la quota di tre milioni di telefoni portatili già nel 1989, con un incremento straordinario rispetto agli anni precedenti (nel 1984, infatti, non era stata ancora raggiunta la quota di 100.000 cellulari).

Negli ultimi anni, comunque, la telefonia cellulare ha trovato anche in Europa un terreno di diffusione molto favorevole. In modo particolare, il nuovo mezzo ha avuto un notevole successo in Italia, dove nel 1998 si contavano circa 17 milioni di telefoni cellulari (contro i 10 della Germania, i 9 della Gran Bretagna e i 7 della Francia), saliti addirittura a 25 milioni a metà del 1999. Un dato, questo, che può essere giustificato soltanto dalla fortissima tradizione orale degli italiani, appena intaccata da un'alfabetizzazione tardiva, e già riscoperta dalla televisione (che in Italia ha avuto infatti un successo altrettanto clamoroso). Un caso ancora più particolare è quello del Giappone, dove il numero enorme di telefoni cellulari (addirittura 39 milioni) ha posto perfino alcuni problemi di inquinamento ambientale (al punto che sul mercato delle metropoli giapponesi ha avuto grande successo un apparecchio per schermare il segnale dei telefoni portatili).

Dopo essere stato a lungo sottovalutato, il telefono ha così guadagnato la sua centralità nel mercato delle comunicazioni di massa. La fusione tra informatica e telecomunicazioni ("telematica"), il successo della telefonia cellulare e la diffusione della rete Internet hanno fatto della comunicazione telefonica uno dei nodi essenziali dello sviluppo tecnologico e industriale (come ha dimostrato, in Italia, la lunga trattativa per l'acquisto di Telecom). Al punto che all'innegabile importanza sociale del telefono corrisponde oggi - forse per la prima volta - un'effettiva rilevanza istituzionale.


2.3 Il cinema

Il cinema costituisce il compimento ultimo di uno dei desideri più sentiti dall'uomo, quello di catturare e riprodurre l'immagine. Nei secoli passati, infatti, sono stati avanzati diversi tentativi di riproduzione artigianale dell'immagine, il più celebre dei quali è sicuraramente la "camera obscura": una scatola chiusa, di forma rettangolare, dotata di un foro per lasciare entrare la luce, e in grado di riprodurre l'immagine capovolta. E' stato Leonardo da Vinci (1452-1519) a perfezionare questo dispositivo, aggiungendo una lente per concentrare la luce e, soprattutto, uno specchio in grado di ribaltare l'immagine (mostrandola così non più capovolta ma nelle sue corrette proporzioni).

Nel momento in cui la tecnologia ha reso possibile la riproduzione dell'immagine, quindi, il problema maggiore non era quello di costruire il proiettore (già sostanzialmente disponibile), ma quello di costruire una pellicola in grado di fissare l'immagine riprodotta. Fondamentale, in questo senso, è stato il contributo del fisico francese Nicéphore Niepce (1765-1833), che, usando lastre di metallo bagnate in una sostanza reagente alla luce (il cloruro d'argento), arrivò a produrre la prima fotografia della storia (1827). Niepce non ottenne tuttavia grandi riconoscimenti, e fu anzi rapidamente scalzato dal connazionale Daguerre (1787-1851), con il quale aveva inizialmente collaborato. Daguerre mise a punto la fotografia nel 1839, contemporaneamente (a conferma di quanto questa invenzione fosse avvertita come necessaria) agli inglesi William Talbot (1800-1877) e John Herschel (1792-1871). Daguerre usava una lastra di rame ricoperta da una sostanza fotosensibile (lo ioduro d'argento), che veniva modificata dalla luce intensa (e rimaneva invece inalterata se colpita da luce più debole) rimanendo così impressionata. La fortuna della "dagherrotipia" messa a punto dall'inventore francese è tutto sommato singolare, perché il suo apparecchio non era superiore a quelli di Talbot e di Herschel: questi ultimi usavano infatti carta fotosensibile, e ottenevano quindi dei negativi stampabili in serie (mentre Daguerre, lavorando su lastre di metallo, produceva degli esemplari unici).

In ogni caso la fotografia, che aveva già conosciuto un notevole successo, avrebbe ottenuto la sua massima diffusione con la macchina amatoriale "Kodak", lanciata nel 1888 da George Eastman (1854-1932): mettendo a punto una pellicola flessibile in celluloide, Eastman aveva infatti reso l'apparecchio più facile da trasportare e da utilizzare, mettendolo quindi a diposizione di tutti (dilettanti compresi). Ma per passare dalla fotografia al cinema, naturalmente, era necessario restituire il movimento alle immagini riprodotte. Anche in questo caso, in realtà, il cinema è stato anticipato da una lunga serie di dispositivi artigianali: molto riuscito, in particolare, era il cronofotografo a pellicola (messo a punto nel 1888 da Marey), in grado di rendere appunto il movimento delle immagini.

Il primo autentico "industriale" del cinema è stato tuttavia l'americano Thomas Alva Edison (1847-1931), brillante inventore del "cinetoscopio", e tuttavia incapace di tradurre la sua invenzione in un'offerta significativa per il mercato del consumo (allo stesso modo, Edison aveva realizzato nel 1877 il fonografo, senza però comprenderne le potenzialità commerciali, e vedendolo così superato dal grammofono di Berliner). Sfruttando la pellicola in celluloide flessibile di Eastman, in ogni caso, Edison aveva inventato sia il proiettore che la cinepresa (cioè tutti i mezzi tecnicamente indispensabili al cinema), brevettando il cinetoscopio nel 1891.

Edison cercò di farsi impresario oltre che inventore, ed aprì la sua prima sala di proiezione (denominata anch'essa cinetoscopio) a New York nel 1894. In questa sala (che comprendeva dieci schermi), ogni spettatore usufruiva di una proiezione individuale: Edison aveva inventato il cinema, quindi, ma non aveva compreso la dimensione collettiva e aggregativa a cui questo medium era destinato. Questa è la ragione per cui i veri genitori del cinema sono considerati i fratelli Lumiére, Louis (1864-1948) e Auguste (1862-1954), che ne avevano compreso non solo il funzionamento ma anche il destino sociale.

Da un punto di vista tecnologico, infatti, i Lumière proposero un'innovazione rilevante ma sicuramente relativa rispetto alle invenzioni di Edison. Adattando il comando usato per premere la stoffa nelle macchine per cucire, i Lumière avevano infatti ottenuto un dispositivo per lo scorrimento a scatti della pellicola, regolarizzando così il movimento delle immagini in una misura standard (sedici fotogrammi al secondo) che sarebbe stata seguita per molto tempo. Dopo avere brevettato il cinematografo (1892) i Lumière prepararono la prima dimostrazione del nuovo mezzo il 22 marzo 1895, e sempre a Parigi, il 28 dicembre successivo, organizzarono in Boulevard des Capucines la prima proiezione pubblica. La tecnica cinematografica, naturalmente, era ancora molto rudimentale (come nel celebre Arrivo del treno alla stazione di La Ciotat, del 1895): tuttavia, in compenso, il cinematografo dei Lumière (così si chiamava anche la sala di proiezione) era assai più moderno e più funzionale dei peep-show di Edison e delle prime sale americane, chiamate "nickleodeon" (in quanto il prezzo d'ingresso era, appunto, di un nichelino).

Tuttavia l'egemonia del cinema francese era destinata a breve vita: la prima guerra mondiale comportò un brusco arresto per tutta la produzione europea, e riportò in primo piano la posizione degli Stati Uniti (sul cui territorio non si era ovviamente combattuto). Il cinema nordamericano stava infatti vivendo una fase di grande trasformazione. Già nel 1913 Hollywood aveva ottenuto la sua piena autonomia, imponendosi come la massima potenzialità mondiale nel campo della produzione di immaginario. Tra gli anni venti e gli anni trenta il cinema statunitense completò la transizione dalla sua fase artigianale ad una compiuta maturità industriale: la migliore qualità della programmazione, l'aumento della durata dei film, la sostituzione dei vecchi nickleodeon con nuove e più moderne sale di proiezione, sono i diversi aspetti di un incremento generale della produzione che creava le premesse per la più grande industria di intrattenimento del mondo. Il passaggio è stato graduale, ma relativamente veloce. Nel 1926, la morte dell'attore Rodolfo Valentino scatenò l'isteria collettiva del pubblico femminile, mostrando la straordinaria popolarità acquisita dai divi hollywoodiani. Nel 1927, nel film Il cantante di jazz, comparve la colonna sonora (già sperimentata alle origini del cinema e poi abbandonata), e iniziò così il declino del cinema muto. Nel 1929 venne istituito il premio "Academy Award" (più conosciuto come premio Oscar), una straordinaria macchina di autocelebrazione che sanciva il predominio di Hollywood nell'industria cinematografica internazionale.

In realtà il cinema si era alimentato, già nei suoi primi decenni, di contributi diversi e di diverse tradizioni (lo sperimentalismo francese, l'espressionismo tedesco, la scuola italiana, il realismo sovietico, e così via). Tuttavia la definitiva trasformazione del cinema da esperienza artigianale ad arte industriale (prima con il sonoro e poi con il colore) ha portato inevitabilmente all'egemonia dei gruppi di Hollywood, già dotati di un affermato star-system all'inizio degli anni trenta. Rinforzato dalla seconda guerra mondiale (che aveva azzerato la produzione europea), il predominio dell'industria statunitense non è stato messo in discussione nemmeno nel dopoguerra (malgrado i moltissimi fermenti emersi sia in Europa che in altre zone, come l'Asia e l'America Latina).

Fino agli anni quaranta, quindi, il cinema ha vissuto una crescita praticamente costante: a partire dal secondo dopoguerra, invece, la sua posizione di predominio nel campo della produzione culturale è entrata gradualmente in crisi. Negli Stati Uniti, il cinema aveva raggiunto il massimo splendore alla fine degli anni quaranta, completando un'evoluzione che dalle 40.000 presenze settimanali del 1922 era giunto alle 60.000 presenze del 1932, e quindi alle 85.000 del 1944 e alle 90.000 del triennio 1946-1948, pari a oltre quattro miliardi di presenze annuali complessive nei cinema statunitensi. A partire dagli anni cinquanta, il dato delle presenze ha subìto invece un decremento costante, arrivando a 40.000 presenze settimanali medie già nel 1958 e a sole 20.000 nel 1975: dato, quest'ultimo, che (seppure con un andamento non sempre regolare) si è sostanzialmente mantenuto fino a tutti gli anni ottanta.

In Italia, il destino del consumo cinematografico ha seguito un andamento molto simile. Le presenze annuali sono infatti cresciute costantemente, raddoppiando quasi tra il 1946 ed il 1950 (da 417 milioni a 801 milioni di biglietti venduti), per raggiungere poi il valore massimo nel 1955, con oltre 819 milioni di tagliandi. Da quel momento è iniziato un declino costante, graduale fino agli anni settanta (con un calo medio di presenze del 3% annuo), e invece drammatico e più accentuato negli anni ottanta (con un decremento medio superiore al 15% annuo). Il cinema ha quindi superato, da tempo, la sua fase aurea.

Come è evidente da questi dati, il calo nelle presenze al cinema è iniziato (in Europa come negli Stati Uniti) con l'avvento della televisione, ed è stato esasperato dalla diffusione della videoregistrazione domestica. Tuttavia sarebbe molto superficiale attribuire soltanto alla televisione il declino del cinema, che dipende in realtà da fattori più complessi: la diffusione di una nuova qualità culturale media e di "voci narranti" alternative (tra cui, ovviamente, la televisione), ma anche la graduale trasformazione della società su cui il cinema era riuscito a fare presa. Per questo, si può sostenere che il cinema è oggi in una fase di transizione, in cui per recuperare il fascino dei suoi periodi migliori sarà chiamato ad un utilizzo sempre più intenso dell'elettronica e della tecnologia avanzata, unici strumenti che possono permettergli di tornare ad essere (rispetto ad una società profondamente cambiata nel corso del secolo) la voce narrante della realtà e dell'immaginario.


2.4 La televisione

Anche se (per ovvi motivi) la si avvicina più frequentemente al cinema, la televisione ha sfruttato per molti versi la traccia della comunicazione radiofonica, sia sul piano tecnologico (visto che all'invenzione della televisione si è arrivati studiando la trasmissione delle onde elettromagnetiche) che su quello giuridico e legislativo (infatti le norme usate per regolamentare la radiofonia sono state spesso applicate al sistema televisivo). Anche se in realtà, come vedremo, presupposti fondamentali per l'invenzione della televisione sono anche le ricerche svolte alla fine dell'ottocento da William Crookes (1832-1919) e da Karl Braun (1850-1918) sulla fluorescenza dei raggi catodici.

La storia (o preistoria) della tv inizia proprio negli ultimi anni del XIX secolo, quando si è presa in esame la possibilità di utilizzare le proprietà fotoelettriche di alcune sostanze (soprattutto il selenio) per trasmettere e ricostruire a distanza l'immagine. Particolarmente avanzato era il prototipo costruito nel 1884 dall'ingegnere tedesco Paul Nipkow (1860-1940): l'immagine veniva scomposta in un fascio di luce che, attivando una cellula fotoelettrica, produceva la trasmissione di corrente. Alla ricezione, l'immagine veniva ricomposta attraverso un apposito disco: infatti la luce provocata dalla trasmissione elettrica era visibile soltanto attraverso i fori di questo disco, e riformava quindi l'immagine trasmessa (che era stata scomposta attraverso un disco analogo).

All'inizio del ventesimo secolo, la sperimentazione sulla trasmissione delle immagini è stata avviata in modo più sistematico, sia negli Stati Uniti che in molti paesi europei (Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania). Tra i ricercatori impegnati in questa fase di sperimentazione (peraltro ancora artigianale) i più noti sono l'ingegnere americano di origine russa Vladimir Zworykin (1889-1982) e il fisico scozzese John Baird (1888-1946), che con il suo prototipo di televisione meccanica era riuscito già nel 1926 (a Londra) a trasmettere una piccola immagine (su 28 linee).

Nel corso degli anni venti, tuttavia, al paradigma della televisione meccanica si era andato affiancando quella della televisione elettronica. Il progetto a cui diversi ricercatori iniziarono a lavorare consisteva nell'applicazione del tubo catodico di Braun ai dispositivi già sperimentati per la trasmissione delle immagini. Dopo avere conteso a Baird la paternità della televisione meccanica (riuscendo a trasmettere già nel 1927 alcune immagini, tra cui il simbolo del dollaro), Zworykin si è interessato a queste ricerche, costruendo nel 1934 un dispositivo per l'analisi elettronica dell'immagine ("iconoscopio") che sfruttava le proprietà del fascio catodico sia all'emissione che alla ricezione del segnale. Baird, nel frattempo, aveva preferito ancora lo standard meccanico, vedendo fatalmente superato il proprio modello dall'iconoscopio di Zworykin.

Negli anni trenta, i problemi tecnici legati alla ricerca sulla televisione potevano già dirsi superati. Infatti le trasmissioni televisive regolari iniziarono nel 1936 in Gran Bretagna, nel 1937 in Francia e nel 1939 negli Stati Uniti (in Italia, pur non esistendo ancora una programmazione regolare, gli esperimenti di trasmissione elettronica iniziarono nel 1934). Tuttavia problemi di altro genere pesavano sulla diffusione del nuovo mezzo. In primo luogo, la seconda guerra mondiale aveva imposto la riconversione degli investimenti, rallentando lo sviluppo della televisione in tutti i paesi occidentali. In secondo luogo, le trasmissioni televisive hanno esasperato il problema di affollamento dell'etere, e quindi di regolamentazione delle frequenze, già posto da quelle radiofoniche. Al punto che negli Stati Uniti, dove il problema era più urgente, la Corte Federale decise addirittura per il blocco totale delle concessioni, sospendendo l'assegnazione di nuove frequenze tra il 1948 ed il 1952.

Malgrado questi problemi, e a dispetto dei costi relativamente alti dei primi apparecchi, la diffusione della televisione è stata molto veloce: conferma, questa, del fortissimo desiderio sociale che il nuovo mezzo riusciva a soddisfare. Infatti già nel 1960 l'87% delle famiglie statunitensi possedeva un televisore, e negli anni ottanta la quota delle famiglie in possesso di almeno un televisore ha raggiunto il 98% del totale. Per la prima volta, un mezzo di comunicazione era così riuscito a coinvolgere l'intera società, facendo sostanzialmente coincidere - negli Stati Uniti come in tutti i paesi occidentali - il pubblico reale con il pubblico potenziale.

Gli sviluppi dell'innovazione tecnologica, nel frattempo, avevano contribuito a fare della televisione un medium sempre più completo e sempre più universale. Già nel 1953 venne organizzata la prima trasmissione televisiva in eurovisione, per celebrare in diretta l'incoronazione della regina Elisabetta II d'Inghilterra. Nel 1954 la televisione nordamericana ha varato le trasmissioni a colori, che in Europa sarebbero iniziate soltanto nel 1967 (e ancora più tardivamente in Italia, dove l'introduzione del colore fu avversata da una fortissima opposizione parlamentare). Nel 1962 è stato invece inviato il primo satellite per le telecomunicazioni, Telstar, che ha aperto l'epoca della mondovisione.

Se negli Stati Uniti le trasmissioni televisive erano state affidate all'iniziativa dei privati, in molti paesi europei la televisione è stata invece assoggettata da subito al monopolio pubblico. Così è stato anche in Italia, dove le trasmissioni della Rai (che aveva perso la denominazione di Radio Audizioni Italia per assumere quella di Radiotelevisione Italiana) sono iniziate nel 1954. Al primo canale si aggiunse poi il secondo nel 1961 e quindi il terzo nel 1979: tuttavia, malgrado queste innovazioni, la televisione italiana è stata a lungo ispirata ad una concezione paternalistica della produzione culturale, e quindi sacrificata ad una programmazione di tipo pedagogico. Anche in Italia, in ogni caso, la televisione ha conosciuto da subito un successo straordinario: già nel 1959 (solo cinque anni dopo l'avvio delle trasmissioni) si contavano oltre un milione e mezzo di abbonati, destinati a salire a cinque milioni nel 1964. Se negli anni sessanta già (quasi) la metà delle famiglie possedeva un televisore, nel giro di un decennio la penetrazione del mezzo nella società italiana si sarebbe compiuta in termini definitivi, tanto che i nuclei familiari in possesso di almeno un televisore sono passati dal 49% del 1965 al 92% del 1975. A partire dagli anni ottanta, la televisione è entrata letteralmente in tutte le case, con un dato di diffusione che sfiora il 99% dei nuclei familiari.

