profili

 

 

 

Caterina Soligon Dall'Acqua

 

Ha dato tre figli alla Chiesa

 

 

In tempi di fame, portava cibo e vestiario a chi viveva in grande povertà e lo faceva di nascosto. Ha continuato a farlo per tutta la vita.

Nei conventi dei figli Gioe, Bruno, Renato, passava lunghi periodi a lavorare. Varie volte, incurante dei fusi orari,  aveva raggiunto l’Isola Rossa al largo della costa orientale dell’Africa. Si occupava delle cucine e delle dispense. Metteva ordine nei guardaroba, riordinando biancheria e vestiario. Quando rientrava, raccoglieva ogni genere di cose, dagli alimenti alle medicine, ai computer usati e via via secondo le necessità. La sua casa diventava un grande deposito fin che riusciva e riempire fino all’ultimo centimetro libero un container con ogni genere di attrezzature: dai trattori ai motorini, alle biciclette, perché laggiù c’era bisogno di tutto.

Celebri sono rimaste le sue marmellate per i ragazzi che frequentavano le scuole dei Padri Carmelitani. Ne preparava quintali. Diceva che per tanti, la colazione a pane e marmellata era l’unico pasto della giornata. Amava far pubblicità di questo operato che la tenne occupata fino alla soglia dei novant’anni.

Durante il giorno, la sua porta era sempre aperta e tutti potevano entrare. Offriva una bella ospitalità a conoscenti dei figli sacerdoti che erano di passaggio e una sana conversazione a persone anziane e sole che godevano di sentirla parlare della vita dei malgasci, dei loro bisogni, della generosità di molte persone che facevano offerte a Padre Bruno per portare a termine le sue opere.

Sempre con il rosario in mano, insisteva sull’importanza della preghiera e la frequenza della messa. Una vita ricca di nipoti, attraversata da gioie, ma anche da dolori, lutti, perdite e delusioni, che non hanno mai spento il suo sorriso.

(Renza

 

 

 

        

Luciano Gardenal 

 

Grazie, Gesù, per avermi amato molto

 

Grazie, grazie Gesù per avermi amato molto in questa vita terrena: in questa frase è riassunta la mia vita.                                                 

A quanti, per un lungo o breve tempo della mia vita, mi sono stati vicino dico: "Grazie per aver percorso con me un tratto di cammino della mia esistenza, vi ricordo uno per uno e un giorno vi attendo nella gioia eterna".

Riflessione sul brano dell'evangelista Luca ambientato nella casa di Marta e Maria

Date le mie condizioni fisiche, posso affermare (senza presunzione) di aver vissuto questa parte di vangelo. Con la differenza che nel passaggio in cui Gesù dice «Maria si è scelta la parte migliore», io invece posso affermare che "è stato Dio a scegliere la parte migliore per me". Con questo, non voglio dire che è stato bello vivere su di una carrozzina, che è stato bello soffrire, che è stato bello rinunciare a ciò che la vita ti offre, anzi... umanamente è stato un cammino difficile. Però il proprio vivere lo si può paragonare ad una medaglia. Una medaglia ha due facce: il dritto e il rovescio, a noi è stata data la possibilità di vedere e scegliere dov'è realmente il dritto e il rovescio della propria vita. Ecco perché posso affermare che Dio ha scelto la parte migliore per me.

 

       

Anna Maria Gardenal 

 

Percepiva l'invisibile

 

 

 

Anna Maria è stata chiamata al Padre il 31 dicembre 2013. Era una guida sicura e combattiva, irremovibile nella scelta di far parte della schiera dei seguaci di Gesù. La sua condizione di disabile, avendo trascorso quasi tutta la sua vita su una sedia a rotelle, non l'ha vincolata nel rapporto con le persone, anzi si è fatta voler bene da tutti.

Anna Maria percepiva l'invisibile, e nel supplizio delle sofferenze non tradiva il Padre. Ci ha lasciato la sua grande testimonianza nella risposta coraggiosa diventando un'esperta della Croce. Ripeteva: "Guardate a Maria, pregate lo Spirito Santo e parlate al Padre".

