EL SOC NADAIN

 

di Giuseppe Covre

 

 

I nostri vecchi raccontano che una volta, quando il benessere era ancora un sogno lontano, nelle case contadine l’unico ‘elettrodomestico’ multiuso e multifunzionante  era il ‘larìn’, ovvero il camino. Era indispensabile e serviva per cucinare i cibi, riscaldare l'ambiente, asciugare i panni. Era dimensionato alla grandezza della cucina.

La notte della vigilia di Natale era tradizione alimentare il fuoco del camino con un pezzo di legno particolarmente grande; veniva scelto di buona qualità e sano (gelso, olmo, frassino, acacia). Serviva a due scopi: riscaldare la culla del Bambino che veniva messo nel presepe la Notte Santa e doveva rimanere – in parte integro – come ceppo di Natale o “soc nadain”.

Il ceppo di Natale non doveva bruciare interamente, ma solo da un’estremità. Ad un certo punto veniva allontanato dal fuoco e spento. Il legno restante trovava sistemazione in un angolo del camino e veniva riacceso – dalla parte bruciata – la sera del panevìn. Quella sera infatti, con il ceppo ardente, la famiglia usciva per accendere il panevìn.

Avveniva una specie di continuità simbolica tra il fuoco di Natale e il fuoco che doveva illuminare la strada dei Magi.

La religiosità popolare, nella sua semplicità, si esprimeva attraverso simboli essenziali: fuoco, legna, acqua.

Tornando al “soc nadain”, dopo aver assolto il compito alla vigilia di Natale e successivamente per accendere il panevìn, esso veniva di nuovo spento, recuperato e riportato a casa dove trovava nuovamente posto nel solito angolino del ‘larìn’.

I grandi sapevano dov’era; ai piccini non era di grande interesse e per questo motivo il nostro ’ reperto’ bruciacchiato se ne stava per mesi al sicuro.

Quando d’estate arrivavano puntuali i temporali, accompagnati spesso dalla temutissima grandine,  capace in pochi minuti di portare la disperazione nelle famiglie, il capofamiglia chiedeva gli venisse portata la candela (candèa serioea) e l’ulivo pasquale.

Prendeva "el soc nadain” dal camino e quando i primi chicchi di grandine cominciavano a rimbalzare sui sassi del cortile lo gettava fuori dell’aia in segno propiziatorio.

Socchiudeva appena una finestra, tenendo ben chiusi i balconi, accendeva la candela e cominciava a bruciare lentamente il ramoscello d’ulivo.

Tutta la famiglia assisteva alla cerimonia, seduta attorno alla tavola, e cominciava la recita del rosario in un clima di angosciosa trepidazione.

Mi piace ricordare a beneficio delle giovani generazioni queste cerimonie domestiche, frutto di una religiosità semplice ma nello stesso tempo convinta.

Venticinque anni fa, con alcuni amici di Colfrancui, parlando di tradizioni e di ricordi, pensammo di recuperare l’idea di queste splendide usanze rurali, partendo da un dato indiscutibile: non c’erano più i nostri vecchi ‘larìn’. Perciò pensammo di recuperare la tradizione del “soc nadaìn” attraverso un’iniziativa comunitaria da tenersi nella notte della vigilia di Natale.

Ancora oggi  – non mi risulta avvenga in altre comunità della Provincia – la notte di vigilia viene acceso a Colfrancui il “ceppo di Natale”.

Volemmo fin dall’inizio che non venisse confuso, nemmeno nella forma, con il ‘panevìn’. Infatti la struttura portante è costituita da un grande albero secco attorno al quale si deposita buona legna da fuoco e non le sterpaglie del ‘panevìn’. Convincemmo e coinvolgemmo il compianto don Lorenzo per dare alla nostra idea un segno di “sacralità”.

L’accensione tuttora avviene dopo la Messa di mezzanotte anticipata  alle 21. Al termine della cerimonia, il celebrante accompagnato dai fedeli si reca in processione ad accendere  “el soc nadaìn”. I bravi e generosi amici della Colfranculana, anno dopo anno, continuano a portar avanti questa usanza con passione e costanza, offrendo ai tantissimi ospiti ’vin brulé’ e ‘ pinza’ per tutti. A tutte queste persone e al Parroco un sentito, doveroso ringraziamento.

                                                                (dal "Dialogo")