Nel frattempo, però, era stato infranto anche il monopolio pubblico sulla televisione, in sospetta violazione dei diritti costituzionali alla libera iniziativa economica dei privati. La clamorosa proliferazione di piccole emittenti private (sia radiofoniche che televisive) a copertura locale, nel corso degli anni settanta, aveva infatti provocato l'intervento della Corte Costituzionale. Nel 1976, pur confermando la legittimità del monopolio Rai, la Corte l'aveva limitato all'ambito nazionale, legittimando così l'iniziativa privata a livello di trasmissioni locali. Muovendosi in una situazione politica e legislativa poco definita, all'inizio degli anni ottanta alcune emittenti sono riuscite a proporsi sul mercato nazionale, creando le premesse per il superamento del monopolio Rai, in favore di un sostanziale duopolio (Rai-Fininvest) integrato solo negli anni novanta dal "terzo polo" (concentrato intorno alle emittenti Tmc e Tmc2, acquistate nel 1996 da Vittorio Cecchi Gori, e destinate peraltro ad un sostanziale insuccesso).

Il passaggio dal monopolio pubblico al sistema "misto", peraltro, non si era consumato soltanto in Italia, ma si era invece verificato con tempi e con modalità molto simili in altri paesi europei (come Francia e Spagna). Questo anche perché lo stile trasgressivo dell'emittenza privata e della pubblicità (che aveva improvvisamente invaso la programmazione) avevano trasformato in modo radicale i sistemi televisivi europei, intercettando un desiderio di intrattenimento che la convinzione pedagogica dell'emittenza pubblica non sapeva più contenere.

Il consumo televisivo è cambiato in modo radicale anche in seguito all'introduzione del videoregistratore, messo a punto dalla Ampex già nel 1956 ma utilizzato a lungo soltanto dalla produzione televisiva, e scoperto dal pubblico solo nel corso degli anni settanta. La lunga competizione di mercato tra gli standard di videoregistrazione Vhs e Betamax (infine vinta dal primo), la dubbia legittimità della registrazione domestica rispetto alle leggi sul copyright, risolta nel 1984 da una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, e naturalmente i costi elevati dei primi apparecchi, hanno infatti rallentato la diffusione di questo strumento. Superati questi problemi, il videoregistratore ha conosciuto una stagione molto fortunata, offrendo un facile strumento di personalizzazione dei palinsesti, che insieme allo zapping ha cambiato in modo decisivo il rapporto dello spettatore con la programmazione televisiva.

Nel corso della sua storia, la televisione ha vissuto quindi diverse trasformazioni. L'ultima di queste trasformazioni, quella attuale, sta mettendo in discussione lo stesso modello "generalista" della televisione, trasformandolo in un sistema di offerta più attento alle esigenze individuali. In realtà, i mezzi più concretamente interattivi come la futura "web tv" (integrazione tra la televisione e la rete telematica) o l'attuale "video-on-demand" (che permette la scelta tra una varietà quasi illimitata di programmi) non hanno ancora conosciuto un reale sfruttamento di massa. E' però indubbio che tutte le nuove forme di trasmissione televisiva (a partire dalla pay-tv) consentano agli spettatori una scelta maggiore rispetto a quella concessa dall'offerta generalista. Tra il 1990 ed il 1996, di fatto, hanno preso corpo nuove forme di offerta - pay per wiew, tv satellitare e video on demand - che hanno gradualmente logorato il dominio della televisione tradizionale.

La migliore espressione di questo passaggio è rappresentata dalla tv digitale (la più compiuta forma di offerta tematica e interattiva), diffusa soprattutto negli Stati Uniti e destinata a cambiare in modo decisivo il consumo televisivo. In Europa, peraltro, la tv digitale ha conosciuto una diffusione ancora relativa non solo rispetto alla televisione tradizionale, ma anche rispetto alla pay-tv (generalmente monopolizzata da pochi gruppi, come Canal Plus in Francia, Sky Channel in Inghilterra e Tele+ in Italia). In Italia, in particolare, la televisione digitale è ferma ad uno stadio di sviluppo piuttosto acerbo, tanto che ancora all'inizio del 1999 si contavano soltanto 750.000 abbonati alla "pay per wiew", divisi tra le offerte di Stream e quelle (più seguite) di Tele+ digitale. Malgrado le tante discussioni sulla morte della televisione, quindi, il pubblico ha mostrato diverse resistenze all'abbandono del modello generalista e alla transizione verso i nuovi media. In ogni caso, è proprio in questo delicato equilibrio tra la sua vocazione di massa e la qualità individuale delle sue nuove offerte, che si giocherà nei prossimi anni il destino della televisione: ma è probabile che la televisione, proprio a dispetto di tante teorie sulla sua morte imminente (o addirittura già consumata) continuerà ad esistere, seppure in forme nuove, e a far ruotare attorno a sé i desideri ed i consumi del pubblico di massa.


2.5 Il (personal) computer

Se gli artefatti tecnologici sono il compimento di un desiderio (diffondere il suono, trasmettere l'immagine, conservare la parola, e così via), il desiderio da cui è nato il computer è senza dubbio quello di riprodurre l'intelligenza umana (anche se il termine "intelligenza artificiale", in realtà, è stato introdotto da John McCarthy solo nel 1956). Non è allora un caso, probabilmente, che i primi rudimentali elaboratori siano stati realizzati da due filosofi: Blaise Pascal (1623-1662), autore già nel 1642 della celebre "pascalina" per le operazioni matematiche, e Gottfried Leibniz (1646-1716), ideatore trent'anni più tardi (1673) di un'analoga macchina calcolatrice.

Il vero pioniere della ricerca informatica è stato però il matematico ed economista inglese Charles Babbage (1791-1871), che ha messo a punto prima la "Macchina delle differenze" (1822) per la produzione di tavole matematiche, e poi (1833) la "Macchina analitica" per la risoluzione di formule e funzioni complesse. Babbage, in realtà, non ha mai portato a compimento i propri progetti, ma ha idealmente aperto una nuova era nel campo del trattamento delle informazioni (che già nel 1890 avrebbe trovato la prima realizzazione concreta, con la macchina a schede perforate costruita da Hermann Hollerith).

Nelle sue prime versioni e progettazioni, il computer era quindi immaginato sostanzialmente come un elaboratore matematico. In ogni caso, dopo essere vissuta di episodi e di realizzazioni artigianali, come il calcolatore Z1 (il primo vero calcolatore, costruito in Germania nel 1931) e la macchina computazionale ideata nel 1936 da Alan Turing, che il suo autore voleva capace di risolvere "ogni funzione calcolabile", la ricerca informatica è entrata in una fase più produttiva e compiutamente industriale. Nel 1940, un ricercatore dei laboratori Bell (George Stibiz) ha messo a punto il Complex Calculator, il primo calcolatore scientifico elettromeccanico. E nel 1944, l'équipe di ricerca dell'Università di Harvard ha realizzato il prototipo ASCC (Automatic Sequence Controlled Calculator), il primo calcolatore controllato da un programma, e quindi molto simile ad un vero e proprio computer (seppure analogico). In funzione per quindici anni (fino al 1959), l'ASCC realizzava moltiplicazioni complesse in quattro secondi ed impiegava appena un terzo di secondo per eseguire le addizioni.

Il modello più ambizioso di questo periodo, l'ENIAC (Electronic Numerical Integrator and Computer), è stato però realizzato tra il 1945 ed il 1946 alla Moore School di Philadelphia. Pesante 80 tonnellate e alimentato da 18.000 valvole elettroniche, l'ENIAC arrivava ad eseguire 360 moltiplicazioni e oltre 5.000 addizioni al secondo. Nello stesso periodo, John Von Neumann aveva elaborato le sue idee sul funzionamento delle macchine di programmazione, mettendo a punto il modello logico da cui vengono informati anche gli attuali computer. Con gli anni cinquanta, tuttavia, il paradigma del computer come calcolatore si è gradualmente esaurito (già prima di essere portato a compimento con il calcolatore elettronico tascabile, realizzato nel 1972 nei laboratori della Texas Instruments), lasciando spazio a paradigmi di ricerca più sensibili alle possibili applicazioni sociali del computer.

Anche se non del tutto espressa, infatti, la rilevanza sociale (ed economica) del computer era già stata intuita dai ricercatori e dagli imprenditori del settore. Molto convincente, in questo senso, era stata la performance dell'elaboratore UNIVAC I, che nel 1952 era riuscito a calcolare i risultati elettorali appena un'ora dopo la chiusura delle urne. Tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, di fatto, è gradualmente maturata la convinzione dell'utilità del computer rispetto a problemi non soltanto di ordine matematico. In questo periodo, di conseguenza, il mercato informatico è stato fatto oggetto di attenzioni particolari e di investimenti in costante crescita. L'IBM (International Business Machine, nata nel 1924) ha dato concretezza ai suoi sforzi producendo nel 1952 il modello 701, un prototipo relativamente evoluto. Nel 1958, la società giapponese NEC aveva invece prodotto i primi computer elettronici (NEC-1101 e NEC-1102), senza peraltro sondarne realmente le possibilità di mercato. Un decennio più tardi, nel 1968, Gordon Moore e Robert Noyce avrebbero fondato la Intel, destinata a diventare la maggiore casa produttrice di microprocessori del mondo. Quando nel 1958 il ricercatore della Texas Instruments Jack Kilby ha messo a punto il primo circuito integrato su piastrina di silicio (favorendo, attraverso la miniaturizzazione dei circuiti, la massima economia nella conservazione delle informazioni), i tempi erano maturi per uno sfruttamento intensivo del settore informatico.

Negli anni settanta, infatti, la ricerca sul computer ha conosciuto un enorme sviluppo. La società Intel ha prodotto una serie di microprocessori sempre più evoluti e sempre più affidabili: nel 1971 prima il modello Intel 4004 (adottato dall'IBM 370) e poi l'Intel 8008 a 8 bit, e nel 1974 il modello perfezionato Intel 8080, destinato ad essere utilizzato nei personal computer. Il grande traguardo della produzione informatica, di fatto, consisteva proprio nel passaggio dal computer al personal computer, cioè ad un mezzo più leggero e più semplice da usare, in grado di imporsi come apparecchio domestico. Il primo personal computer, costruito al MIT nel 1975, è stato l'Altair (in onore di un episodio della serie Star Strek, intitolato appunto "Viaggio ad Altair"), venduto ad un prezzo ancora piuttosto alto (397 dollari), ma costruito esplicitamente, per la prima volta, per uso privato. Non coincidenzialmente, nello stesso anno ha aperto a Santa Monica, in California, il primo negozio di computer della storia.

Sulla produzione informatica stavano così concentrandosi attenzioni e sforzi imprenditoriali sempre maggiori. Nel 1971, Bill Gates e Paul Allen hanno fondato la società Microsoft, destinata a guadagnare una posizione di egemonia a partire dal 1982 (anno in cui Bill Gates ha iniziato a fornire il sistema operativo Ms-dos ai computer IBM) e a diventare la maggiore azienda informatica del mondo, al punto da richiedere a più riprese l'intervento della Commissione Antitrust degli Stati Uniti. Intanto, nel 1976, un giovane ricercatore intraprendente, Steve Jobs, aveva progettato un modello alternativo di personal computer, chiamato Apple 1. Nel 1977, costruito il prototipo in una versione più evoluta (Apple 2, naturalmente), Jobs aveva di fatto inventato il marchio Apple, proponendosi attivamente nel mercato dei personal computer. La terza versione dell'Apple, messa a punto nel 1978, va ricordata perché comprendeva per la prima volta il floppy-disk per la registrazione dei dati (anche se non ancora nel formato attuale, da 3,5 pollici, diffuso nel 1989). Alla fine degli anni settanta, in ogni caso, diversi produttori (Apple, Tandy, Commodore) iniziavano a contendersi il mercato dei personal computer.

Al di là delle intenzioni dei produttori, tuttavia, la diffusione del computer era ostacolata dai costi elevati dei primi modelli "domestici". Una svolta decisiva, in questo senso, è stata segnata dalla società Compaq, che a partire dal 1982 ha messo in vendita su grande scala esemplari a costo relativamente basso (i cosiddetti "cloni"), ottenendo un risultato straordinario che ha coinciso con il miglior primo anno di vendita (con un fatturato di 111 milioni di dollari già nel gennaio 1983) nella storia del business americano. Gli effetti di questo successo, peraltro, hanno agito non solo sui destini della Compaq ma anche sull'assetto tecnologico della società: se negli Stati Uniti esistevano nel 1982 più di un milione di computer, la quota è salita a dieci milioni nel 1983 e addirittura a trenta milioni nel 1986. Nel 1982, intanto, la rivista Time aveva eletto il computer a uomo dell'anno.

La sfida successiva consisteva nel rendere il computer, ormai dichiaratamente destinato anche all'uso domestico, un mezzo più semplice da utilizzare e perfino più amichevole. La traccia da seguire era stata ovviamente segnata dall'evoluzione dei microprocessori: nel 1982 è stato prodotto il modello 80286, nel 1985 il 386 e nel 1989 il 486: nel 1993, infine, è comparso il Pentium, l'ultima generazione di processori (a sua volta in rapida evoluzione, visto che oggi siamo nell'epoca del Pentium III). Perché il computer entrasse realmente nei costumi quotidiani, era però necessario dotarlo anche di sistemi operativi e di software più evoluti e più facilmente utilizzabili. L'innovazione più rilevante, in questo senso, è stata l'interfaccia grafica (che crea sullo schermo un ambiente simile alla scrivania), introdotta dalla Apple nel 1984 con il nuovo computer Macintosh, e in seguito adottata anche dalla Microsoft nel 1990 con il sistema Windows 3.0 e poi con la sua versione più avanzata 3.1 (1992). Nello stesso anno, seguendo la stessa logica di semplificazione dell'interfaccia di utenza, l'IBM aveva lanciato anche il sistema operativo OS/2, piuttosto evoluto ma poco fortunato sul mercato. Destino diverso è toccato invece al sistema operativo Windows 95, lanciato a livello planetario dalla Microsoft di Bill Gates (appunto nel 1995) e diventato il più clamoroso successo informatico di ogni tempo.

Tra gli anni ottanta e gli anni novanta, quindi, il computer è stato soggetto ad un'autentica trasformazione, che lo ha arricchito di componenti hardware sempre più avanzate e di software sempre più amichevoli. Un grande successo è stato ottenuto, in particolare, dai programmi di videoscrittura (il celebre Word, nelle sue varie versioni), che hanno perfezionato lo schema originale del Wordstar, prodotto addirittura nel 1979. Allo stesso modo i diversi fogli di calcolo (prima Lotus e poi Excel di Microsoft) hanno ripreso e migliorato il primo rudimentale foglio di lavoro, proposto a sua volta nel 1979 con il nome di Visicalc. Nel 1985 è stato invece messo a punto il Cd-Rom (Compact Disc Read Only Memory), il supporto a lettura laser che ha aperto possibilità straordinarie di divulgazione attraverso le nuove tecnologie. Con il primo "powerbook" della Apple, nel 1989, si è invece aperta l'epoca del computer portatile, che ha sancito la nascita di un rapporto sempre più intimo del consumatore con il proprio computer. In questo senso, l'ultima frontiera della produzione informatica è probabilmente rappresentato dal modello "iMac" della casa Apple, l'ultima invenzione di Steve Jobs: puntando non soltanto sulla qualità delle prestazioni ma anche su nuovi valori di richiamo (il design, la colorazione, la qualità estetica del prodotto), questo modello ha idealmente completato la transizione del computer da prodotto tecnologico a mezzo domestico, da oggetto straordinario a strumento di uso ordinario.


2.6 Internet

Nato come elaboratore di informazioni e come calcolatore matematico, nel corso del tempo il computer si è evoluto fino a diventare un vero e proprio mezzo di comunicazione, attraverso la connessione telematica e la nascita di Internet, la "rete delle reti". Questo processo si è però compiuto in modo graduale, ed è stato il prodotto finale di una lunga serie di investimenti e di ricerche, destinati inizialmente a scopi militari e poi riconvertiti alla produzione culturale. La storia di Internet inizia infatti con la guerra fredda.

Nel 1957, l'Unione Sovietica aveva inviato nello spazio il primo satellite artificiale (lo Sputnik, raggiunto l'anno successivo dal primo satellite orbitante americano), iniziando così l'esplorazione di un nuovo terreno di conflitto. Per prevenire un'eventuale strategia offensiva dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno varato sempre nel 1957 il piano difensivo ARPA (Advanced Research Projects Agency), progettato per governare le attrezzature militari anche in caso di attacchi atomici. Il primo prodotto di questo sforzo è stata Arpanet, creata nel 1964 come prototipo di rete tra quattro computer e sviluppata nel 1969 con la connessione tra le Università di Los Angeles, Stanford, Utah e Santa Barbara. Arpanet non ha però avuto l'importanza strategica di cui era stata inizialmente accreditata, e tra gli anni settanta e gli anni ottanta è stata divisa in due sezioni (Arpanet per la ricerca avanzata e Milnet per gli scopi militari) perdendo la propria centralità proprio nel periodo in cui si andava diffondendo il termine "Internet".

Da un punto di vista tecnologico, di fatto, Internet si è sviluppata sulla traccia della rete difensiva progettata dagli Stati Uniti, arricchendosi gradualmente dei contributi offerti dalla ricerca ma anche dalla passione dei cosiddetti "hackers", progettisti informatici artigianali che hanno influenzato in modo rilevante il destino dell'informatica. Le prime ricerche significative per lo sviluppo delle attuali reti telematiche risalgono alla metà degli anni sessanta, quando la definizione del modello "Rand" ha permesso di trasmettere "pacchetti" di informazione attraverso terminali elettronici. A facilitare queste ricerche ha poi contribuito in modo decisivo l'invenzione del microchip, messo a punto da Jack Kilby nel 1971, che di fatto ha aperto l'epoca digitale e favorito nuove applicazioni nel campo della gestione e della trasmissione dei dati informatici.

Già nel 1972, un ingegnere americano, Ray Tomlinson, ha messo a punto il primo programma di posta elettronica (e-mail), creando da subito le premesse per un uso interattivo ed orizzontale della rete telematica: prima ancora dell'esistenza (vera e propria) di Internet, di fatto, si era posta la necessità di un medium in grado di garantire la comunicazione equilibrata e paritaria tra gli utenti (a differenza dei media "generalisti", che seguono invece un modello diffusivo). Inoltre lo stesso Tomlinson, volendo inserire un segnale di divisione tra i diversi domini degli indirizzi elettronici, ha scelto il simbolo che riteneva meno utilizzato, la "chiocciolina" (@), creando così uno dei simboli più celebri e più conosciuti dell'innovazione tecnologica. L'importanza di questo nuovo medium "orizzontale" è confermata dalla rapida diffusione di newsgroup o gruppi di discussione che si affacciavano sulla rete. In particolare, nel 1979, un giovane studente dell'Università del North Carolina, Steve Bellovin, (in collaborazione con i ricercatori Ellis e Truscott) ha messo a punto USENET (acronimo di Users' Network), una rete a disposizione degli utenti per lo scambio di messaggi personali.