Ha formato un gruppo di preghiera: "Gli amici di Lourdes", che tuttora continua a vivere e viene animato nelle varie famiglie, con la presenza solitamente dalle quaranta alle cinquanta persone. La sua voce non era esile e tanto meno tremolante ma schietta e forte nell'incoraggiare a non mollare mai e ripeteva di affidarsi a Colui che provvede. Ci ha insegnato a pregare per le scelte della vita dei giovani, per la santità dei sacerdoti e per l'unità delle famiglie. I suoi occhi azzurri emanavano una luce rassicurante, luminosa, che ora grazie alla donazione delle cornee, continuano a vivere e a vedere il mondo attraverso altre persone.

(V.M.)

 

 

 

 

        

Don Ezio Dal Piva

 

In viaggio con i suoi malati

 

 

Novembre 2009

 

Ci ha lasciato un amico di questa comunità, don Ezio Dal Piva, cappellano dell’Ospedale di Oderzo. Era arrivato alla vigilia di Natale del 1957.

In Ospedale, è stato per oltre mezzo secolo una figura familiare e discreta, aperta al sostegno morale e pronta al colloquio individuale, con l’equilibrio derivante da una personalità limpida e da una fede granitica, come le sue montagne.

Raggiunta l’età pensionabile, ha continuato il servizio per i malati, allargando l’assistenza religiosa alla locale  Residenza per Anziani. Nei primi anni di sacerdozio,  aveva esercitato  il ministero a Serravalle e a Codognè.

Fin che gli impegni glielo consentirono, per alcuni anni, diresse la corale del Duomo dedicato a San Giovanni Battista, coltivando l’antica passione per la musica sacra.

In zona ed in tutta la diocesi di Vittorio Veneto, don Ezio – nominato canonico della cattedrale nel 2006 - era ancora un punto di riferimento importante per tutti i problemi legati al mondo dell’assistenza, della sofferenza e del volontariato.

Nell’annunciare la sua scomparsa, il Vescovo mons. Corrado Pizziolo, che martedì 10 novembre ha presieduto la cerimonia funebre in un Duomo gremito, ricorda con riconoscenza il generoso e sorridente servizio spirituale ai malati per oltre mezzo secolo.

Fino all’ultimo giorno, era facile trovarlo in bicicletta, d’estate in maniche di camicia, d’inverno con l’inseparabile basco nero, a fare commissioni per rendere sempre decorosa la sua chiesetta.

Nella comunità di Colfrancui era di casa sia per le confessioni in chiesa che per il rapporto speciale instaurato con alcune persone.

Nel testamento spirituale, rivolge un occhio di predilezione ai ‘suoi’ ammalati, agli anziani, ai disabili, a tutte quelle persone che ha incontrato; ringrazia espressamente Anna Maria, Luciano, Evelina, insieme con i quali – si esprime così - aveva “intrapreso un viaggio”. Ed aggiunge: “Il Cristo risorto ci attende”.

Con don Ezio se n’è andato un apostolo della carità. Per suo desiderio, riposa nel cimitero di Oderzo, città dove ha vissuto la maggior parte della vita.  

 

 

 

 

     

Suor Gina Polesel

 

Un’apostola africana nata in Veneto

 

 

Il 15 marzo 2000, a Bubaque nella Guinea Bissau, la comunità cattolica e gli animisti indigeni hanno ricordato, nel contesto di una settimana di ringraziamento, vocazionale e missionaria,  suor Angela Polesel, stroncata dalla malaria giusto venticinque anni fa. La sua memoria è sempre viva, tra i Bijagos, assicura padre Marco della ‘Paroquia da Imaculada Conceiçao’, e questo è un segno di come il Signore fa sempre fruttificare i semi di bene che lascia attraverso i suoi servi ‘buoni e fedeli’.

Terminata la quarta elementare, sebbene Gina prometta bene nello studio, i genitori, provenienti da Faè, si vedono costretti a mandarla, come bambinaia, presso una famiglia amica. Sono tempi duri per tutti. Siamo, infatti, nell’immediato dopoguerra.

Gina trascorre la fanciullezza e l’adolescenza nella serenità e nella gioia, sorridente e spensierata.

A quattordici anni, una zia suora la porta con sé a Porcari (provincia di Lucca), nel collegio dei padri Cavanis.