Da un punto di vista tecnologico, tuttavia, mancavano ancora alcuni passaggi fondamentali per la strutturazione definitiva delle rete telematica, che sono stati progressivamente soddisfatti nel corso degli anni settanta. Nel 1973 è stato messo a punto il vero e proprio mezzo di trasmissione dell'informazione, il protocollo TCP/IP, divenuto obbligatorio un decennio più tardi (1983) e necessario a connettere i computer in rete. Il protocollo TCP/IP è formato dall'unione di due protocolli diversi: il primo (IP) permette il trasporto effettivo dell'informazione, mentre il secondo (TCP), con funzione di controllo, ordina le informazioni e risolve i problemi di trasmissione, frequenti in caso di pacchetti di informazione molto voluminosi. I problemi di velocità della trasmissione sono stati invece risolti dal ricercatore Robert Metcalfe, che nel 1976 ha messo a punto il sistema Ethernet, che attraverso il cavo coassiale consente un notevole miglioramento delle prestazioni. Internet stava così nascendo: nel 1976 ha preso corpo il progetto SATENET, che attraverso il satellite Intelsat ha connesso l'Europa agli Stati Uniti, e alla fine degli anni settanta si è iniziato a parlare diffusamente di telematica (termine che nasce dall'unione di informatica e telecomunicazione).

L'ultimo problema da risolvere per facilitare la connessione in rete era di natura strettamente pratica. I diversi computer o "nodi" ("host") collegati in rete erano infatti identificati da un preciso indirizzo, costituito da numeri di 32 bit (divisi in quattro gruppi di otto bit, separati tra loro da un punto). Questi indirizzi risultavano però difficili da ricordare e poco pratici da utilizzare. Per questa ragione, nel 1983 è stato messo a punto il sistema DNS (Domain Name System), in grado di tradurre le sequenze numeriche in una stringa più facilmente leggibile, costituita dai nomi dei diversi domini, separati da un punto (ad esempio: www.Rai.it). Nello stesso anno, la nascita di un istituto come l'Internet Activities Board (IAB) sanciva in via ufficiale la nascita del nuovo mezzo di comunicazione.

Fin dall'inizio, Internet ha mostrato una caratteristica paradossale: pur essendo lo strumento in grado di offrire la maggiore quantità di informazioni, la rete è anche il mezzo che, da un certo punto di vista, rende più difficile l'accesso alle informazioni. Raccogliendo tutte le informazioni disponibili sul pianeta, Internet ha infatti aggirato la funzione di mediazione svolte dalle agenzie sociali tradizionali (scuola, stampa, intellettuali, leader d'opinione, e così via), ponendo l'individuo di fronte ad una condizione di assoluta complessità culturale (è molto difficile, ad esempio, verificare l'attendibilità delle fonti telematiche, e quindi distinguere le notizie fondate da quelle infondate). Già nel periodo di prima diffusione della rete, infatti, si è avvertita l'esigenza di uno strumento in grado di guidare l'utente e di facilitare la sua ricerca (molto significativa è l'intestazione del motore di ricerca italiano intitolato "Virgilio"). Il primo di questi strumenti è stato "Archie" (1990), il sistema creato da Peter Deutsch per la ricerca di una stringa nella rete telematica, seguito da Gopher (1991), un enorme archivio informatico progettato per facilitare la ricerca agli utenti dilettanti, consultabile attraverso specifici comandi di ricerca (per la ricerca di materiali sia scritti che visivi) chiamati "Veronica".

Alla metà degli anni novanta, questi strumenti sono stati sostituiti da sistemi più complessi, i cosiddetti "motori di ricerca" (nati quasi tutti nel 1995), che permettono di inviare una stringa e di ottenere la lista dei siti in cui questa stringa è contenuta. La maggior parte dei motori di ricerca sono stati creati dalle case di produzione, anche se non mancano eccezioni rilevanti: "Hotbot" è il motore di ricerca della rivista "Wired", mentre "Yahoo!" è stato messo a punto da due studenti dell'Università americana di Stanford. In ogni caso, l'utilità dei motori di ricerca è confermata dal grande successo che hanno conseguito, che li posiziona tra i siti più contattati: proprio un motore di ricerca (appunto "Yahoo!") risulta il sito più consultato in assoluto. La complessità della ricerca in rete ha tuttavia prodotto un'ulteriore specializzazione: ai motori di ricerca "generalisti" si sono infatti affiancati quelli tematici, adatti ad una ricerca di tipo specialistico, ed i cosiddetti "metamotori", che inviano la stringa selezionata su diversi motori di ricerca.

La crescita di Internet è stata intensa, anche se non sempre lineare (e non sempre omogenea, a differenza di quanto avevano previsto molti teorici delle nuove tecnologie). Nel 1989, la rete contava circa 100.000 computer connessi, saliti a 2 milioni nel 1994 e cresciuti costantemente. Nel 1998, infatti, Internet conta quasi 150 milioni di computer in connessione (148.100.000 circa). Nel 1997, intanto, negli Stati Uniti il volume di messaggi elettronici ha superato per la prima volta il volume di messaggi scambiati attraverso la posta ordinaria.

La diffusione di Internet, tuttavia, ha seguito (molto più della televisione) alcune precise discriminazioni di ordine geopolitico. Nel 1999, ad esempio, nell'America del Nord (Stati Uniti e Canada) si contavano complessivamente più di 87 milioni di computer in rete, che scendono a 33 milioni in Europa, a 22 milioni in Asia, e a cifre notevolmente più basse nelle zone povere del pianeta, l'America del Sud (quattro milioni e mezzo di computer e connessi) e l'Africa (appena 800.000). Molto particolare è il caso dell'Italia, che per ragioni culturali si è mostrata molto ricettiva verso alcuni media (televisione e stampa periodica) e molto fredda nei confronti di altri (la stampa quotidiana), e che allo stesso modo ha abbracciato alcune innovazioni (come il telefono cellulare) piuttosto che altre (appunto i mezzi informatici: al punto che l'Italia è il ventiseiesimo paese al mondo per diffusione di computer).

In Italia si contavano, all'inizio del 1999, circa un milione e mezzo di abbonamenti Internet. Il dato sembra credibile, perché se da un lato sottovaluta la diffusione di Internet (nel senso che il numero effettivo degli utenti è almeno doppio rispetto al numero degli abbonamenti), da un altro lato, in qualche modo, lo sopravvaluta (perché quasi la metà degli utenti italiani, il 48%, dichiara di connettersi in rete soltanto nel luogo di lavoro). Oltre al dato quantitativo, è interessante anche il dato qualitativo, che permette di ricostruire le caratteristiche dell'utente italiano di Internet: che è prevalentemente di sesso maschile (al 66%), benestante ed istruito (tra quanti usano Internet da casa, i laureati sono il 20% e i diplomati il 62%, e le percentuali aumentano tra quanti usano Internet nel luogo di lavoro). L'utente di Internet, inoltre, è prevalentemente un giovane di età compresa tra i 18 ed i 35 anni (infatti il 60% di quanti usano Internet da casa e oltre il 75% di quanti lo usano per lavoro hanno meno di 45 anni).

Se Internet è realmente (come probabilmente sarà) un mezzo in grado di cambiare l'esperienza sociale degli individui (proprio in quanto lo confronta direttamente alle informazioni, eliminando la mediazione degli istituti sociali e culturali), questi dati assumono una grande importanza. Il maggiore rischio legato alle reti telematiche è infatti quello di uno sviluppo che comporti l'esclusione di una parte significativa della popolazione. Un rischio che le nuove tecnologie alimentano, esattamente come sostengono le straordinarie possibilità che hanno aperto.

3. Eventi mediali

3.1 Che cos'è un evento mediale

Ci sono - si sa - eventi quotidiani ed eventi straordinari. E poi ci sono eventi estremi, totali, talmente straordinari da segnare un "prima" e un "dopo", da rimanere nella memoria delle generazioni. Eventi che fermano il tempo e che attraversano le frontiere (culturali e geografiche). Eventi, per forza di cose, collettivi: e quindi, altrettanto necessariamente, eventi mediali.

Solo i mezzi di comunicazione di massa possono sostenere un evento e diffonderlo a livello mondiale: e infatti non c'è dubbio che, senza l'intensa attenzione di cui è stata fatta oggetto da parte della tv, la disavventura giudiziaria di Clinton non avrebbe avuto la stessa importanza. E la Guerra del Golfo - se non fosse stato per la Cnn - non avrebbe così ossessivamente invaso l'immaginario occidentale. E Lady Diana non sarebbe diventata - senza la morbosa mediatizzazione della sua figura e poi della sua morte - la "principessa del popolo". E così via.

Quindi i media - e soprattutto, com'è ovvio, la televisione - sono una condizione necessaria perché un evento assuma un rilievo tale da investire un pubblico universale. Eppure - questo è il punto - neanche la televisione, di per sé, è sufficiente a creare un evento: se non, appunto, in condizioni straordinarie. Neanche la tv, infatti, è più in grado di raggiungere realmente il "pubblico di massa" (senz'altra specificazione), ma deve piuttosto confrontarsi con le esigenze e con i desideri dei diversi pubblici mediali. Pubblici tra loro sempre più differenziati, e sempre più votati ad un consumo attivo e multimediale, che ha prima mutato radicalmente i modi del consumo televisivo (con lo zapping e con l'home-video) e poi ne ha messo in discussione l'integrità (nel senso che la tv tradizionale subisce ora la concorrenza non solo di Internet ma anche delle nuove formule televisive: pay-tv, pay-per wiew, tv satellitare con un'ampia scelta di canali e di offerte tematiche). Ormai esistono, quindi, tanti pubblici e tante televisioni.

Tutto questo, in condizioni normali. Esistono però eventi straordinari - eventi "festivi" - che annullano le distinzioni geografiche e socioculturali e ricreano la dimensione unica del pubblico generalista, realmente di massa. Eventi come le Olimpiadi, come i Campionati mondiali di calcio, come i funerali teletrasmessi dei grandi personaggi pubblici. Eventi che riducono la distanza tra emittente e ricevente, e coinvolgono tutto il pubblico potenziale della televisione. Si parla - per l'appunto - di media events o eventi mediali.

La migliore teoria sugli eventi mediali è stata proposta negli anni novanta da due studiosi di comunicazione americani, Elihu Katz e Daniel Dayan. La loro idea è che la televisione riscopra appunto la sua natura di medium di massa solo in coincidenza di queste situazioni festive, e quindi eccezionali, che coinvolgono tutto il pubblico. Se ogni segmento di pubblico segue solitamente una propria "dieta di consumo" televisivo, in alcune situazioni tutti gli spettatori vengono invece catturati dalla stessa rappresentazione mediatica.

Dayan e Katz individuano tre casi particolari di eventi mediali, che definiscono "competizioni", "conquiste" e "incoronazioni". Le "competizioni" sono, per l'appunto delle gare in cui due (o più) concorrenti mettono in campo le proprie forze per contendersi un obiettivo. All'archetipo delle competizioni appartengono quindi, evidentemente, sia i confronti sportivi che quelli politici. Lo sport fornisce una vastissima casistica di competizioni, nel senso che tutti i grandi eventi sportivi - le Olimpiadi, i Mondiali di calcio, i più importanti combattimenti di boxe - sono anche dei grandi eventi mediali. Anche la politica, tuttavia, fornisce molti esempi di eventi mediali fondati sulla contrapposizione degli schieramenti: la spettacolarizzazione della politica con l'utilizzo crescente del mezzo televisivo (prima negli Stati Uniti e poi in Europa) è, a ben vedere, anche un processo di costruzione di grandi eventi mediali. Infatti il confronto diretto tra due candidati alle elezioni ricalca perfettamente l'archetipo della competizione, allo stesso modo degli eventi sportivi. E in questa categoria di eventi rientrano anche le competizioni di ordine giudiziario e di ordine militare, che i media (e l'immaginario) trasformano appunto in scontri individuali (Berlusconi contro Di Pietro, Bush contro Saddam, il procuratore Starr contro Clinton, Clinton contro Milosevic, e così via).

Le "conquiste" sono eventi mediali ancora più straordinari, nel senso che dopo il loro compimento si apre una fase storica diversa (e questo dipende, com'è ovvio, non solo dalla mediatizzazione dell'evento ma anche dalla sua importanza oggettiva). Per conquista, Dayan e Katz intendono, genericamente, un'impresa eccezionale che porta alla scoperta di un nuovo territorio. L'esempio più clamoroso di conquista è fornito, naturalmente, dallo sbarco sulla luna, trasmesso appunto in diretta televisiva. Ma anche il crollo del Muro di Berlino - seguito avidamente dai media occidentali - rientra perfettamente in questa tipologia, nel senso che dopo questo evento la storia è entrata in una fase nuova, diversa da quelle precedenti.

La terza tipologia di eventi mediali è quella delle "incoronazioni". Dayan e Katz osservano che, se anche gli altri due tipi di eventi comprendono elementi cerimoniali, l'incoronazione è invece essa stessa una cerimonia. Le elezioni dei Capi di Stato, i matrimoni ed i funerali dei grandi personaggi pubblici, sono tutti eventi che "incoronano" alcune figure, ricreando in uno spazio mediatico internazionale gli elementi fondamentali del rito tradizionale. In realtà, esistono anche cerimoniali (mediatici) di incoronazione meno clamorosi e più ordinari, come l'assegnazione annuale dei premi Oscar: tuttavia non c'è dubbio che il senso di questo tipo di eventi sia reso in maniera ideale dalle grandi costruzioni rituali delle parate (gioiose, celebrative o di lutto che siano). Il funerale di John Kennedy, l'incoronazione (vera e propria) di Elisabetta II, le nozze di Carlo e Diana d'Inghilterra, il funerale di Indira Gandhi, sono tutti esempi di eventi mediali di incoronazione, così come lo è, naturalmente, lo straordinario fenomeno (mediatico e di costume) costituito dai funerali di Lady Diana, all'inizio di settembre del 1997.

Dayan e Katz ritengono che, nella maggior parte dei casi, gli eventi mediali siano "rinforzativi", che tendano cioè a legittimare e quindi a potenziare i poteri costituiti. Solo in circostanze eccezionali, e quindi per effetto di particolari dinamiche sociali o politiche, un evento mediale può essere "trasformativo" (cioè innovatore): è il caso dei funerali di Martin Luther King, che hanno facilitato una più diffusa consapevolezza del problema razziale, mettendo in discussione il quadro dominante. Tuttavia, questa è la parte più problematica (e più debole) dello studio di Dayan e Katz (così come è debole il collegamento, che i due autori hanno ipotizzato, tra le tre tipologie di eventi mediali e le tre forme di potere definite da Max Weber). E' dubbio, infatti, che questi grandi eventi mediali riescano realmente a legittimare i poteri e le istituzioni. Ad esempio, il funerale di Diana Spencer si è accompagnato ad una perdita di popolarità della casa regnante inglese, e allo stesso modo la mediatizzazione dello scontro militare (come nella Guerra del Golfo) non ha impedito il rigetto della guerra da parte dei telespettatori e, almeno in parte, la formazione di un'opinione pubblica antimilitarista. I "media events", quindi, non vanno considerati per i loro effetti (difficilmente misurabili), ma piuttosto per quello che essi sono.

Gli eventi mediali hanno alcune caratteristiche precise. Sono eventi "totali", nel senso che interessano (almeno potenzialmente) un pubblico molto vasto (anche se non propriamente mondiale ma, più spesso, occidentale): lo sport, la guerra, la politica internazionale e il divismo (nel senso più ampio) sono infatti argomenti che appartengono all'agenda di tutti i pubblici mediali. Per questa ragione, gli eventi mediali hanno bisogno della televisione, perché soltanto la televisione ha il potere di ricreare la stessa realtà in luoghi geograficamente lontani. In più, un evento mediale è sempre in diretta (infatti sono teletrasmessi in diretta i funerali illustri, le competizioni sportive di rilievo e la stessa cerimonia degli Oscar), perché soltanto la diretta riesce a concentrare l'attenzione del pubblico verso uno stesso evento (Dayan e Katz parlano al proposito di "rappresentazione in diretta della storia").

I media events hanno una funzione fondamentale, perché avvicinano l'individuo a quello che Dayan e Katz definiscono il "centro sacro" della società. Infatti, il rapporto dei singoli individui con la società è, di solito, mediato da molte "agenzie" (che selezionano l'informazione, limitando le possibilità del singolo di accedere ai luoghi in cui si svolge la storia). Viceversa, gli eventi mediali trasportano direttamente lo spettatore nello spazio in cui si consumano i grandi cerimoniali della storia (riti di passaggio o riti "sciamanici"). Dayan e Katz parlano di "disintermediazione", per descrivere questo processo di aggiramento delle agenzie di socializzazione, che permette ai telespettatori di vivere direttamente le emozioni dei grandi eventi e rituali della storia contemporanea.

Lo studio degli eventi mediali è una delle nuove (e più interessanti) dimensioni della ricerca sui media. Infatti questi eventi trasformano il consumo ordinario di televisione in una sorta di rito sciamanico che permette alla società di rappresentare i propri simboli e agli spettatori di farli propri e di consumarli. Per un evento apparentemente frivolo, come il funerale di Lady Diana, passa quindi un complesso di bisogni e di desideri (bisogni della società come struttura e bisogni degli individui come singoli) che proprio in questi eventi diventano improvvisamente visibili, accompagnando le trasformazioni della società e del costume. (Poco) fortunato è quel popolo che non ha bisogno di eroi (mediali).


3.2 Eventi

L'assassinio di John Kennedy

L'omicidio di John Kennedy ha costituito l'evento più sconvolgente nella storia recente degli Stati Uniti. John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) è stato infatti il più amato Presidente degli Stati Uniti. Laureato ad Harvard, ufficiale di marina durante la seconda guerra mondiale, Kennedy, sostenuto fin dalla sua elezione (1960) da una forte opinione progressista, è stato il primo Presidente cattolico (e, al momento della sua elezione, il più giovane) nella storia degli Usa. Dopo aver cercato di esplorare quella che definiva la "nuova frontiera" del progresso e della distensione, è stato assassinato a Dallas, il 22 novembre 1963, per mano (almeno così si è sostenuto) di Lee Harvey Oswald.