Nel 1951, a soli 16 anni, entra nel noviziato tra le religiose del ‘Santo Nome’, le suore Cavanis.

Le tappe si susseguono con ritmo serrato: 1953:  primi voti; 1958: professione perpetua. L’aridità del veloce elenco nasconde una somma di sacrifici ed uno sforzo quotidiano in salita.

Nel 1972, si offre per la missione in Guinea ex portoghese. A Bubaque, tra i Bijagos,esprimerà il meglio di sé.

Immersa in una natura doviziosa, quasi intatta, suor Angela riesce a rendere la vita ancora più semplice, essenziale. Avvezza alla severa scuola dei campi, non si risparmia nelle fatiche richieste dalla missione. A volte scarseggia il cibo, e allora si improvvisa cacciatrice di scimmie e di altri animali di piccola e media taglia, che ha imparato a cucinare e a mangiare.

A metà febbraio del 1975, un attacco di malaria la costringe a restarsene a casa, ma dopo due giorni è ancora al lavoro. La sera dell’11 marzo ritorna a casa con la febbre e si mette a letto. I soliti disturbi con conato di vomito. Prende le medicine per la malaria, assistita dalle consorelle. Viene vista anche dall’infermiera del posto, ma non ci sono segni di gravità tanto che lei stessa dice: «Eh, domani mi alzo». Invece, il sabato mattina, all’ora dell’Angelus, la sua bell’anima ritorna alla casa del Padre.

   

 

 

 

        

Silvano Bazzichetto

 

 Solido come la roccia

 

 

 

Arrivando da Roncadelle, nel 1948, Silvano Bazzicchetto si era stabilito con la famiglia nella casa colonica di via Fraine, in mezzo al verde. Una famiglia numerosa, la sua, con dodici figli.

Nel contesto rurale, si muovono tante persone semplici e silenziose. Una di queste è Silvano Bazzicchetto. Presidente dell’Azione Cattolica parrocchiale, collaboratore in ogni iniziativa comunitaria, disinteressato nell’aiutare, consigliere ricercato nelle situazioni più intricate: questo e altro è stato Silvano. Aveva frequentato solo la quinta elementare, ma la sua biblioteca spaziava dalla morale alla sociologia. Godeva e soffriva con la Chiesa.

Con la stessa semplicità con cui lavorava i campi, partecipava alle riunioni in Parrocchia e alle sedute del consiglio comunale: la sua vita è stata tutt’un servizio alla famiglia, molto provata dalle disgrazie, e alla comunità, ecclesiale e civile. L’ha ricordato, il giorno della prima Messa solenne in Parrocchia di don Massimo, lo stesso Sindaco Covre, tratteggiando appena la figura del nonno del novello sacerdote.

Dal terreno fertile, d’impegno sociale e di costante attenzione ai valori, coltivato in quella casa, sono cresciute due vocazioni sacerdotali, a distanza di anni: prima in Pierpaolo, figlio di Enrico, poi in Massimo, di Pio, rimasto a custodire quell’eredità.

La fede ha sempre guidato il cammino del vecchio patriarca. Aveva idee profonde e chiare. Era convinto dei principi cristiani. In chiesa non mancava a nessun momento significativo.

Silvano raccomandava spesso ai sacerdoti di insistere su alcuni capisaldi: la salvaguardia della fede e la lotta  contro le sette religiose; la fedeltà e l’obbedienza alla Chiesa; l’onestà e la rigidità nella difesa dei costumi; l’assiduità alla Messa e ai sacramenti per la conversione delle anime; le opere buone per guadagnare la vita eterna; la recita del Rosario in famiglia.

Per aiutare una famiglia in difficoltà finanziaria, arrivò a firmare un fido che lo espose in prima persona, costringendolo a recarsi, nel 1930, per dieci mesi in Francia, e a lasciare a casa la sposa con quattro figli piccoli.

Tornando dal cimitero il giorno dell’estremo saluto, un anziano Parroco di Roncadelle, don Marco,  oggi novantunenne, commentò: «Non è necessario andar tanto lontano per trovare esempi di santità… Basta guardarsi attorno tra le persone che incontriamo sulla nostra strada di ogni giorno». Silvano era uno di questi monumenti costruiti sulla roccia.