Fin qui, la storia "ufficiale": ma quella di Kennedy è anche (o soprattutto) una storia mediatica. Che inizia nel 1960, quando Kennedy riesce a sbaragliare il candidato repubblicano Richard Nixon proprio grazie ad un maggiore appeal mediatico. Nella campagna elettorale del 1960 era infatti previsto, per la prima volta, il "faccia a faccia" televisivo tra i due candidati: Kennedy (che non veniva considerato favorito sulla base dei parametri politici) lo vinse a mani basse, sfoggiando un fascino ed un ottimismo sconosciuti allo stile più tradizionale di Nixon (ed imponendo la propria immagine alla nazione intera, visto che il 60% degli americani aveva assistito ad almeno uno dei quattro faccia a faccia trasmessi in televisione). Il desiderio di innovazione diffuso nella società americana si era così letteralmente incarnato nel primo presidente "televisivo" della storia.

Tutte le azioni di Kennedy - anche quelle politicamente più discutibili - si sono giocate sul filo di questo stile positivo e ammiccante. Secondo un osservatore attento al rapporto tra media e politica negli Stati Uniti, come Lawrence Grossman, Kennedy era così "giovane e affascinante e talmente simile a un attore del cinema da sembrare uscito direttamente dagli studi di Hollywood". Questa è, naturalmente, un'interpretazione un po' semplificata: tuttavia è indubbio che nella popolarità di Kennedy avessero pesato alcuni attributi tipici dell'appeal televisivo.

L'immaginario televisivo, che aveva in qualche modo partorito la figura di Kennedy, l'ha poi drammaticamente inghiottita, celebrando uno dei primi e dei più clamorosi eventi mediali. Il 22 novembre 1963 la televisione nordamericana trasmette ossessivamente le immagini dell'omicidio, mostrando Kennedy raggiunto dai colpi di fucile nell'automobile presidenziale. Il 24 novembre, mentre la tv riprende in diretta il suo trasferimento, Lee Oswald (accusato appunto dell'omicidio di Kennedy) viene assassinato da Jack Ruby nei sotterranei della prigione di Dallas. Tra la drammaticità dell'evento e la condizione non più distaccata dei telespettatori si era così creato un singolare corto circuito: al punto che, come ha osservato Joshua Meyrowitz (uno dei maggiori mediologi contemporanei), tutta la nazione era stata letteralmente "testimone" di un delitto. Nel frattempo, da Washington, veniva trasmesso il funerale di Kennedy, seguito con attenzione e coinvolgimento dall'intero paese (in una interminabile diretta televisiva, lunga oltre sette ore). Nell'ultimo atto, il 25 novembre, le telecamere seguirono il carro con il corpo del presidente trainato da un cavallo nero (senza cavaliere) fino al luogo di sepoltura.

Gli Stati Uniti (e, in misura minore, anche altre nazioni) erano rimasti immobili di fronte al televisore. Per quattro giorni, ogni singolo telespettatore aveva partecipato direttamente ad un rituale di straordinaria solennità e di grande importanza storica. Come ha scritto Marshall McLuhan, il funerale di Kennedy "rivelò l'ineguagliato potere della Tv di arrivare a coinvolgere il pubblico in un processo complesso. Il funerale come processo collettivo fece impallidire, riducendola a minuscole proporzioni, persino l'immagine dello sport. Insomma, il funerale di Kennedy rivelò il potere della Tv di coinvolgere un'intera popolazione in un processo rituale". Siamo entrati nell'epoca degli eventi mediali.

La notte della Luna

La più affascinante conquista mai raggiunta dall'uomo è tuttora costituita, con ogni probabilità, dallo sbarco sulla Luna. Presentato come "un grande passo per l'umanità" e come il simbolo della "nuova frontiera", l'allunaggio rimane uno dei più straordinari eventi vissuti dall'uomo e, insieme, una delle memorie più radicate nell'immaginario occidentale. Anche se, in realtà, l'impresa dell'Apollo XI non ha costituito un miracolo dell'immaginazione ma, più banalmente, un miracolo della tecnologia.

Alla "conquista" della Luna si è giunti infatti in modo molto graduale. A partire dagli anni'50, Stati Uniti e Unione Sovietica erano entrati in competizione per l'esplorazione dello spazio (la prima sonda capace di raggiungere la Luna fu inviata dall'Unione Sovietica nel 1959). Gli Stati Uniti guadagnarono la supremazia nel corso degli anni sessanta, con una serie di lanci di prova (Apollo IV, V, VI e VII) conclusi dalla missione dell'Apollo VIII, che a Natale del 1968 lasciò tre astronauti in orbita intorno al satellite. Nel 1969, altre due missioni avvicinarono sensibilmente le navicelle Apollo IX e Apollo X alla superficie lunare.

L'Apollo XI partì da Cape Kennedy alle 9,32 del 16 luglio 1969, con a bordo tre astronauti (Arsmtrong, Aldrin e Collins). La navicella è atterrata sulla Luna nel pomeriggio del 20 luglio, e Armstrong (com'è noto) ha messo piede per primo sulla sua superficie, camminando nel Mare della Tranquillità. Dopo avere raccolto alcuni materiali, i tre astronauti rientrarono sulla Terra il 24 luglio. La televisione li aveva accompagnati in tutta la loro impresa.

La scoperta della Luna era un obiettivo troppo rilevante perché i media potessero resistere alla sua tentazione. Se nel 1961 si era assistito al primo "volo spaziale" ripreso in televisione (quello di Shepard), nel 1964 si erano diffuse le prime fotografie del satellite (scattate dalla sonda americana Ranger VII), e già nella primavera del 1965 vennero diffuse le prime immagini televisive in diretta della Luna. Si era così preparata l'attesa per l'evento mediale più impensabile e più suggestivo.

Per l'organizzazione del grande evento dello sbarco, la televisione nordamericana aveva compiuto uno sforzo notevole, preparando una serie di simulazioni che illustravano lo scenario dell'allunaggio. Nel pomeriggio della domenica 20 luglio, a conferma dell'importanza dell'evento, le tre emittenti degli Stati Uniti trasmettevano tutte, simultaneamente, l'impresa dell'Apollo XI. Nemmeno l'indice d'ascolto (secondo il quale queste trasmissioni erano state seguite dal 45% delle famiglie americane) rende giustizia alla portata clamorosa di un evento che aveva interessato tutto il mondo.

Per quanto penalizzate dal fuso orario (e quindi costrette alle trasmissioni notturne), infatti, anche le televisioni europee trasmisero a loro volta in diretta lo sbarco sulla Luna, utilizzando, nella maggior parte dei casi, le immagini ed i servizi provenienti dagli Stati uniti. Molto imponente, in particolare, è stata la copertura televisiva garantita in Italia dalla Rai, con una diretta di oltre ventiquattro ore. Iniziata alle 19,30 del 20 luglio, la trasmissione si è conclusa infatti alle 21 del 21 luglio. L'evento è stato gestito, dallo studio centrale di Roma (collegato con le altre sedi della Rai), da tre giornalisti: Tito Stagno, Andrea Barbato e Piero Forcella. Il vero protagonista della lunga trasmissione è stato tuttavia Ruggiero Orlando che, in collegamento dagli Stati Uniti, ha commentato in diretta le operazioni di allunaggio e i primi passi di Armstrong.

Per decine di milioni di spettatori nel mondo - grazie alla televisione - si era compiuto un evento letteralmente indelebile. Ma la diretta televisiva, in realtà, non era servita soltanto a riprendere lo sbarco sulla Luna (cioè a documentarlo), ma soprattutto a celebrarlo e quindi, in qualche modo, a modificarlo, a farne un evento ed un simbolo. Organizzata per celebrare l'ineluttabilità del progresso occidentale (e quindi, fuor di metafora, per celebrarne anche lo sviluppo produttivo e civile), la missione dell'Apollo XI è stata trasformata dalla televisione in un rituale collettivo che ha portato gli spettatori a stretto contatto con la tecnologia, inscrivendola definitivamente nell'immaginario collettivo, e completando così l'opera iniziata da altri eventi e da altri rituali mediatici (appena un anno prima - accostamento azzardato ma non troppo - era uscito 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick). Se l'umanità aveva realmente compiuto un "passo decisivo", di fatto, lo aveva compiuto attraverso la televisione: non attraverso la sua presenza episodica e neutrale, ma invece grazie alla sua mediazione "sciamanica". Come alcuni (rari) osservatori intuirono già allora, la storia - dopo avere posseduto le vetrate delle chiese, le pergamene, i libri stampati e tutti gli altri veicoli di espressione - iniziava a scriversi sulla superficie della televisione.

Alì contro Foreman

Kinshasa, capitale dello Zaire, 30 ottobre 1974: George Foreman e Muhammad Alì si contendono la corona mondiale dei pesi massimi. Si sta preparando uno degli eventi sportivi politicamente più significativi del secolo. Foreman è giovane, detiene il titolo, ha sconfitto in poche riprese gli sfidanti più accreditati (Norton e Frazier), ispira sensazione di potenza ad ogni movimento, e la stampa internazionale lo considera, giustamente, il favorito. Alì (che diventando musulmano aveva rinnegato il suo vero nome, Cassius Clay) ha 32 anni, e una storia logorante alle spalle. Per essersi rifiutato di partecipare alla Guerra del Vietnam, era stato privato del titolo mondiale (mantenuto dal 1964 al 1967), sospeso dall'attività e condannato a cinque anni di carcere. Odiato dalla maggioranza conservatrice degli Stati Uniti, Alì era così diventato un personaggio di culto in tutto il mondo. Tuttavia nel 1974, dopo un rientro faticoso segnato da due pesanti sconfitte (contro Frazer nel 1971 e Norton nel 1973, peraltro entrambe vendicate negli incontri successivi), Alì sembrava poco più di un pugile di talento vicino alla fine. Ma di tutte le storie raccontate dallo sport, questa è una delle più straordinarie.

Era stato un giovane e intraprendente organizzatore con un passato torbido, Don King, a comprendere la portata economica e spettacolare di un incontro tra Foreman e Alì, e ad impegnare i due pugili promettendo ad ognuno una borsa di cinque milioni di dollari. Gli mancavano, a questo punto, soltanto i dieci milioni di dollari necessari. Occasione favorevole per il colonnello Joseph Mobutu, sanguinario dittatore dello Zaire (che aveva messo fine al governo socialista di Patrice Lumumba), disposto a finanziare l'incontro in previsione di una facile pubblicità internazionale. Il combattimento, accompagnato da un concerto dei migliori musicisti neri (tra cui James Brown e B.B. King) e presentato come un evento di assoluto rilievo, venne organizzato nello stadio della capitale, Kinshasa.

Il campionato mondiale dei pesi massimi è uno degli eventi più seguiti in senso assoluto. Ma mai come in questa circostanza il mondo ha atteso il combattimento con impazienza e con partecipazione: perché l'incontro Alì-Foreman metteva in gioco questioni assai rilevanti sul terreno politico. Alì aveva interpretato l'incontro come una sorta di missione, dichiarando di essere stato "designato da Dio" per ricongiungere la popolazione nera degli Stati Uniti alle sue radici africane. Mobutu aveva impegnato nell'evento una buona parte della sua credibilità, cercando di legittimare il proprio regime con una visibilità internazionale guadagnata (tutto sommato) a poco prezzo. I neri d'America avevano eletto Alì a proprio modello ideale, apprezzandone il rifiuto dell'imperialismo bianco e il sostegno alla causa razziale. Al contrario molti osservatori, negli Stati Uniti, ne attendevano la (probabile) sconfitta, per relegarlo ad un ruolo folcloristico e distruggere la leadership politica che il pugile aveva guadagnato negli anni sessanta.

Previsto per il settembre del 1974, l'incontro fu rinviato (per un leggero infortunio di Foreman) al 30 ottobre, all'inizio della stagione delle piogge. Nello stadio di Kinshasa, riempito da centomila spettatori (tutti sedotti dal carisma di Alì), ristagnava letteralmente l'odore del sangue: infatti nei sotterranei, adattati a prigione, Mobutu aveva appena fatto giustiziare un centinaio di detenuti. L'incontro fu spostato ad un orario inconsueto, le 4 del mattino, per consentire la trasmissione televisiva negli Stati Uniti in un orario favorevole (le 22). Raramente un evento sportivo ha saputo intrecciare questioni politiche così rilevanti, come è capitato a Kinshasa.

Secondo i giornalisti presenti nello Zaire, un guaritore predisse ad Alì che nella notte un demone dalle sembianze di donna si sarebbe impossessato di Foreman. Sul ring, Foreman era invece un fiume in piena: per cinque riprese travolse Alì, costringendolo sulle corde e facendo presentire l'imminenza del knock-out. Quando i pronostici della stampa specializzata (e dello stesso spogliatoio di Alì) erano quasi realizzati, Foreman mostrò segni di stanchezza. Alì, a lungo travolto dalla potenza schiacciante del campione del mondo, uscì illeso dalle corde e cominciò a danzare la sua boxe, fatta di passi lievi e di incursioni veloci. Alì lo aveva promesso nelle settimane precedenti: "mi vedrete danzare". E così fece fino all'ottava ripresa, quando un gancio destro valse l'atterramento di Foreman e la corona mondiale.

Si era concluso uno dei più straordinari eventi pugilistici di ogni tempo. Alì passò il resto della notte nelle strade di Kinshasa, a stringere amicizia con i "fratelli" della nazione nera. La platea mediale di tutti i paesi era rimasta strabiliata dal suo fascino. Il pubblico degli Stati Uniti aveva invece vissuto un'esperienza lacerante, dividendosi tra l'ammirazione per l'impresa del pugile di Louisville, e l'avversione per la sua scelta di campo ideologica e religiosa. Nello Zaire, intanto, il trionfo di Alì era stato trasformato in una grande festa popolare, da cui rimase escluso proprio Mobutu (che si limitò a guardare l'incontro in privato, attraverso una trasmissione a circuito chiuso). Non tutto era andato come previsto, nella notte che ha visto consumarsi uno degli eventi sportivi e mediatici più radicati nella memoria dell'occidente.

Al di là del Muro

L'espressione "storia in diretta", che abbiamo scelto di utilizzare per descrivere le cerimonie mediali, si presta in modo particolare per gli eventi consumati tra la Cina e l'Europa orientale nel 1989. Come è noto, la politica riformatrice di Mikhail Gorbacëv (eletto segretario del Partito Comunista Sovietico nel 1985 e presidente dell'Urss nel 1990) aveva prodotto una sorta di reazione a catena, travolgendo tutti gli antichi regimi istituzionali e politici dell'Est. La televisione occidentale ha così attraversato per la prima volta la "cortina di ferro", assistendo avidamente ad una serie di eventi che rimettevano in gioco l'equilibrio geopolitico del pianeta.

Il primo grande evento mediatico del 1989 si è consumato in Cina, toccata solo marginalmente dalle innovazioni politiche. Le riforme di Deng Xiaoping avevano infatti agito (in senso liberista) soltanto sulla sfera economica, lasciando intatto il tessuto sociale e civile della "vecchia" Cina. Questa era la ragione della protesta organizzata dagli studenti dell'università di Pechino, messa in atto con l'occupazione della piazza Tienanmen, nella primavera del 1989, in occasione della visita di Gorbacëv. Il successo della manifestazione, tenuta in vita fino al mese di giugno, spinse Deng a reprimere la protesta con l'intervento brutale dell'esercito nella piazza Tienanmen, e ad ordinare l'epurazione o l'arresto di tutti i membri dell'ala politica riformista. Il pubblico occidentale, che aveva seguito in televisione gli sviluppi della contestazione giovanile, si trovò così ad assistere in diretta anche alla repressione. L'immagine più famosa, che mostrava un ragazzo disarmato a fronteggiare i carri armati sul Viale della Circonvallazione di Pechino, diventò una fotografia (intitolata appunto "della carne e dell'acciaio") che valse al suo autore (Charly Cole) uno dei più importanti premi internazionali, e un fotogramma televisivo che portò gli spettatori a diretto contatto con la storia contemporanea.

Nel frattempo, diversi paesi dell'Europa orientale (Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia) avevano iniziato a corrodere (letteralmente) la cortina di ferro. Se il pubblico occidentale aveva bisogno di un simbolo, tuttavia, questo simbolo non poteva che essere rappresentato dal Muro di Berlino. E infatti la televisione era presente quando la caduta del Muro, il 9 novembre 1989, ha dato corso alla riunificazione delle due Germanie. Mai prima di allora un evento di questa portata storica e politica si era consumato in diretta, di fronte a decine di milioni di spettatori.

La televisione ha avuto una parte altrettanto significativa anche nel passaggio istituzionale vissuto dalla Romania, reso più drammatico dalla repressione ordinata dal dittatore Nicolae Ceausescu. Nel dicembre 1989, il vecchio regime è stato infine scalzato da una forte insurrezione, conclusa con la fucilazione, ripresa in televisione, di Ceausescu e della moglie Elena. In realtà, è sembrato a molti che il filmato televisivo dell'esecuzione fosse una messa in scena piuttosto grossolana e approssimativa, e che i coniugi Ceasescu fossero stati uccisi in precedenza. Tuttavia questo (probabile) falso giornalistico è molto significativo del passaggio che si stava consumando, perché testimonia dell'importanza che alla televisione è stata attribuita dai protagonisti dei sommovimenti istituzionali del 1989. Non era più sufficiente il fatto, ma serviva l'evento: alle urgenze politiche e storiche si era sovrapposta l'esigenza mediatica. Il dittatore non era realmente morto, finché la tv non aveva mostrato a tutti la sua fucilazione.

Si è molto discusso sul ruolo della televisione nel crollo dei sistemi socialisti dell'Est. La televisione (soprattutto quella nordamericana) è stata anzi considerata una delle cause stesse di questo rinnovamento, in quanto, irradiando i suoi messaggi consumistici oltre la cortina di ferro, avrebbe attratto il pubblico verso il modello di sviluppo occidentale, corrodendo la cultura su cui si fondavano i regimi socialisti. In questo come in molti altri casi, in realtà, il ruolo della televisione sembra un po' sopravvalutato e non proporzionato allo svolgimento reale degli eventi (sul quale, nel caso specifico, ha pesato sicuramente di più l'isolamento e l'abbrutimento a cui i vertici istituzionali avevano condannato le popolazioni dell'Est).

Rimane comunque di primaria importanza il ruolo assunto dalla televisione nel corso della crisi e poi del disfacimento dei sistemi socialisti, progressivamente consumato (ad eccezione della Cina) nel corso del 1989. In questa transizione storica, la televisione non ha costituito (come detto) una causa scatenante, ma non ha nemmeno giocato un semplice ruolo di documentazione, cioè di informazione su quanto stava accadendo: ha invece avuto un ruolo più profondo di trasformazione. Molti eventi sarebbero accaduti in modo diverso senza la televisione e altri, per accadere, avevano necessariamente bisogno della tv. Un evento mediale (e stiamo parlando di alcuni dei più rilevanti) ha sempre un potere di trasformazione, verso i suoi protagonisti come verso i suoi spettatori.

La Guerra del Golfo

Quando, all'inizio di agosto del 1990, l'esercito iracheno invade il Kuwait, si creano le premesse per uno scontro militare tra le forze occidentali e il dittatore Saddam Hussein. Nel mese di novembre, le Nazioni Unite (con l'appoggio anche dell'Unione Sovietica) votano un ultimatum con scadenza al 15 gennaio 1991. Appena un giorno dopo questa scadenza, nella notte tra il 16 ed il 17 gennaio, inizia l'operazione "tempesta nel deserto", che con un massiccio bombardamento sull'Iraq e con l'intervento terrestre nelle zone occupate, permette alla forza multinazionale guidata dagli Stati Uniti di liberare il Kuwait alla fine di febbraio.

Questa guerra non avrebbe nulla di diverso da molte altre, se non fosse stata la prima guerra in diretta della storia. Infatti tutte le televisioni occidentali hanno seguito costantemente le operazioni militari, cercando di dare conto minuto per minuto di quanto stava accadendo. Si è molto discusso sulla correttezza di questa copertura televisiva, viziata da uno scarso equilibrio politico, da una costante manipolazione delle notizie, dalla costruzione di situazioni inesistenti, dall'esercizio sistematico della censura. Tuttavia, al di là e a dispetto di questi problemi (di importanza innegabile), la Guerra del Golfo ha rappresentato un evento mediale di clamorosa portata, che ha coinvolto (di giorno come di notte) tutto il pubblico occidentale.

Per circa un mese e mezzo, la televisione ha trasmesso la guerra integralmente in diretta. Tuttavia questa copertura televisiva ha prodotto, paradossalmente, una condizione non solo di trasparenza, ma anche, per molti versi, di invisibilità del conflitto. Ne è una dimostrazione il fatto che, per la prima volta, tra tutte le informazioni relative alla guerra sia mancata quella più importante, e cioè il numero delle vittime (le uniche stime, che oscillano tra le 80.000 e le 170.000 vittime irachene, sono frutto di valutazioni molto approssimative tentate da alcuni storici e giornalisti americani). Sul piano mediatico, infatti, l'aspetto più denunciato della Guerra del Golfo è proprio la frattura che si è creata tra la realtà concreta - corporea - della guerra e la sua rappresentazione televisiva, sacrificata all'esaltazione della tecnologia e della potenza bellica occidentale.

La televisione (è facile ricordarlo) ha riassunto la guerra in alcune sue manifestazioni sintomatiche ma secondarie, dai tracciati luminosi dei missili alle sirene dell'allarme antiaereo di Baghdad. Mostrati con assoluta trasparenza nella loro traiettoria, i missili erano in realtà invisibili nei loro effetti e nella loro portata concreta. Evidenziate con puntualità nella loro perfezione formale, le strategie della forza multinazionale erano in realtà nascoste a quello stato di visibilità che la televisione stessa aveva promesso. Il più grande sforzo organizzativo dei media occidentali aveva sedotto il pubblico mondiale, lasciando però per molti versi insoddisfatti i suoi appetiti. Mostrando la carta geografica ma non il territorio.

Con troppa fretta molti osservatori hanno parlato della Guerra del Golfo come di una vittoria della televisione (si è parlato, in questo senso, di "guerra mediale" e di "guerra postmoderna"). Sottovalutando il fatto che - pur essendo indubbiamente, da alcuni punti di vista, una grande celebrazione mediale - la Guerra del Golfo aveva sancito, per altri versi, anche la sconfitta della televisione. Infatti quasi tutte le emittenti televisive si sono arrese (per una ragione o per l'altra) all'impossibilità di raccontare la guerra, lasciando campo libero alla Cnn (e utilizzandola come fonte primaria di informazione). E forse è stato solo l'inviato della Cnn a Baghdad, Peter Arnett, a raccontare effettivamente la guerra, con un atteggiamento il più possibile imparziale ed equilibrato (cosa che gli è valsa la diffidenza del pubblico statunitense, alimentata dal fatto che i suoi reportage erano soggetti al visto delle istituzioni irachene). Su tutte le trasmissioni pesava in aggiunta la censura, esercitata dall'Iraq ma anche, seppure in modo più impalpabile e non dichiarato, dagli Stati Uniti. Se da un certo punto di vista, quindi, la televisione ha mostrato tutti gli eventi di guerra, da un altro punto di vista, al contrario, li ha occultati. Si è visto tutto, eppure non si è visto nulla.

In tutte le sue contraddizioni, la Guerra del Golfo ha costituito un evento mediale clamoroso. Guerra trasparente e insieme guerra invisibile, è stata fatta oggetto di analisi diverse, ma tutte egualmente scandalizzate ed estreme. Che abbia mostrato troppo o troppo poco, è probabile che la copertura televisiva della Guerra del Golfo, in realtà, abbia fatto vedere quello che una guerra rappresenta oggi, appunto con le sue contraddizioni e con il potere crescente delle tecnologie. Tra l'esaltazione della "guerra tecnologica" e la promessa (non mantenuta) di rendere visibile gli aspetti tradizionali del conflitto, i media hanno a lungo sospeso l'attenzione del pubblico mondiale. Il nuovo modo di combattere (come dimostra anche l'operazione militare della Nato contro la Serbia) è anche un nuovo modo di raccontare la guerra, facendone un evento raggiungibile da tutti eppure da tutti inconsumabile. In questo sì - nel mostrare la magnificenza dei media ma anche la loro debolezza - la Guerra del Golfo è stata una guerra mediatica.

La morte di Lady Diana (1997)

Tutta una vita sul filo della spada, sul confine labile tra lo spazio privato e quello pubblico della ribalta, tra la malinconia dei doveri regali e la visibilità abbagliante dello star-system. E una morte schiacciata tra queste stesse sensazioni, durante una fuga (non era la prima volta e non sarebbe stata l'ultima) dai fotografi che l'avevano "assediata" nell'hotel Ritz di Parigi. Una morte simile a tante altre - di quelle morti precoci che canonizzano un personaggio - eppure diversa, scandita da una presenza ossessiva dei mezzi di informazione che ha fatto di Diana un'icona mediatica come forse non ne sono esistite prima.

La storia di Diana è infatti, da subito, una storia "mediale". Le prime apparizioni pubbliche (1980) ed il fidanzamento con il principe Carlo (1981) la ritraggono come una timida insegnante d'asilo che i tabloid trasformano avidamente nell'ultima incarnazione della favola di Cenerentola (nemmeno l'arcivescovo di Canterbury, nel celebrarne le nozze, avrebbe resistito a questa citazione). Il 29 luglio del 1981 Carlo sposa Diana, nella cattedrale di S.Paul, offrendo alla televisione l'occasione di una straordinaria rappresentazione.

La diretta organizzata dalla BBC è lunghissima (oltre cinque ore di trasmissione) ed imponente, attira i tre quarti della popolazione inglese, paralizzando la giornata con la sua qualità di evento eccezionale, festivo. La gestione dell'evento è accurata e perfino maniacale, al punto che ai cavalli usati nella parata vengono somministrati dei lassativi (lo ha osservato Umberto Eco) che rendono più uniforme e meno visibile il colore degli escrementi. L'ingranaggio gira alla perfezione: il mito di Cenerentola aleggia sull'evento, condizionando in modo evidente l'allestimento della cerimonia, le strade attraversate dal corteo sono affollate fin dalla prima mattina, la diretta in mondovisione cattura (a quanto si è calcolato) circa 750 milioni di spettatori in 79 diversi paesi. Si è compiuto un clamoroso evento mediale di celebrazione e di "incoronazione" (come lo definiscono i maggiori teorici dei media events, Daniel Dayan ed Elihu Katz).

Si sa che, per tutti i regnanti ed i principi, difendere la privacy è tutt'altro che semplice. E così anche Diana Spencer ha visto trasformare in notizia tutti gli eventi della sua vita coniugale: il forte stato di depressione seguito alle nozze, la nascita di William (1982) e di Henry (1984), i sospetti sul marito (che aveva effettivamente avviato la sua relazione con Camilla Parker-Bowles), i ripetuti viaggi all'estero, il rapporto problematico con la monarchia. Tutto come nelle condizioni e nelle aspettative del ruolo.

Tuttavia c'è un momento in cui Diana, da semplice pedina del divismo internazionale, inizia a proporsi come protagonista dello scenario mediatico, a farsene soggetto attivo e prepotente. Già nella prima metà degli anni ottanta, i viaggi all'estero della coppia regale vedono risaltare l'imprevedibile popolarità della principessa, tanto più estranea allo stile tradizionale della casa regnante e tanto più immediatamente apprezzata dai media e dal pubblico. La debolezza psicofisica (in tutte le sue forme: bulimia, depressione, svenimenti, malinconia, presunti o reali tentativi di suicidio) ne fa gradualmente un personaggio di primo piano: già nel 1983 Diana risulta la donna più fotografata del mondo.

L'enorme casistica di litigi e di singolari episodi matrimoniali, riportata avidamente dai rotocalchi (non solo inglesi), aveva avuto così un effetto imprevisto: quando nel 1992 la coppia decide la separazione (come annunciato direttamente dal capo del governo, John Major), i sondaggi attestano che in Inghilterra Diana è (ampiamente) il personaggio più apprezzato della famiglia reale. Nello stesso 1992 compare il libro-intervista Diana, Her True Story (destinato ad un enorme successo di pubblico), in cui Diana racconta al giornalista Andrew Morton la storia del proprio matrimonio. Indicato da Carlo come una delle ragioni stesse della separazione, il libro (seguito a varie biografie "non autorizzate") mette fine alla "favola" costruita dai tabloid e lo fa, ancora una volta, in modo clamoroso ed irresistibilmente spettacolare.

In modo ancora più clamoroso, Diana concede nel 1995 una lunga intervista televisiva, in cui racconta direttamente la sua storia ad un pubblico stimato di circa 21 milioni di spettatori: e di questi, secondo un sondaggio, ben l'85% dichiara di condividerne le ragioni. A questo punto, Diana vive una nuova fase della propria esperienza, attraversata da tensioni di vario genere (le relazioni sentimentali, l'infelicità, l'impegno civile, l'amicizia con Madre Teresa di Calcutta, la guerra quotidiana con i fotografi), che le concedono una sempre crescente centralità nell'immaginario internazionale.

La Mercedes guidata dall'autista Henry Paul (e inseguita dai fotografi) si schianta nella notte del 31 agosto 1997 contro il tredicesimo pilastro del tunnel dell'Alma, a Parigi. L'autista e Dodi Al Fayed muoiono sul colpo (l'unico sopravvissuto sarà la guardia del corpo Trevor Rees Jones), Diana muore invece alle 4 del mattino, dopo un intervento chirurgico. Per tutta la settimana seguente, il funerale di Diana costituirà l'evento mediale per eccellenza, una porzione di immaginario collettivo sempre più strettamente legata - nel bene e nel male - all'azione dei media di massa e alla memoria della televisione.

4. Le utopie

4.1 Utopie della comunicazione

Estremizzando il discorso, tutte le utopie sono - in ultima analisi - utopie della comunicazione. Infatti il pensiero utopico ha sempre insistito sulla rappresentazione di un ordine sociale alternativo, di una comunione ideale tra gli individui che sottende un nuovo e più soddisfacente contratto comunicativo. Un'efficace strategia del comunicare - cioè, letteralmente, del mettere qualcosa in comune - permette la riduzione dei pregiudizi e dei disturbi e quindi, infine, degli stessi contrasti sociali.

Questa sensazione è ancora contenuta e in qualche modo implicita nell'utopia classica (derivata idealmente dalla Repubblica di Platone), in cui le strategie comunicative appaiono più l'effetto che la causa di un corretto ordinamento civile. E' così che, con Utopia (1516) di Tommaso Moro (1478-1535) e La città del sole (1623) di Tommaso Campanella (1568-1639), il pensiero moderno aveva liberato la propria vocazione utopica, seppure ad un livello di progettualità sociale forzatamente basso.

Tuttavia con il trascorrere della modernità, e con la progressiva strutturazione della società industriale, il rapporto tra utopia e comunicazione è diventato più stretto e tendenzialmente insolubile. Non è più infatti l'utopia a contenere in sé la comunicazione, ma è la comunicazione a contenere in sé l'utopia, in quanto realizzazione di quel legame universale di cui il pensiero utopico tradizionale aveva mostrato le premesse ed i germi.

Tracce significative di questo passaggio sono visibili nel pensiero degli utopisti moderni, condizionato dall'influenza che le "macchine" andavano gradualmente imponendo all'immaginario e dalle necessità comunicative che lo sviluppo industriale aveva alimentato. La prima forma di utopia "tecnologica" conosciuta coincide con la Nuova Atlantide (1621) del filosofo e cancelliere d'Inghilterra Francesco Bacone (1561-1626). Il richiamo alla mitica civiltà atlantidea serve a Bacone per introdurre le meraviglie di un'isola del Pacifico governata da un'Accademia delle Scienze (la cosiddetta "casa di Salomone"), e sede delle più audaci innovazioni tecnologiche: esperimenti metereologici, studi ottici e acustici, perfino ricerche sulla fecondazione artificiale. Per la prima volta, il funzionamento della "città intelligente" dipende così non soltanto da una particolare forma di organizzazione sociale, ma anche dal destino e dagli sviluppi della tecnologia.

Tuttavia il primo utopista a risentire profondamente della cultura industriale è stato probabilmente il filosofo e rivoluzionario francese Claude Henri de Saint-Simon (1760-1825). Avvertendo la crisi degli ordinamenti politici tradizionali, Saint-Simon aveva infatti progettato una nuova forma di unione nazionale fondata sulla comunione del benessere e sulla riorganizzazione dei trasporti, destinate a favorire la mobilità degli individui e con essa l'integrazione dell'organismo sociale. Rispetto ad uno stato che andava sfaldandosi nelle sue componenti legalistiche, Saint-Simon immaginava quindi una gestione orizzontale degli affari sociali e culturali, proponendo di innervare gli ordinamenti cadenti degli antichi regimi con una nuova rete di comunicazione.

In qualche modo simile era la posizione del pensatore e teorico socialista Charles Fourier (1772-1837), a cui risale il celebre concetto di falansterio come comunità ideale per la convivenza tra gli uomini. Secondo Fourier, peraltro, un'efficace organizzazione geopolitica del pianeta era legata alla possibilità di mettere velocemente in comunicazione le sue diverse regioni (fino a collegare, come egli stesso affermava, l'Inghilterra all'India in sole quattro ore). La realizzazione dell'utopia era quindi legata a quella che Fourier definiva una "trasmission miragique" (espressione difficilmente traducibile, ma significativa di un forte investimento nei poteri della comunicazione), e cioè alla possibilità di connettere le diverse zone del pianeta in un sistema comunicativo in grado di esteriorizzare e gratificare le passioni degli uomini. In questo modo la comunicazione - anche se ancora pensata, piuttosto istintivamente, come una sorta di "fluido magico" in grado di attraversare il pianeta - ha iniziato ad invadere le motivazioni del pensiero politico e a proporsi all'immaginario occidentale.

Un atteggiamento simile, anche se in forme ideologicamente più esasperate e più decisamente conflittuali, ha animato la riflessione utopistica di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1864), socialista con forti connotazioni anarchiche e teorico, tra l'altro, del credito bancario gratuito. Secondo Proudhon, va aggiunto, i mezzi di trasporto - e in particolare la ferrovia - rappresentavano il nuovo terreno di conflittualità sociale, su cui far agire le rivendicazioni politiche e di classe. Nella sua idea, soltanto sostituendo la gestione monarchica accentratrice con una gestione autonomistica si sarebbe potuto raggiungere un effettivo equilibrio nell'economia degli scambi e dei trasporti, presupposto necessario per la realizzazione di un sistema democratico.

In tutti questi pensatori, quindi, all'interno di un impianto teorico di tipo tradizionale andava prendendo corpo una nuova sensibilità riguardo l'importanza dei processi comunicativi (resa nel frattempo evidente dagli effetti della rivoluzione industriale). Tuttavia il riconoscimento della centralità della comunicazione è ancora più evidente nel pensiero dell'economista e giornalista francese Michel Chevalier (1806-1879). Con Chevalier, infatti, la comunicazione viene esplicitamente intesa come un veicolo di affermazione di un nuovo ordine comunitario, perfino al di sopra dei tradizionali valori politici. In un articolo pubblicato su "Le Globe" del febbraio 1832, e dedicato al cosiddetto "sistema Mediterraneo", Chevalier ha chiarito in modo particolare il suo progetto di rifondazione sociale basato sull'efficacia dei mezzi di trasporto e di comunicazione. Nella sua idea, il progresso tecnologico aveva creato le premesse per il superamento delle barriere sociali e culturali: il telegrafo e la ferrovia, soprattutto, rendevano possibile la connessione tra zone geograficamente lontane, e quindi la creazione di un organismo sovranazionale come il "sistema Mediterraneo", fondato sull'eguaglianza e sulla cooperazione degli individui. L'idea di Chevalier era, naturalmente, fin troppo ottimistica (nel senso che trascurava i forti squilibri determinati dalla distribuzione diseguale delle tecnologie): malgrado questo, la sua riflessione è molto significativa dell'importanza che la comunicazione aveva assunto nel pensiero politico e sociale.

Ancora più radicale è stata la posizione assunta dal principe russo Pëtr Kropotkin (1842-1921). Studioso di geografia ma anche attivista socialista, membro dell'Internazionale e poi teorico di una sorta di "anarchismo scientifico" (anche se non direttamente impegnato nella rivoluzione d'ottobre), Kropotkin aveva cercato di conciliare le urgenze del suo disegno politico con le potenzialità offerte dal progresso. Nella sua idea, l'evoluzione industriale aveva infatti aperto nuove e decisive possibilità allo sviluppo civile: per realizzare queste possibilità, tuttavia, sarebbe stata necessaria una gestione decentrata delle risorse tecnologiche. In particolare, l'elettricità sembrava costituire al geografo russo una straordinaria risorsa, da diffondere in tutte le zone rurali per creare una sorta di connessione universale in grado di garantire ad ogni comunità la gestione dei propri obiettivi e la scelta consapevole del proprio sistema di produzione. Al pari di quello di Chevalier, quindi, il pensiero di Kropotkin non ha raggiunto esiti realmente produttivi: ma è a sua volta significativo di una nuova sensibilità verso i mezzi di comunicazione come strumenti di affermazione di un determinato ordine sociale.