   

 

 

 

       

Padre Gioe Dall’Acqua

 

Un ‘monello’ un po’ speciale

 

 

 

Una quarantina d’anni fa, si recò alle scuole elementari di Colfrancui, un frate della congregazione dei Carmelitani Scalzi, per chiedere agli alunni di quinta se volevano diventare come lui. All’appello, in apparenza tutti convinti, risposero in dieci.

Che il “monello” Beppino Dall’Acqua decidesse di farsi frate non erano in molti a crederlo, meno di tutti il suo parroco, don Girolamo Villanova. Quando il buon frate andò a chiedere a don Girolamo cosa ne pensasse, egli rispose schiettamente: “E’ il più distratto ”. E con il termine “distratto” lasciava intendere altre cose. Passarono i mesi, si stava avvicinando settembre e il frate non si faceva ancora vedere. Quando finalmente arrivò, Giuseppe gli confermò la sua intenzione. Fu l’unico di quei dieci, a conferma che “lo Spirito soffia dove vuole”.

Così, all’età di 11 anni, poté frequentare le medie a Adro, vicino Brescia, alle quali seguì il ginnasio. Alla fine del suo iter religioso fu ordinato sacerdote, nel dicembre del 1974, sempre a Brescia.

Proprio per il suo spirito esuberante e vivace, fu indirizzato dai superiori a seguire i giovani studenti all’università di Padova ed in altre realtà. Aderì in maniera piena e contagiosa al movimento di Comunione e Liberazione, fondato da don Giussani a Milano. In seguito fu trasferito a Treviso, poi ad Adro come responsabile della scuola, di nuovo a Treviso come priore e infine ad Enna.

Certo, padre Gioe non era un tiepido, uno che lasciasse tranquille le coscienze o non dicesse quello che pensava.   Anche ad Enna, si fece apprezzare sia dalla comunità religiosa che dai fedeli, in particolare i giovani.

In ottobre del ’98, un medico, suo amico, gli diagnosticò tra le lacrime, la malattia che lo avrebbe portato alla morte. “L’ho dovuto consolare io!” disse sorridendo a quelli che erano andati a trovarlo all’ospedale S. Camillo di Treviso.

Ha chiesto un centinaio di francobolli e molti ne ha usati scrivendo a tutti coloro con cui desiderava riconciliarsi o riannodare comunque un rapporto umano; ma la lettera che ha scritto di getto è stata quella a don Giussani il quale gli ha risposto prontamente con una telefonata: l’ha comunicato ai presenti con le lacrime agli occhi, felice come dopo l’abbraccio di un padre.

Ha voluto essere fedele alla celebrazione quotidiana della Messa anche quando ormai gli costava una fatica sovrumana e la concelebrava ad occhi chiusi con le mani a palmo aperto appoggiate sul cuscino.

Ha vissuto tutta la Settimana Santa con il pensiero di Gesù, accompagnandolo con la sua sofferenza e ricordando a chi gli era accanto le stazioni della Via Crucis.

 

  

 

 

        

Gianni Soligon

Il motivo conduttore di una vita intensa

 

   

 

Il maestro Gianni Soligon, direttore del coro parrocchiale di Colfrancui e musicista raffinato,  se n’è andato in punta di piedi il 21 ottobre 1998, a soli trentasei anni, con la discrezione che caratterizzava il suo stile.

Si era sentito male, mentre dirigeva il coro, durante la prima Messa solenne di don Michele Maiolo nella parrocchiale di Colfrancui.

Diplomato  in pianoforte al Conservatorio di Castelfranco Veneto, la musica era la sua vita e la sua passione. Era direttore della Schola Cantorum di Colfrancui e insegnante di musica. Appassionato di ‘jazz’ aveva vinto una borsa di studio, di venti giorni in America, per il perfezionamento di questo genere.

Molti ragazzi devono alla sua infinita pazienza l’apprendimento delle basi della musica che faceva da sottofondo alla sua vita. Li preparava con  scrupolo e competenza fino al saggio di fine anno, aiutandoli a superare paure e lacune e sedendo, alla tastiera,  accanto ai più piccoli  fino ad intenerire mamme e nonne. In una saletta delle opere parrocchiali aveva eletto sede alla sua scuola.