Per molti aspetti direttamente derivata dall'idea di Kropotkin, ma decisamente più fortunata, è stata l'interpretazione offerta dal sociologo americano Lewis Mumford (1895-1990), studioso di urbanistica e di problemi della modernità. Occupandosi di evoluzione tecnologica e insieme di storia delle utopie (a cui aveva dedicato un volume monografico), Mumford aveva infatti messo in evidenza il contrasto tra le potenzialità positive dell'evoluzione tecnologica e l'utilizzo a cui il capitalismo l'aveva destinata, lasciando a sua volta intendere un possibile riscatto fondato sulla gestione umanistica delle tecniche comunicative. In realtà, Mumford avrebbe poi (almeno parzialmente) rinnegato questa interpretazione, per elaborare una visione più negativa del rapporto tra tecnologia e società. La sua riflessione ha comunque avuto un merito fondamentale: quello di riconoscere in modo ormai definitivo l'importanza delle tecnologie - e con esse delle tecnologie della comunicazione - come punti di equilibrio nell'evoluzione sociale. Nel bene e nel male, questa convinzione sarebbe stata seguita nel corso del novecento, ed i mezzi di comunicazione non avrebbero più abbandonato l'immaginario politico e utopistico della cultura occidentale.

Negli ultimi decenni, infine, si è mostrato in modo evidente come l'economia, la politica e la vita istituzionale siano ormai indissolubilmente legate allo sviluppo delle comunicazioni. Un intreccio (non sempre trasparente, com'è ovvio) di capitali, investimenti, motivazioni ideologiche e strategie di mercato in cui si sono ancora ritagliate uno spazio ed un ruolo alcune forti convinzioni utopistiche (seppure di nuovo tipo). Ad esempio grazie all'imprenditore americano Ted Turner, fondatore della Cnn, abbiamo visto in qualche modo prendere corpo l'utopia di un network universale, in grado di proporsi in tutte le zone del pianeta come la più immediata e più completa fonte di informazione. Con l'iniziazione politica di Silvio Berlusconi, allo stesso modo, abbiamo assistito in Italia alla realizzazione di un progetto utopico: quello di creare (come è stato definito) un autentico "partito-azienda", ovvero di strutturare un movimento politico in quanto espressione diretta della spettacolarità del consumismo televisivo. Un progetto fondato non su una strategia di manipolazione degli elettori (come pure molti critici hanno sostenuto) ma invece inscritto in una più ampia dimensione di consenso culturale, in grado di ritagliare un nuovo territorio politico in uno spazio difficilmente riducibile ai metodi tradizionali della vita istituzionale. Un soggetto politico ricavato in un luogo immaginario, irreale. Cioè, a suo modo (e, peraltro, in un modo per molti versi negativo) un'utopia.

C'è ovviamente una differenza sostanziale tra l'utopia come incarnazione del bene collettivo e l'utopia come realizzazione di un progetto individuale e privato (come nei casi di Turner e di Berlusconi). Rimane il fatto che qualsiasi modo di pensare la società contemporanea (la sua politica, la sua cultura, il suo equilibrio strategico) è ormai necessariamente vincolato ad un modo di pensare la comunicazione, ad un modo di intendere i media. Nel bene o nel male. O meglio (vista la dimensione duplice e spesso contraddittoria del progresso): nel bene e insieme nel male, nei suoi valori così come nei suoi disvalori.

4.2 La teoria prende forma

Nel corso del novecento, il pensiero utopistico è stato sempre più fortemente caratterizzato dall'importanza della comunicazione, intesa come strategia funzionale all'affermazione di un nuovo ordine sociale o politico. Mentre sono gradualmente svanite le grandi costruzioni utopistiche del pensiero tradizionale (il riferimento più ovvio è al marxismo), quindi, nella cultura occidentale ha iniziato a prendere corpo e a diffondersi una nuova risorsa ideologica.

Questo passaggio si è compiuto nel momento in cui la comunicazione, perdendo la sua connotazione esclusivamente tecnologica e quindi il suo valore strumentale (passando, in qualche modo, da mezzo a fine dell'azione umana), è stata almeno idealmente applicata alle più rilevanti questioni sociali e politiche. Alla definizione di questa nuova forma di utopia, poi diffusa in tutto il corpo sociale, hanno inizialmente concorso scienziati e ricercatori di diverso genere - tra cui Wiener, Turing, Von Neumann, Bateson - dediti con attenzione crescente e con crescente consapevolezza politica alla ricerca sulla comunicazione.

In questo contesto, la più significativa (e più ambiziosa) forma di utopia legata alla comunicazione è stata sviluppata intorno all'opera del matematico americano Norbert Wiener (1894-1964), docente al MIT, studioso di cibernetica e di teoria dell'informazione (poi messa a punto, nella versione definitiva, dal suo allievo Claude Shannon). Il nodo centrale del pensiero di Wiener è costituito proprio dalla riflessione sui principi generali della cibernetica - un termine oggi piuttosto in voga (con tutti i suoi derivati), ma non sempre correttamente interpretato (almeno nel suo senso originale).

Per cibernetica si intende, generalmente, lo studio dei sistemi in grado di autogovernarsi per raggiungere un obiettivo determinato. Un sistema cibernetico è quindi costituito da un elaboratore di informazioni che amministra il dato in entrata, e (soprattutto) da un rilevatore sensibile all'azione dei fattori imprevisti, che confronta lo stato registrato con quello ipotizzato in partenza e modifica di conseguenza il comportamento del sistema stesso. La caratteristica essenziale di questi meccanismi è quindi la capacità di retroazione, nel senso che essi possono modificare il proprio funzionamento al mutare delle condizioni di fatto.

La cibernetica è quindi, prima di ogni altra cosa, una disciplina logica. Per mostrarne l'efficacia sul piano pratico e rivelarne appieno le potenzialità, tuttavia, sono stati necessari gli sviluppi recenti dell'elettronica e dell'automazione. Ad esempio i sistemi cibernetici sono stati applicati, nel corso della seconda guerra mondiale, alla difesa antiaerea. I meccanismi a puntamento automatico dovevano infatti prevedere non solo la traiettoria iniziale dell'aereo da abbattere, ma anche le inversioni di rotta del pilota nemico, per poter modificare di conseguenza il tiro. E' lo stesso principio che regola, ad esempio, i sistemi di guida "intelligenti" utilizzati per il lancio dei missili.

Iniziando a lavorare nel 1942 al suo progetto (peraltro senza usare ancora il termine "cibernetica"), Wiener si trovava quindi di fronte l'esigenza di sistematizzare una risorsa già ampiamente utilizzata dall'uomo. Nel periodo della seconda guerra mondiale, come detto, la produzione bellica aveva fatto propria l'idea di costruire dei "sistemi intelligenti": ma aveva naturalmente piegato questa risorsa ad un utilizzo eticamente distorto, distruttivo, aberrante. La riflessione di Wiener nasceva invece da un'altra considerazione, e cioè dall'idea che la comunicazione (cioè lo scambio di informazione su cui si fonda un sistema cibernetico) potesse costituire una risorsa positiva, perfino una via d'uscita delle lacerazioni aperte dai totalitarismi e dalla guerra mondiale.

Secondo Wiener, in sostanza, il comportamento di tutti gli esseri viventi consiste nello scambio di informazione, e quindi la complessità del reale è interpretabile soprattutto nei termini di una relazione comunicativa (o "comportamento di scambio") tra i suoi componenti. In questo senso, Wiener rifiuta radicalmente (com'è ovvio) ogni nozione di "interiorità", mettendo in evidenza l'importanza che le trame comunicative hanno nella costruzione della realtà. Quindi la posizione di Wiener, per molti versi, richiama quella di altri studiosi che in campi diversi (si pensi a Turing e Von Neumann così come, per altri versi, a Gregory Bateson) hanno interpretato il reale attraverso la metafora della rete di comunicazione.

Con la pubblicazione del volume Cybernetics (1948), in cui illustra gli aspetti essenziali della sua riflessione, Wiener aveva raggiunto solamente in parte il proprio obiettivo. Il matematico è infatti interessato non soltanto ai risvolti scientifici della sua ricerca, ma è anche ossessionato dalle sue possibili applicazioni sociali, e quindi dal timore di consegnare una risorsa così importante ad un mondo corroso dai vizi del potere e della guerra. Per questa ragione, Wiener lavora ad un progetto più ambizioso: quello di trasformare la propria riflessione in una materia di ampia divulgazione. Il risultato di questo sforzo è rappresentato nel 1949 dallo scritto The Human Use of Human Beings, dedicato appunto all'ambizioso obiettivo di un "uso umano degli esseri umani".

Da Wiener, all'utopia. L'ipotesi seguita dalla vulgata sulla cibernetica il mondo sia in pericolo perché minacciato dall'entropia, cioè dal disordine e dal caos. All'opposto l'informazione (se correttamente gestita) è un sistema produttore di ordine, che può permettere la riduzione dell'entropia ed assicurare quindi il giusto funzionamento della dinamica sociale. Una volta adeguatamente innescato, il meccanismo di scambio informativo può cioè produrre un sistema cibernetico, in grado di mantenere il proprio equilibrio e di favorire il raggiungimento degli obiettivi strutturali.

Intendendo la società come un insieme strutturato da un complesso di scambi di informazione, si può fornire una metafora piuttosto efficace (e che tanto più efficace risulta a mezzo secolo di distanza, nell'epoca del personal computer e della rete), ma si finisce anche per aprire una rosa di questioni di difficile risoluzione. L'ideologia della cibernetica, infatti, è che per consentire l'equilibrio comunicativo tra le diverse parti sociali è necessario sollevare l'uomo dagli incarichi di potere, favorendo un sistema di autoregolamentazione dell'organismo sociale (fondato appunto sui principi della cibernetica). Una volta innescato il mecanismo, le "macchine intelligenti" potranno assolvere i compiti di regolazione del sistema sociale, mantenendone l'equilibrio ed il funzionamento. Idea affascinante ma poco credibile, perfetta in sé eppure irrealizzabile, che rimarrà - per l'appunto - un'utopia.

Elementi utopistici molto significativi (anche se non sempre interpretati in modo corretto dalla critica) sono presenti anche nell'opera dello studioso canadese Marshall McLuhan (1911-1980), l'autore che maggiormente ha contribuito a diffondere i concetti ed i valori della comunicazione nell'immaginario collettivo. In realtà, a differenza di quanto spesso si sostiene, McLuhan non ha sviluppato un pensiero indiscriminatamente ottimistico sugli effetti del progresso: la sua è anzi una visione molto complessa (e per certi versi drammatica) del rapporto tra uomini e tecnologie. Anche se la sua popolarità è legata ad uno stile che ha prodotto audaci rappresentazioni del futuro (su tutte l'idea del "villaggio globale"), McLuhan ha sviluppato la propria riflessione intorno alle radicali trasformazioni indotte dalle tecniche comunicative sulla percezione della realtà.

Esiste una differenza sostanziale tra McLuhan e gli "utopisti" della comunicazione di cui abbiamo parlato finora. Nel caso di questi pensatori, infatti, il nodo essenziale per lo sviluppo della società era costituito da un particolare utilizzo dei mezzi di comunicazione. Secondo McLuhan, invece, i media sono agenti di trasformazione sociale in quanto tali, indipendentemente dal loro utilizzo: la scrittura, il telegrafo, la radio e la televisione agiscono sulla società perché, comunque vengano usati e quale che sia il loro contenuto, sono portatori di una nuova percezione dello spazio e del tempo.


In una cultura come la nostra, abituata da tempo a frazionare e dividere ogni cosa al fine di controllarla, è forse sconcertante sentirsi ricordare che, per quanto riguarda le sue conseguenze pratiche, il medium è il messaggio. Che in altre parole le conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni indotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnologia. E' vero per esempio che, in seguito all'automazione, la nuova organizzazione della società umana tende a eliminare posti di lavoro. E questa è la conseguenza negativa. In senso positivo però l'automazione stessa crea dei "ruoli" e ricostituisce così una profondità di partecipazione nel lavoro e nella società umana che la tecnologia meccanica precedente aveva distrutto.


Se il mezzo è il messaggio - cioè se ogni medium impone alla società determinate conseguenze e una determinata percezione degli equilibri spaziotemporali - ne deriva che gli effetti negativi e gli effetti positivi della tecnologia non sono affatto separabili, ma costituiscono le due dimensioni speculari dell'inevitabile spinta al progresso che caratterizza le società occidentali. Una tecnologia ha un effetto positivo (in quanto estende le capacità dell'uomo: ad esempio l'automobile ha dilatato enormemente le possibilità di spostamento fisico) e insieme un effetto negativo (in quanto "atrofizza" alcune capacità sensoriali e sovverte il regolare andamento della società). E questo perché la prima conseguenza di una tecnologia è proprio l'affermazione di se stessa e la creazione del proprio bisogno (finché non esiste l'automobile, scrive McLuhan, nessuno ne sente concretamente il bisogno). Il mezzo è il messaggio, appunto.

Il problema di McLuhan è capire cosa succederà al mondo nell'epoca dei media elettronici. L'elettricità ha infatti il potere di attraversare e di scardinare i tradizionali ordinamenti sociali, di mettere in discussione gli istituti culturali e le convenzioni su cui si fondavano. L'uomo ha abitato il villaggio - ricorda McLuhan - e quindi la città e la nazione. Oggi l'uomo abita il mondo (come ha scritto McLuhan, "nell'epoca elettrica abbiamo come pelle l'intera umanità"), perché le connessioni elettroniche rendono vicino tutto quanto era lontano, riducono le barriere tra le culture e in questo modo (anche se questo è un passaggio piuttosto problematico) riproducono su scala planetaria il contatto interpersonale fondato sulla comunicazione orale. Con i media elettronici viene quindi recuperata la dimensione tribale dell'esistenza, dilatata però a livello transnazionale: si entra così nell'epoca del "villaggio globale". Scriveva nel 1964 McLuhan:


una gerarchia tribale e feudale di tipo tradizionale si sfalda rapidamente al contatto con qualunque medium caldo di tipo meccanico, uniforme e ripetitivo. Il denaro, la ruota, la scrittura, o qualsiasi altra forma di accelerazione specialistica degli scambi e dell'informazione, finiranno per frammentare la struttura tribale. Analogamente un'accelerazione molto più intensa, come quella che si verifica con l'elettricità, può servire a ristabilire uno schema tribale di intenso coinvolgimento, come è avvenuto in Europa con l'avvento della radio e come sembra stia per accadere in America con la TV. Le tecnologie specialistiche de-tribalizzano. La tecnologia elettrica ri-tribalizza.


I media elettronici trasportano quindi l'umanità in una nuova dimensione culturale, stravolgendo gli equilibri fondati sulle tecnologie della scrittura fonetica e della stampa (è quello che McLuhan intende con il passaggio dalla "galassia Gutenberg" alla "galassia riconfigurata"). Con la radio e la televisione, quindi, si verifica una connessione tra tutte le zone del pianeta che cambia radicalmente il senso dello spazio e del tempo così come eravamo abituati a percepirlo nell'epoca della stampa (è notevole, per inciso, il fatto che McLuhan abbia sviluppato questo concetto già prima dell'avvento delle reti telematiche e delle "autostrade informatiche", che hanno dato un'ulteriore e decisiva spinta al processo di globalizzazione).

Secondo McLuhan, quindi, il futuro dell'umanità passa decisamente attraverso la comunicazione. In questo senso, McLuhan è un utopista: nel senso che ha dedicato una parte rilevante della sua riflessione alla rappresentazione di un nuovo assetto della società industriale. A ben vedere, tuttavia, è difficile considerare McLuhan (come fanno in molti) semplicemente come un ingenuo ed entusiasta apologeta delle nuove tecnologie. Nella sua visione manca infatti quella tensione ideologica - incarnata nella rappresentazione di un futuro necessariamente migliore del presente - che aveva accompagnato lo sviluppo tradizionale del pensiero utopistico (il futuro, secondo McLuhan, non sarà migliore ma semplicemente diverso dal passato: talmente diverso, tuttavia, da richiedere nuovi strumenti di giudizio, nuovi metodi di valutazione).

Il futuro, dicevamo, passerà per la comunicazione. Con questa affermazione, McLuhan ha compiuto un'operazione decisamente rivoluzionaria - alla quale ha contribuito non poco il suo stile poco metodico, impressionistico, perfino antiaccademico ed eversivo. Dopo la sua intensa (e non poco problematica) predicazione, infatti, è diventato impossibile ignorare l'importanza dei mezzi di comunicazione, la loro consistenza, la loro vitale centralità nelle dinamiche e nei conflitti della società industriale avanzata.

In realtà, si potrebbe discutere a lungo (e in effetti si è discusso a lungo) sulla veridicità delle affermazioni mcluhaniane, ed in particolare sulla metafora del "villaggio globale", che più di ogni altra racchiude l'essenza del suo pensiero. E' infatti discutibile che la cosiddetta "mondializzazione" abbia effettivamente riproposto (ovviamente su scala più grande) la dimensione comunitaria del villaggio: sia perché il ritorno all'oralità (quella di radio e televisione) è stato consumato all'interno di un sistema comunque ancora condizionato dai poteri della scrittura (mentre McLuhan sembrava credere ad una più drastica successione delle due modalità comunicative), sia perché la nuova realtà "globale" non ha affatto assunto quelle caratteristiche di armonia tipiche appunto dell'esistenza comunitaria. Inoltre, è anche vero che il processo di globalizzazione non si è integralmente compiuto (almeno non nella misura in cui era stato immaginato e previsto), nel senso che ha coinvolto soltanto la parte avanzata del pianeta, lasciando ai margini dell'evoluzione tutte le zone povere (un divario che si sta peraltro riproducendo e perfino ampliando con la diffusione della telematica).

Quella del "villaggio globale" rimane quindi, per molti versi, una visione di prospettiva, un progetto incompiuto, una costruzione culturale. E cioè, ancora una volta, un'utopia. Ma un'utopia che - proprio a dispetto della sua incompiutezza e della sua irrealizzabilità - non ha smesso di abitare la nostra cultura, il nostro modo di pensare il mondo ed il suo futuro. "Datemi un mezzo di comunicazione e vi solleverò il mondo", affermava enfaticamente McLuhan.

Un esempio recente ed estremamente significativo di utopia della comunicazione è quello riconducibile al pensiero del filosofo francese Pierre Lévy, teorico del cyberspazio come sistema di "intelligenza collettiva" in grado di valorizzare al meglio le qualità degli esseri umani attraverso il supporto delle reti telematiche. Anche se, più in generale, non è difficile registrare un atteggiamento positivo nei confronti dei nuovi media in molti ambienti intellettuali (esattamente al contrario di quanto è avvenuto con la televisione), il pensiero di Lévy fornisce (nel bene e nel male) la migliore esemplificazione di questo atteggiamento, la sua massima espressione. E, soprattutto, la sua deriva più fortemente utopistica.