Dalle prove, condotte con cura, uscivano gradevoli anche voci non proprio raffinate. Se il canto deve unire - sembrava essere la filosofia di Gianni - nessuno dev’essere escluso e ognuno può dare qualcosa per la lode di Dio.

Una grande eredità ha lasciato Gianni: la sua visione della vita e delle morte. Il senso del tempo che scorre inesorabile, inarrestabile e il suo situarsi nel «qui e ora» per far fruttare al massimo i talenti ricevuti.

Non rimandava mai a domani o ad un’altra volta ciò che poteva fare ora, sia nello studio che nell’aggiornamento e perfezionamento delle attività inerenti alla musica, come pure nelle occupazioni famigliari: la casa, il giardino, la vigna, il tempo libero con la famiglia. Non conosceva un posto da dare alla sua stanchezza o al suo riposo, riusciva ad organizzare anche questo all’interno dell’organizzazione del tempo da dare ai suoi molteplici impegni.

E poi lo accompagnava quel senso misterioso di «essere preparati» alla morte. Era il motivo conduttore di una vita intensa e piena di progetti. Non era fatalismo il suo dire: «Bisogna essere preparati». Rifletteva una realistica visione della vita. Aveva visto da vicino la morte del padre e aveva capito che l’uomo non possiede un tempo infinito sulla terra e quel poco che ha a disposizione deve farlo fruttare al massimo come i talenti della parabola evangelica.

 

 

 

 

   

Anna Maiolo 

 

L'ansia di fare

 

 

 

   

Quando monsignor Riboldi venne ad Oderzo, Anna Maiolo gli presentò con orgoglio don Michele, che sarebbe diventato sacerdote qualche anno dopo. Una vocazione sacerdotale, fortemente condivisa e coltivata da Anna come una pianta delicata, con costanza e  fede. Per natura, non si risparmiava, fosse la cura della sua famiglia, di Claudio, Michele, Vittorio, che venivano prima di tutto, o l’ordine della chiesa. Attiva talvolta fino quasi  all’esasperazione, non conosceva sosta. Fin che il male l’ha fermata. Subito ha reagito, com’era nella sua indole, poi le forze sono gradualmente mancate.

La parrocchia di Colfrancui le deve molto: donna credente e fedele, ha amato molto la preghiera e l’eucaristia. Negli ultimi anni, lo stato di salute si rendeva visibile dalla presenza alla liturgia e alle opere buone. Quante ore ha passato per la pulizia, l’ornamento degli altari, per la preparazione delle suppellettili e dei paramenti sacri. Di carattere forte e deciso, di animo generoso, ben volentieri si sottoponeva a sacrifici per aiutare gli altri. Amava che i riti sacri fossero solenni e curati. Ha pregato molto per i sacerdoti, per il suo don Michele, per il seminario. Il suo voler essere davanti, è stato riconosciuto da tutti, era semplicemente un dare senza risparmio, un forte desiderio di essere utile.

Alla cerimonia funebre, presieduta da monsignor Vescovo e concelebrata da una trentina di sacerdoti e da due diaconi, venuti da ogni parte della diocesi, ha assistito l’intera comunità. Si sente la sua mancanza in ogni iniziativa che richiedesse mani abili ed uno spirito combattivo. Grazie Anna.

 

 

 

 

     

Don Giovanni De Nardo 

 

Un amico, un fratello

 

 

 

Don Giovanni De Nardo era fratello del nostro caro don Lorenzo; si è spento nel 1999, a 67 anni. Per dieci anni fu parroco ad Anzano di Cappella Maggiore. Era stato assistente religioso in ospedale di Vittorio Veneto  e padre spirituale in seminario. Ricopriva l’incarico di vicario episcopale per la vita consacrata.  Durante il servizio svolto in Parrocchia, accanto a don Lorenzo, molti avevano potuto apprezzarne le doti umane e la finezza d’animo.  

«Colfrancui, piccolo angolo di questo mondo insoddisfatto, cede sotto l’impeto del progresso. E così sorgono le case, i negozi, costruzioni e ancora costruzioni. C’è gente nuova che passa e non ti guarda, che vedi ma non conosci, che vive nel tuo piccolo mondo ma che sta al di fuori, non per fondersi con le vecchie idee della nostra campagna. Ecco allora che nasce il nuovo paese ‘Colfrancui’. E quel piccolo mondo, ultima testimonianza di un sereno passato, scompare sempre più, si annulla. A chi ha voluto sfuggire quel mondo resta nel cuore la tristezza e il rimorso di non averlo saputo apprezzare».

«Un cavallo  pascola lungo la polverosa via e non degna di uno sguardo il frettoloso passante e, al passaggio delle automobili, mostra la sua indifferenza, come i pochi veri contadini del paese, alla corsa sfrenata dei tempi, a quell’urgente bisogno di bruciare le tappe, di godere. Dopo, che cosa resta? Forse è meglio per gli ultimi romantici trincerarsi con quel cavallo, ma la realtà balza improvvisa al rumore assordante degli atomizzatori, dei trattori agricoli, delle vetture».

Don Giovanni De Nardo, dalle colonne del bollettino parrocchiale - gli anni Sessanta volgevano al termine - si complimentava con l’autrice dell’articolo - Renza Brugnera - articolo del quale abbiamo stralciato due capoversi, per gli spunti offerti, per la profondità dell’analisi, per lo stile, buono anche se un po’ scolastico, con evidenti reminiscenze letterarie. Non risparmiava una raccomandazione: non è tempo di piangere, ma di agire. E aggiungeva: «Nella tua acuta diagnosi, accenni ad una delle più grosse difficoltà di Colfrancui: l’inserimento «della gente nuova che passa e non ti guarda, che vedi e non conosci» nelle nuove abitudini paesane. Che cosa abbiamo fatto per questa gente, perché ci diventi amica, perché entri nella comunità?

A questa comunità don Giovanni De Nardo era particolarmente affezionato. L’anno scorso, aveva molto apprezzato il numero unico «Colfrancui, anno d’oro». E ci aveva ringraziato di aver ricordato suo fratello don Lorenzo.

Scriveva: «Godo nel constatare che la tanta generosità pastorale di don Lorenzo non è dimenticata». Aveva aperto la lettera ad un amico in questo modo: «Sarà perché sto invecchiando o addirittura sul viale del tramonto, ma è certo che quando noto nelle persone aspetti positivi (come la delicatezza di manifestare riconoscenza per i propri Pastori) sento il dovere di ringraziare e di complimentarmi: il che faccio con lei, anche se in ritardo dovuto in parte alla cura del mio cancro, in parte agli impegni pastorali. La lascio e chiedo venia se l’avessi tediato con qualche grano di «incenso» che non vuol essere anticipo di un’epigrafe funebre».

 

 

 

 

 

 

(don Arrigo, primo a destra, il giorno dell'ordinazione sacerdotale)    

Don Arrigo Gobbo

 

MITE E UN PO' SCHIVO

 

      

 

 

Don Arrigo Gobbo chiudeva la giornata terrena, all'Ospedale di Oderzo, nel 1982.

Nel ventesimo anniversario della scomparsa, è stata celebrata, nella chiesa di Camino, una Messa di suffragio. Attorno all’altare, con il Parroco don Vittore De Rosso. erano presenti molti compagni d'ordinazione, da don Carlo Dal Pont a don Mario de Luca, don Andrea Pierdonà, don Max Pizzini, don Achille Da Dalt, don Agostino Balliana, don Giacinto Padoin.

Non ha voluto mancare don Francesco, Parroco della Comunità di Solighetto nella quale don Arrigo ha lasciato un ricordo di stima e di affetto maturato nel servizio festivo prestato con assiduità per dieci anni.

Nell’omelia, don Achille ha ricordato i vari campi di impegno nei quali il compagno di ordinazione, dal carattere mite e un po’ schivo,  non sì è mai risparmiato, animato da una fede incrollabile.

Don Arrigo Gobbo, fratello di Maria Teresa Gobbo Girotto, era stato segretario del vescovo Albino Luciani, Direttore dell'Opera Diocesana di Assistenza, che gestiva le colonie, e Amministratore del settimanale diocesano L'Azione.