Secondo Lévy, la storia dell'uomo si può dividere in quattro fasi fondamentali (poste tra di loro in un rapporto di sovrapposizione ma non di superamento): la Terra, il Territorio, lo Spazio delle Merci e lo Spazio del Sapere. La Terra costituisce il primo spazio abitato dall'uomo, a partire dal Paleolitico: uno stato di identificazione "cosmica" con l'ambiente, in cui gli individui vivevano una condizione di nomadismo e di rispetto sacro per gli elementi, espresso dalle religioni preistoriche politeistiche e dalla tradizione del linguaggio orale.

Il Territorio si insedia invece laddove l'uomo inizia a misurare il proprio ambiente di vita, controllando il ciclo produttivo della natura (agricoltura), l'evoluzione delle specie (allevamento) e, in generale, tutto lo spazio che lo circonda (con il passaggio dal nomadismo all'abitazione stanziale e poi con la formazione dello Stato). Strumento fondamentale di questa nuova organizzazione del vissuto è, naturalmente, la scrittura, che permette all'uomo di astrarre la propria riflessione dal contesto materiale delle sue attività.

Lo Spazio delle Merci (che in potenza esisteva già dall'invenzione della moneta) prende corpo con l'avvento del capitalismo: il flusso delle merci e del capitale internazionale ne costituisce l'ossatura, così come il flusso dei media generalisti (radio e televisione) ne costituisce la massima espressione culturale. Se infatti lo spazio della Terra aveva conosciuto la sua rappresentazione nell'oralità, e lo spazio del Territorio nella scrittura (e quindi nel libro), l'oggetto di conoscenza più tipico dello spazio delle Merci è l'ipertesto, che raccoglie i frammenti contraddittori e difficilmente componibili del sapere moderno.

Tra i diversi spazi non sussiste, naturalmente, un rapporto di assoluta discontinuità: al contrario, ognuno di essi si mantiene, in qualche modo, all'interno di quelli successivi: l'oralità sopravvive alla scrittura, l'identità etnica sopravvive a quella nazionale, il nazionalismo sopravvive all'internazionalizzazione dell'economia, e via dicendo. Tuttavia a tutti questi spazi, secondo Lévy, corrispondono delle dimensioni esistenziali incomplete, parziali, in cui l'uomo non trova ancora occasione di realizzare appieno le proprie ambizioni e le proprie potenzialità.

La sistematizzazione storica fornita da Lévy è naturalmente (e necessariamente) molto semplificata: tuttavia la perizia mostrata nella scelta dei criteri di classificazione (peraltro non sempre originali) fornisce una visione d'insieme tutto sommato credibile ed efficace. Ciò che rimane di discutibile, nel pensiero di Lévy, non è tanto l'approssimazione (innegabile) di alcuni suoi passaggi, quanto la fortissima convinzione utopistica lungo la quale questi passaggi storici sono orientati.

Secondo Lévy, infatti, la possibilità di realizzazione tradizionalmente negata all'uomo prenderebbe corpo nel futuro Spazio del Sapere, in cui tutti gli individui potrebbero contribuire alla creazione di un sistema di "intelligenza collettiva", fondato su un regime di "economia delle qualità umane", e quindi di pieno sfruttamento delle volontà di ciascuno (all'interno però di un sistema globalmente consapevole di sé). Lo strumento per realizzare questa connessione intelligente è costituito, secondo Lévy, dalla rete Internet e dal cyberspazio: una convizione, quest'ultima, che denota un atteggiamento decisamente ottimistico (e fin troppo ingenuo) nei confronti dell'evoluzione tecnologica e del progresso.

Il passaggio dai media tradizionali a quelli telematici significa soprattutto, secondo Lévy (anche se questi concetti non sono originali), il passaggio da una tecnologia "molare" ad una "molecolare", e cioè da una tecnologia imprecisa (come quella delle trasmissioni hertziane) ad una capace di controllare direttamente il nucleo vitale del proprio campo di applicazione. Il digitale consente infatti una gestione più agile dell'informazione, e ne favorisce quindi la penetrazione capillare in tutti i settori della società (Lévy applica peraltro un discorso molto simile ad altre tecniche "molecolari", quali l'ingeneria genetica). Se ridotta all'osso, quindi, l'idea di Lévy è (in fondo) piuttosto semplice: se tutti gli individui possono accedere direttamente al sapere attraverso la rete (senza la mediazione degli istituti rappresentativi e delle agenzie di socializzazione), è allora ipotizzabile che prendano coscienza delle proprie potenzialità e che facciano convergere i propri sforzi in uno spazio virtuale formato dalle intelligenze e dalle sensibilità dei molti.

In questo senso Lévy parla, per l'appunto di "intelligenza collettiva":


che cos'è l'intelligenza collettiva? E' un'intelligenza distribuita onunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze. Aggiungiamo alla nostra definizione questa precisazione indispensabile: il fondamento e il fine dell'intelligenza collettiva sono il riconoscimento e l'arricchimento reciproco delle persone, e non il culto di comunità feticizzate o ipostatizzate.

Un'intelligenza distribuita ovunque: questo è il nostro assioma di partenza. Nessuno sa tutto, ognuno sa qualcosa, la totalità del sapere risiede nell'umanità. Non esiste alcuna riserva di conoscenza trascendente e il sapere non è niente di diverso da quello che sa la gente. La luce dello spirito brilla anche lì dove si vuole far credere che non ci sia intelligenza: "insuccesso scolastico", "semplice esecuzione", "sottosviluppo", ecc. Il giudizio globale di ignoranza si ritorce contro colui che se ne fa portatore. Se foste indotti a pensare che qualcuno è ignorante, individuate in quale contesto ciò che egli sa può diventare prezioso.


Con la strutturazione di un sistema di intelligenza collettiva, naturalmente, la comunità sarà in grado di autogovernarsi in modo efficace e consapevole, rendendo inutile l'uso di qualsiasi strumento di imposizione o anche semplicemente di mediazione politica. Si passerà cioè dalla democrazia "rappresentativa" (quella che conosciamo, in cui l'elettorato è appunto rappresentato dal parlamento) alla democrazia "diretta", in cui le deliberazioni nascono come espressione consapevole e non mediata delle volontà di tutti.


Le agorà virtuali della democrazia molecolare aiutano le persone e i gruppi a riconoscersi reciprocamente, a incontrarsi, a negoziare, a stipulare contratti. A questo proposito, lo sviluppo di strumenti di orientamento e riconoscimento all'interno della complessità politica, sociale, istituzionale e giuridica ci sembra indispensabile, a condizione che essi siano, a loro volta, fondati sull'ascolto costante delle richieste e delle pratiche reali dei cittadini. Uno degli scopi della democrazia in tempo reale è istituire un mercato, il più trasparente possibile, delle idee, degli argomenti, dei progetti, delle iniziative, delle competenze e delle risorse, per consentire ale connessioni appropriate di stabilirsi il più rapidamente possibile e con il minimo costo. A differenza del moto browniano e delle mescolanze aleatorie, la città intelligente favorisce al proprio interno l'esatta messa a fuoco delle reazioni e dei processi molecolari. Essa valorizza il più possibile le qualità umane che la fanno vivere.


L'immagine della "città intelligente" proposta da Lévy evoca oggettivamente (e nemmeno così indirettamente) le costruzioni visionarie dell'utopia classica. E infatti è palpabile, nel pensiero del filosofo francese, una fortissima tensione verso una realtà in formazione, una fiducia nei confronti della storia intesa, in senso hegeliano, come veicolo di realizzazione di una ragione superiore e necessaria (quella tensione che in Hegel era funzionale alla nascita del migliore ordinamento istituzionale, lo stato borghese, e che Marx avrebbe applicato alla prospettiva rivoluzionaria della "dittatura del proletariato"). Dopo la tribù, dopo lo Stato, dopo il capitale, verrà la città intelligente, l'ultima incarnazione dell'isola di Utopia, la realizzazione delle qualità più alte dell'uomo.

Il problema è in realtà molto più complesso (naturalmente) di quanto non intenda Lévy, e molto complessi sono i fattori negativi che il pensatore francese non mette in gioco (almeno in parte, si può supporre, consapevolmente: sacrificandoli cioè ad un investimento totale nelle qualità del progresso telematico). In primo luogo, infatti, la nascita di questa "comunità intelligente" è legata ad una penetrazione effettivamente capillare dei nuovi media: la condizione necessaria è cioè che tutti gli uomini siano in possesso degli strumenti necessari a connettersi in rete. Le statistiche, al contrario, testimoniano di una distribuzione poco omogenea delle nuove tecnologie, che sembra seguire (molto più di quanto non abbiano fatto i media generalisti, così disprezzati da Lévy) precise discriminazioni di ordine sociale, economico e geopolitico. La nascita della "città intelligente" sarà negata nelle sue premesse finché fattori economici e culturali peseranno così tanto sulla diffusione della telematica: finché l'accesso alla Rete - com'è oggi e come probabilmente sarà ancora a lungo - rimarrà prerogativa dei paesi ricchi del mondo e, all'interno di questi, delle porzioni più istruite e più ricche della società.

A ben vedere, tuttavia, il pensiero di Lévy è criticabile anche da un altro punto di vista (e cioè anche qualora, com'è molto difficile, se ne considerino valide le premesse). Lévy sembra infatti dare per scontato che gli utenti della Rete siano necessariamente (per questo semplice motivo, e cioè semplicemente per il disporre potenzialmente di un ricchissimo patrimonio di conoscenza) dei soggetti politicamente consapevoli, disposti ad interrogarsi sulle questioni che le amministrazioni ed i governi tradizionali non avevano saputo risolvere. Che la gestione di tali affari possa essere affidata ad un parlamento "virtuale" - in aggiunta senza l'imposizione di alcune garanzie, come il rispetto delle minoranze, che il voto telematico potrebbe violare - è, naturalmente, un'utopia (perfino nel senso più ingenuo e più deteriore del termine).

Il pensiero di Lévy, in conclusione, è molto soddisfacente nella sua parte critica (quindi anche nel mostrare lo scadimento degli istituti rappresentativi, come i partiti, provocato dai nuovi media): nella sua parte affermativa mostra invece dei limiti piuttosto evidenti. Tuttavia più che constatare i difetti della riflessione di Lévy, è importante valutare la vena ideologica di cui essa è informata. Non esisterà mai, com'è ovvio, una "città intelligente" - così come, peraltro, non sono esistiti un "villaggio globale" realmente globale ed un sistema cibernetico capace di garantire "l'uso umano degli esseri umani" - ma esiste ed esisterà un modo di pensare i media ancora vincolato ad una prospettiva utopistica.

Dopo avere avversato e temuto i poteri (presunti o reali) della televisione, l'immaginario occidentale ha infatti sviluppato un'idea fortemente ottimistica dei nuovi media. Sottovalutando sia il radicamento sociale dei media generalisti, sia i conflitti e le contraddizioni che animano attualmente la Rete telematica (in questo senso, il pensiero di Lévy è un'espressione estrema di questa tendenza di opinione, e forse proprio per questo una sua manifestazione molto indicativa). La nuova frontiera digitale è stata fatta oggetto di investimenti ideologici ed intellettuali sempre più sentiti e sempre più ottimistici. Stiamo uscendo dal torpore della televisione per lanciarci nella profondità del cyberspazio, affermano con convizione crescente i leader d'opinione occidentali (studiosi, opinionisti, intellettuali, e così via). Che così realmente sarà, è a dir poco dubbio. E in fondo poco importa, nel momento in cui l'utopia della comunicazione è tornata puntualmente ad agire, ad accompagnare i tempi del progresso, a smussarne (illusoriamente) le contraddizioni, ad occupare prepotentemente il nostro pensiero ed i nostri bisogni.

4.3 Le utopie negative

I mezzi di comunicazione hanno gradualmente invaso il nostro immaginario, hanno legato il proprio destino a quello dell'Occidente e della società industriale avanzata. Ne hanno assorbito i desideri e le angosce, le sensazioni di riscatto e le paure. Né il pensiero positivo né quello negativo hanno potuto farne a meno, hanno saputo rinunciare alla centralità che i media hanno assunto nell'evoluzione civile e politica contemporanea. Alla sensibilità dei produttori di immaginario, il destino dell'umanità è apparso sempre più legato al destino della comunicazione, al suo funzionamento e al suo potere.

Lo sfruttamento massivo dei media (e soprattutto della radio) come mezzi di propaganda, nell'epoca dei totalitarismi e della seconda guerra mondiale, aveva lasciato in eredità una forte preoccupazione nei confronti del potere della comunicazione. Sul piano scientifico, questa eredità è stata accolta da diversi gruppi di ricercatori (soprattutto di area nordamericana) che tra gli anni quaranta e cinquanta hanno iniziato ad interrogarsi più sistematicamente sull'influenza dei media. Ma è nell'immaginario collettivo che questa eredità si è manifestata in modo più clamoroso, prendendo corpo in una significativa serie di utopie negative sempre più legate ai poteri della comunicazione.

La più nota utopia negativa (o distopia) della comunicazione è stata offerta dallo scrittore inglese George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair, 1903-1950) nel celebre romanzo 1984. Ufficiale di polizia nelle Indie, poi giornalista e saggista, Orwell ha vissuto un problematico avvicinamento alla sinistra marxista, concluso con lo sconforto della guerra mondiale e del totalitarismo, espresso nel suo libro più riuscito, La fattoria degli animali (1945). Tuttavia è stato il suo ultimo romanzo, appunto 1984 (ottenuto semplicemente invertendo le ultime due cifre dell'anno in cui Orwell vi stava lavorando, il 1948), ad invadere prepotentemente l'immaginario occidentale.

Nel 1984, il mondo è diviso in tre superpotenze: Eurasia, Estasia ed Oceania. A quest'ultima area geopolitica, dominata dal potere supremo del Grande Fratello, appartiene anche Londra, dove vive il protagonista Winston Smith. Impiegato al Ministero della Verità, con il compito di riscrivere letteralmente la storia (modificando i giornali e i documenti depositati in archivio per renderli funzionali alla propaganda governativa), Winston vive in un sistema completamente immerso nei simboli del potere e dell'ideologia dominante. Perfino la lingua inglese (definita dal regime "Archelingua") è sostituita nei documenti ufficiali e nella stampa (e, in prospettiva, per tutti gli usi quotidiani) dalla cosiddetta "Neolingua", cioè dal gergo imposto dal Socing (il Socialismo Inglese) per legittimare il proprio potere. Per il regime, quindi, imporre il proprio linguaggio significa imporre un preciso modo di pensare: massima dimostrazione dell'attenzione che Orwell dedicava ai poteri della comunicazione sociale.

Tuttavia Winston, convinto anche dall'amore per una donna, riscopre gradualmente una diversa dimensione esistenziale, e vive una trasformazione che lo porta infine a contestare il regime del Grande Fratello. Eppure anche la cospirazione contro il regime si rivela come una sottile macchinazione della Psicopolizia: Winston viene arrestato e subisce una drammatica manipolazione, fino a cedere totalmente alla propaganda del Socing. Nelle ultime battute del romanzo, il protagonista rinnega così tutte le sue convinzioni:


due lacrime puzzolenti di gin gli sgocciolavano ai lati del naso. Ma ogni cosa era a posto, ora, e tutto era definitivamente sistemato, la lotta era finita. Egli era riuscito vincitore su se stesso. Amava il Gran Fratello.


Nell'Oceania immaginata da Orwell si ripropongono tutte le caratteristiche dei regimi totalitari, compresa l'insistenza su slogan contraddittori e privi di senso ("La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L'ignoranza è forza"). Il controllo sociale è garantito da una penetrazione capillare di schermi e di telecamere, attraverso i quali la Psicopolizia riesce a seguire la vita degli individui in ogni momento. Così infatti Orwell descrive l'appartamento di Winston Smith:


il teleschermo riceveva e trasmetteva simultaneamente. Qualsiasi suono che Winston avesse prodotto, al di sopra d'un sommesso bisbiglio, sarebbe stato colto; per tutto il tempo, inoltre, in cui egli fosse rimasto nel campo visivo comandato dalla placca di metallo, avrebbe potuto essere, oltre che udito, anche veduto. Naturalmente non vi era nessun modo per sapere esattamente in quale determinato momento vi si stava guardando. Quanto spesso e con quali principi la Psicopolizia veniva a interferire sui cavi che vi riguardavano, era pura materia per congetture, e sarebbe stato anche possibile che guardasse tutti, e continuatamente. Ad ogni modo avrebbe potuto cogliervi sul vostro cavo in qualsiasi momento avesse voluto. Si doveva vivere (o meglio si viveva, per un'abitudine che era diventata, infine, istinto) tenendo presente che qualsiasi suono prodotto sarebbe stato udito e che, a meno di essere al buio, ogni movimento sarebbe stato visto.


Un teleschermo in ogni casa, per garantire il controllo sistematico sui comportamenti privati dei cittadini: non è sorprendente che questa visione abbia animato, per diversi decenni, le convinzioni di quanto hanno attribuito alla televisione un potere di manipolazione e di forte influenza sugli atteggiamenti dei telespettatori. Non c'è dubbio, infatti, che l'invenzione di Orwell (e questo è il suo grande merito) abbia invaso la nostra immaginazione, dando forma all'inquietudine del progresso e dell'evoluzione tecnologica. Popolando, seppure con modalità diverse e non sempre giustificate, le paure e le angosce dell'opinione pubblica occidentale. E infatti, svanita (anche se solo parzialmente) la sensazione di stupore e di paura suscitata dalla televisione nel momento della sua penetrazione sociale, questa inquietudine è tornata ad agire nei confronti delle tecnologie digitali, che più di altre consentono (almeno potenzialmente) un effettivo controllo sui comportamenti privati dei cittadini. Le connessioni telematiche, i microchip e le carte di credito sono infatti strumenti che (oltre ad offrire ovviamente innumerevoli vantaggi al consumatore) permettono di identificare gli spostamenti, i consumi e gli acquisti degli individui. Non si sa di essere controllati in un dato momento (né eventualmente da chi), ma si sa, in linea di massima, di poter essere controllati in qualsiasi momento: esattamente ciò che scriveva Orwell della Psicopolizia. La sua ossessione ha così ripreso forma (e infatti molti critici dei nuovi media hanno usato il suo romanzo come metafora di quello che potrebbe accadere), tornando ad occupare la zona buia dell'immaginario collettivo, i sospetti e le paure della nostra opinione. Il Grande Fratello - la sua ombra - è sempre stato tra noi.

Nel corso del Novecento, in ogni caso, la letteratura anti-utopistica (come è stata definita) ha conosciuto una notevole diffusione. La rottura definitiva del mito della linearità del progresso - già avvertita con il passaggio di secolo ma poi mostrata dalle guerre mondiali e infine resa efficacemente dalla spaventosa icona di Hiroshima - ha prodotto un atteggiamento critico e diffidente verso il futuro dell'Occidente. Per quanto è di nostro interesse si possono citare, tra gli altri, romanzi come Noi di Eugénij Zamjàtin (1920), Il nuovo mondo di Aldous Huxley (1932), Kallocain di Karin Boye (1940), Waldo di Robert Heinlein (1940), One di David Karp (1953) e Il sole nudo di Isaac Asimov (1957), tutti ascrivibili (nelle loro differenze) appunto al filone catastrofico e anti-utopistico. Tuttavia la più celebre utopia negativa del novecento (dopo quella di Orwell) è certamente rappresentata dal romanzo Fahrenheit 451 dello scrittore americano Ray Bradbury (nato nel 1920).

Autore molto amato dagli appassionati di fantascienza ma raramente riconosciuto dalla letteratura "ufficiale", narratore ma anche sceneggiatore, Bradbury (peraltro sicuramente più a suo agio con il racconto) deve la sua fortuna proprio a questo romanzo dal titolo inquietante e fortemente evocativo, che in realtà indica semplicemente la temperatura a cui brucia la carta (appunto 451° Fahrenheit, corrispondenti a circa 232° centigradi). Pubblicato con il titolo The Fireman sulla rivista "Galaxy Science Fiction" del febbraio 1951, il romanzo ha assunto nel 1953 il titolo definitivo, che sarà anche quello della celebre versione cinematografica di Truffaut.

Il protagonista del romanzo è un pompiere, Montag. Nel suo mondo, tuttavia, i pompieri non spengono gli incendi (visto che tutte le costruzioni sono antincendio) ma li appiccano: il loro compito è infatti quello di distruggere i libri, la cui lettura è severamente proibita dalla legge (come afferma Montag: "è un bel lavoro, sapete. Il lunedì bruciare i luminari della poesia, il mercoledì Melville, il venerdì Whitman, ridurli in cenere e poi bruciare la cenere. E' il nostro motto ufficiale").

Distruggere i libri:


"Pronto". Montag tolse la sicura al lanciafiamme.

Un gran getto appuntito di fuoco zampillò a lambire i libri, ad abbatterli contro il muro. Montag entrò in camera da letto e lanciò la fiamma due volte: i due letti gemelli avvamparono alti con un fruscio crepitante, con più calore, passione e luce di quanta egli avesse mai supposto che potessero contenere.

E come un tempo, egli sentì di nuovo la bellezza di bruciare, gli parve di dissolversi con tutto il suo essere nello zampillo di fuoco, strappando, fendendo, tagliando in due con la fiamma, risolvendo in tal modo il problema senza senso. Dove non c'era soluzione, allora voleva dire che non c'era nemmeno il problema! Il fuoco era il rimedio migliore ad ogni cosa!

"I libri, Montag!"

I libri balzavano in aria e danzavano come uccelli nell'arrostimento, le ali ardenti di piume gialle e rosse.


Essendo proibita la lettura, la vita culturale è ovviamente monopolizzata dalla televisione e dalla pubblicità, così come la mobilità fisica è ridotta al minimo e la circolazione è dominata dalle automobili (tanto che i pedoni, quasi come i lettori, sono considerati dei sovversivi). Il romanzo di Bradbury ruota infatti attorno all'opposizione tra la purezza del comportamento tradizionale - con i suoi miti: la lettura, il contatto con la natura, la spontaneità, le libere emozioni, e così via - e la fredda artificialità del nuovo regime di vita (oppresso dalla televisione, dagli slogan pubblicitari, dalle automobili e da un rigidissimo inquadramento professionale). Per recuperare la libertà di pensiero e ritrovare con essa la bellezza dell'esistenza, quindi, è necessario sottrarsi al dominio della televisione e della comunicazione gestita dai poteri centrali. Come afferma la giovane Clarisse a Montag:


raramente guardo alla TV il programma "Tra le pareti del salotto" o vado alle corse o ai parchi di divertimento. Così, mi resta un mucchio di tempo per i pensieri più strampalati, direi. Avete mai visto quei cartelloni pubblicitari alti come grattacieli ai margini delle autostrade appena fuori città? Lo sapevate che una volta i cartelloni pubblicitari erano alti al massimo sei o sette metri? Ma poi le auto sono diventate così veloci che si è reso necessario dilatare la superficie riservata alla pubblicità, perché gli automobilisti avessero il tempo di leggerla, passando.


Anche in questo caso, come in Orwell, la massima manifestazione del potere di controllo e di manipolazione è data da una presenza ossessiva di schermi (che tutto l'immaginario fantascientifico avrebbe ripreso: si pensi, ad esempio, a Blade Runner di Ridley Scott). Perfino la cattura dei sovversivi, nel romanzo di Bradbury, è ripresa dalle telecamere della polizia e mostrata integralmente su tutti gli schermi:


la telecamera, posta nel ventre di un elicottero, ora parve scendere a vite su una strada deserta.

"Vedi?" mormorò Granger. "Sarai tu, quello; proprio in fondo a quella strada, c'è la vittima designata. Vedi come la telecamera sta carrellando? si crea la scena; si determina una tensione crescente. Carrellata che si conclude con un primo piano. In questo momento, qualche povero diavolo è uscito per fare due passi. Una rarità. Un eccentrico. Non credere che la polizia non conosca le abitudini di tutti gli eccentrici della città, della gente, ad esempio, che ama fare lunghe passeggiate all'alba, per il gusto di camminare o perché soffre d'insonnia".


E' l'incontro con una donna (come era stato per Winston Smith in 1984) che permette a Montag di assumere un atteggiamento diverso nei confronti della realtà. Di apprezzare i nemici che aveva sempre combattuto per abitudine, ma non per convinzione effettiva. Di unirsi infine ai ribelli che imparano a memoria i libri per salvarli dalla distruzione, per "ricordare" e tramandare la cultura salvandola dall'estinzione. Con la conversione di Montag e con l'apparizione della Fenice dall'ultimo rogo, Bradbury propone un finale certamente più ottimistico rispetto a quello di Orwell (anzi, di segno decisamente opposto), senza peraltro liberare del tutto la propria immaginazione da un fortissimo senso di angoscia e di oppressione che un termine scientifico in sé piuttosto freddo e banale - Fahrenheit 451 - avrebbe incarnato e testimoniato per sempre alla cultura occidentale.

In realtà, per molti versi, la letteratura anti-utopistica ha costituito più un'amara riflessione sulla storia recente che non un effettivo esercizio di prefigurazione dei futuri assetti culturali e istituzionali. Sulle angosce di Orwell, ad esempio, aveva evidentemente pesato la propaganda a cui i poteri militari avevano piegato i mezzi di comunicazione nel periodo della seconda guerra mondiale: e allo stesso modo i roghi descritti da Bradbury evocano oggettivamente la distruzione dei libri ordinata dal nazismo. Le sensazioni tragiche del passato hanno agito su queste distopie forse perfino più di quanto non facessero, inizialmente, le paure e le incertezze del futuro. Tuttavia, nell'immaginario collettivo, queste narrazioni hanno rappresentato e rappresentano la più spaventosa descrizione della pericolosità dei media, a cui sia l'opinione pubblica sia gli stessi pensatori apocalittici non hanno smesso di rifarsi.

4.4 Nuove (cyber)frontiere

Ogni territorio ha le sue mitologie, i suoi conflitti, i suoi ribelli e i suoi eroi. La Rete non poteva farne a meno. Possiamo anzi immaginarla così, la Rete: come un nuovo campo di conflittualità, come terreno di esercizio di nuove e più radicali rivendicazioni sociali, civili e politiche. Infatti se Internet ha aperto ai suoi utenti straordinarie possibilità di conoscenza e quindi di consapevolezza politica, allo stesso tempo ha catalizzato gli investimenti dei gruppi di potere (sia pubblici che privati), in grado (almeno potenzialmente) di usare i nuovi strumenti telematici come mezzi di controllo sociale.

Il destino della Rete (per utilizzare una semplice metafora spaziale) è così sospeso tra due modalità comunicative: quella verticale, imposta dalle grandi multinazionali per riproporre nel cyberspazio le discriminazioni culturali e politiche in atto nella società, e quella orizzontale, stimolata da un mezzo che favorisce l'interattività e (in qualche modo) la libertà di espressione. Troppo forte è infatti l'illusione democratica suscitata dalla Rete per non dare corso ad un'azione sistematica di guerriglia, che alcuni gruppi culturali "movimentisti" hanno messo in atto contro i vecchi e nuovi poteri istituzionali. Progettisti artigianali, amatori, hackers e pirati informatici costituiscono il fronte di questa "guerriglia", che - seppure con metodi estremi, come il sabotaggio e la diffusione di false notizie - cerca di sottrarre il cyberspazio al dominio dei poteri forti. L'ultima, disperata utopia, cresciuta all'ombra dell'evoluzione delle tecnologie comunicative.

Per capire il senso di questo conflitto, è bene intendersi sulla portata di Internet non solo come strumento di comunicazione, ma come terreno di ridefinizione degli equilibri istituzionali e politici. Se questi equilibri di potere dipendono (com'è ovvio) dalla diffusione del sapere, è evidente che un mezzo come Internet contiene in sé un fortissimo potenziale eversivo, in quanto permette (almeno idealmente) ad ogni utente di confrontarsi direttamente a tutte le risorse di conoscenza. Tuttavia, allo stesso tempo, Internet contiene in sé un forte potenziale autoritario, nel senso che (sempre potenzialmente) rende costantemente misurabili gli spostamenti telematici dei suoi utenti. Tra queste due dimensioni e tra queste due potenzialità - entrambe innegabilmente interne al mezzo - si giocherà il destino della comunicazione. E le enormi risorse (economiche, tecnologiche, legislative e lobbystiche) di cui dispongono i poteri istituzionali delle aziende e dei governi centrali, a ben vedere, non fa che accrescere le ragioni di questa nuova utopia, la sua necessità e la sua seduzione.

Quindi: grandi aziende capaci di monitorare quanto avviene sulla Rete, per raccogliere (e rivendere) i dati relativi al comportamento privato degli individui, da un lato; e, dall'altro, una sottile opera di contestazione disseminata attraverso virus, false notizie e provocazioni. L'aspetto costruttivo di questa intensa opera distruttiva - cioè la possibilità di democratizzare realmente la Rete attraverso questo tipo di strategia - è naturalmente discutibile. E' tuttavia interessante notare come le potenzialità democratiche del nuovo mezzo si siano incarnate non in un quadro di funzionamento realmente istituzionalizzato, ma invece proprio in alcune manifestazioni estreme e sovversive.

Il più organico programma di guerriglia mediatica finora conosciuto è senza dubbio quello che fa capo al Progetto Luther Blissett, che a partire dalla metà degli anni novanta ha imposto il proprio nome all'attenzione dei media (nonché delle autorità giudiziarie) con una lunghissima serie di opere di boicottaggio. Naturalmente, Luther Blissett non esiste: ma proprio per questo può moltiplicarsi ed essere ovunque. Nome collettivo (multiple name) di uno schieramento di forze difficilmente quantificabile (e quindi, proprio per questo, tendenzialmente inesauribile), è la firma di un'attività di guerriglia con lo scopo prefissato di "fottere i media".

Alla base di questa attività vi è una concezione a ben vedere piuttosto avanzata del ruolo dei media nella società contemporanea. Infatti l'aspetto goliardico (e apparentemente innocuo) di molte "beffe" telematiche è in realtà il prodotto di una strategia conflittuale ben definita, che considera i mezzi di comunicazione come strumenti privilegiati del dominio sociale. In questo senso, il mercato delle comunicazioni non costituisce una semplice appendice della società, una sua componente: al contrario, scrive Luther Blissett,


questo è uno dei più importanti terreni di scontro su scala planetaria, anche di scontro interno alle classi politiche [...]. A volo d'uccello possiamo vedere:

- i frequenti tentativi di normare/censurare Internet (supremo capro espiatorio di fine millennio) e proibire o comunque limitare crittografia e anonimato;

- la demonizzazione di alcuni prodotti culturali (videogames violenti, giochi di ruolo che "istigano al suicidio"...);

- rigurgiti sessuofobici e omofobici [...].


Secondo Luther Blissett, il controllo politico sui cittadini ha assunto negli ultimi anni caratteristiche molto diverse rispetto al passato: viene cioè esercitato sempre più in campo culturale e mediatico (idea non originale, peraltro, e fortemente foucaultiana). Si tratta, scrive Blissett, di un controllo politico "molecolarizzato", frammentato in tanti aspetti e tante dimensioni diverse, che non si limita più alla sfera politica ma invade invece la sfera dei comportamenti privati.

Lo strumento essenziale di questa strategia di controllo è la costruzione dell'emergenza, intesa come "continua ri-definizione strumentale del "nemico pubblico" da parte dei poteri costituiti", che consente "non solo la violazione ma la vera e propria sospensione" dei diritti fondamentali. E' proprio attraverso questa tecnica di "panico mediatico" (cioè di voluta esaperazione del rischio sociale effettivamente corso dagli individui) che le istituzioni (pubbliche e private, nella loro collusione) legittimano il proprio potere. E cioè, ad esempio: se facciamo credere che Internet è soltanto un veicolo di infezione, che porta con sé i peggiori mali contemporanei (pedofilia, ignoranza, istigazione alla violenza, e così via), sarà più facile legittimare, agli occhi dell'opinione pubblica, un'azione di censura e di controllo sistematico di quello che circola attraverso la Rete.


Oggi le nostre sono società di controllo, in cui la "prevenzione" è più importante della repressione. Nell'era del lavoro immateriale e del capitale finanziario giunto al massimo di astrazione, tutto è governato da flussi di dati (cioè dai rimbalzi di qualche elettrone). Gli equilibri sociali, economici e politici sono instabili, nitroglicerinici.

[...] Di emergenza in emergenza, la nostra privacy è stata aggredita, al disciplinamento si è sostituito il monitoraggio, la sorveglianza diffusa. Le informazioni sulle nostre personalità diventano preziosa merce di scambio, il computer matching (l'incrocio delle banche dati a fini commerciali o polizieschi) è una forma più subdola di "intercettazione", a cui tutti siamo sottoposti.


Riguardo all'attuale funzionamento della Rete, Luther Blissett è quindi piuttosto pessimista (con molte ragioni, ma peraltro anche sottovalutando l'importanza di alcuni fattori positivi). Tuttavia se accettiamo - ed è difficile non farlo - l'assunto fondamentale, e cioè che Internet sia oggetto dell'avanzata prepotente di vecchi e nuovi poteri, è difficile non condividere almeno alcune delle ragioni che animano la spinta contestatrice del Progetto Luther Blissett.

L'unica, possibile risposta a questa strategia di dominio consiste nella destabilizzazione degli ordini costituiti: che però non può essere data da una singola azione provocatoria, ma da una rete di azioni in grado di invadere e di infettare un intero "infosistema". E' questo, il progetto di Luther Blissett: creare un sistema di scambio informativo in cui far circolare tutte le "pseudonotizie" costruite dal movimento, fino a non poterle più distinguere da quelle "vere" - cioè, in questa prospettiva, da quelle imposte dai poteri istituzionali. Da questa condizione di instabilità non nascerebbe, naturalmente, un nuovo ordine, ma uno stato problematico di disordine, un vuoto di potere. Ma è proprio nei vuoti di potere, scrive Blissett, che tutto diventa possibile.

Per realizzare appieno il progetto controculturale di Blissett non è però sufficiente questa strategia di sabotaggio: è anzi necessaria una più generale ridefinizione delle identità sociali, che rinneghi nel profondo i fondamenti della società del controllo.


E' oggi possibile realizzare l'unità essenziale tra sogno e azione, ai fini di una liberazione totale; per fare questo occorre sbarazzarsi una volta per tutte del concetto di In-dividuo (nozione profondamente reazionaria, antropocentrica e strettamente connessa al concetto di copyright) in nome del Condividuo, vale a dire di una singolarità multipla il cui profilo comporta nuove idee di "responsabilità" e di "volontà" e non ha nulla da offrire a giuristi e magistrati. Ogni singolo corpo-mente (ogni -dividuo) è attraversato da vorticosi flussi di comunicazione che, travalicando i confini del corpo individuale, creano un'elastica comunanza tra le singolarità, la con-dividualità. Il No Copyright, il plagiarismo, i multiple name, tutte le pratiche di networking controculturale...Si tratta di tappe importanti nel cammino della specie umana verso la con-dividualità.


Con tutti i suoi limiti e le sue incongruenze (che dovrebbero risultare evidenti), il progetto Luther Blissett costituisce probabilmente la forma più estrema e più radicale di utopia politica connessa al sistema delle comunicazioni di massa (anche perché questo progetto, a differenza delle forme precedenti di "utopia della comunicazione", individua piuttosto precisamente gli avversari da combattere). Un'utopia peraltro destinata a dissolversi, a cedere il passo (come era stato previsto già dallo statuto del movimento): non altrimenti si spiega la decisione dei quattro autori del sorprendente romanzo Q (ambientato nell'epoca della Riforma e firmato appunto Luther Blissett) di rivelare pubblicamente la propria identità, rinunciando quindi allo strumento prediletto dell'anonimato.

Anche se nuove forze ne proseguiranno verosimilmente l'attività, il progetto Luther Blissett si è così avviato verso il declino, lasciando irrisolte le proprie speranze così come le proprie contraddizioni. Tuttavia non c'è dubbio che - in qualsiasi forma e attraverso qualsiasi identità - l'utopia della comunicazione tornerà ad agire, ad occupare i nuovi spazi di conflittualità della Rete e del cyberspazio. Vale la pena di leggerli, gli ultimi, orgogliosi pensieri del protagonista di Q:

sono stato tra questi. Dalla parte di chi ha sfidato l'ordine del mondo.

Sconfitta dopo sconfitta abbiamo saggiato la forza del piano. Abbiamo perso tutto ogni volta, per ostacolarne il cammino. A mani nude, senza altra scelta.

Passo in rassegna i volti a uno a uno, la piazza universale delle donne e degli uomini che porto com me verso un altro mondo.

Un singulto squassa il petto, sputo fuori il groviglio.

Fratelli miei, non ci hanno vinti. Siamo ancora liberi di solcare il mare.

Bravenet.com
Cattedra di Sociologia delle Comunicazioni di Massa, Roma, "La Sapienza"