Nato il 28 agosto 1828 a
Tula (a circa 180 chilometri da Mosca), a ventiquattro anni
pubblicò con successo la sua prima opera “Infanzia”; a
trentatré anni fondò una scuola per i contadini nel suo
paese natale.
Due anni dopo sposò la diciottenne Sofia Bers dalla quale ebbe
tredici figli.
Negli anni successivi pubblicò con successo “Guerra e Pace” e
“Anna Karenina”.
A cinquant’anni cadde in una profonda crisi spirituale, in seguito alla
quale pubblicò “La Confessione”, “Sonata a Kreuzer”, “Il
Regno di Dio è in voi”, “Resurrezione”, “Non posso
tacere”,
“Lettera a un Indù”, e il saggio “Il Primo Gradino”, prefazione a
“The Ethics of Diet” di H. Williams.
Durante la carestia del 1891 organizzò refettori per i contadini
affamati.
Grande sostenitore della cultura etica, nei suoi racconti
delineò il cammino verso una
spiritualità profonda e
autentica, semplice e schietta.
Nei suoi scritti Tolstoi sostenne che
la verità della dottrina
cristiana viene tenuta nascosta ai fedeli dalle chiese, che fanno
credere che la salvezza provenga dai riti e dai sacramenti e non dalla
vera osservanza della dottrina morale di Cristo; sostenne che la
causa di
tutti i malintesi sul cristianesimo stia nel credere che a esso si
possa aderire senza un radicale cambiamento di vita; per
questo, nel
1901 venne scomunicato dalla chiesa ortodossa.
Morì durante un viaggio, nella casa di un capostazione, il 7
novembre 1910 a ottantadue anni.
Seguono stralci dal saggio di Leone Tolstoi “Il Primo Gradino”.
“…….Mi ricordo con quanta
fierezza un evangelico, contrario all’ascetismo monastico, mi diceva:
‘Il nostro cristianesimo non consiste nelle privazioni e nel digiuno.
Il cristianesimo e la virtù vanno perfettamente d’accordo con la
bistecca’. Durante le lunghe tenebre, in mancanza di ogni guida pagana
o cristiana, sono penetrate nella nostra vita tante nozioni selvagge e
immorali che ci è perfino difficile comprendere oggi l’insolenza
e la follia di questa affermazione sul buon accordo del cristianesimo e
della virtù con le bistecche.
Noi non abbiamo orrore di questa affermazione, perché guardiamo
senza vedere e ascoltiamo senza udire.
Non vi è fetore al quale l’olfatto non finisca per abituarsi,
non vi è rumore al quale l’udito non possa assuefarsi, né
mostruosità che l’uomo non abbia imparato a considerare con
indifferenza.
Così che egli non rileva più ciò che colpisce,
invece, chi non vi è ancora abituato.
Lo stesso avviene nel campo morale.
Ho visitato ultimamente il macello pubblico della nostra città
di Tula.
E’ stato costruito, come in tutte le grandi città, secondo
l’ultimo modello perfezionato, in modo che gli animali che vi si
uccidono soffrano il meno possibile.
Già da diverso tempo, in seguito alla lettura del bellissimo
libro ‘Ethics of Diet’, desideravo visitare i macelli, per constatare
de visu il nocciolo del problema dell’alimentazione vegetariana; ma io
avvertivo sempre quella specie di ripugnanza che si prova quando si sa
di dover assistere ad una sofferenza che certamente avrà luogo e
che ci sarà impossibile impedire. E rimandavo la visita.
Ma poco tempo fa incontrai per strada un macellaio che andava a Tula.
Era ancora un apprendista e la sua mansione consisteva nel dare il
colpo con il coltello. Gli domandai se non aveva compassione della
bestia che si apprestava a colpire. ‘Perché averne
pietà?’ mi rispose ‘E’ necessario farlo’.
Ma quando gli spiegai che non è affatto necessario mangiar carne
e che essa è un cibo di lusso, egli convenne che infatti
è una cosa crudele.
‘Ma come fare? Bisogna ben guadagnarsi da vivere. Prima sì mi
faceva impressione ammazzarle. Mio padre non ha mai sgozzato un pollo
in vita sua!’. Infatti alla maggior parte dei russi ripugna uccidere,
provano pietà ed esprimono questo sentimento con le parole ‘fare
impressione’.
A lui pure faceva impressione, mai poi cessò di impressionarsi.
Mi spiegò che il maggior lavoro capita di venerdì e si
continua fino a sera.
Tempo fa parlai con un macellaio militare ed egli pure fu stupito della
mia osservazione che è male uccidere.
Anche lui rispose che è un’abitudine inevitabile, ma finalmente
convenne che è male e aggiunse: ‘Soprattutto quando la bestia
è docile, addomesticata, come si avvicina poveretta, tutta
fiduciosa. E’ una gran pena!’.
E’ orribile!! Orribile, non solo la sofferenza e la morte di questi
animali, ma il fatto che l’uomo, senza alcuna necessità, faccia
tacere in sé il sentimento di simpatia e di compassione verso
gli altri esseri viventi e divenga crudele, facendo violenza anche a
sé stesso.
E quanto è profondo nel cuore umano il divieto di uccidere un
altro essere!!
Un giorno che tornavamo da Mosca, alcuni carrettieri che andavano nella
foresta a far legna ci presero sul loro carro. Era il giovedì
santo.
Io ero seduto davanti, accanto ad un carrettiere grasso,
sanguigno e rozzo, evidentemente un forte bevitore. Entrando in un
villaggio, scorgemmo un maiale tutto roseo trascinato fuori da una casa
per essere ucciso, il quale mandava urli disperati, che somigliavano a
grida umane.
Proprio mentre noi vi passavamo davanti, cominciarono a colpirlo, un
uomo gli fece un lungo taglio col coltello nella gola; il grido del
maiale divenne più forte e più acuto e l’animale
scappò via grondando sangue; poi il maiale fu ripreso,
rovesciato, finito.
Quando le sue grida cessarono, il carrettiere sospirò
profondamente e disse: ‘Ma non c’è dunque un Dio??’.
Questa esclamazione mostra il disgusto profondo che l’uccisione ispira
all’uomo.
Ma il continuo esempio, le sollecitazioni dell’ingordigia,
l’affermazione che tutto ciò è ammesso da Dio, e
soprattutto l’abitudine, conducono gli uomini alla completa perdita di
questo sentimento naturale.
Era un venerdì, io mi stavo recando a Tula al macello e, avendo
incontrato un amico, uomo buono e sensibile, lo pregai di
accompagnarmi. ‘Sì, ho inteso dire che è molto ben
organizzato e avrei voluto visitarlo. Ma se ora stanno macellando, non
vengo.’
‘E perché? E’ precisamente questo che mi interessa.
Se mangiamo la carne, bisogna anche vedere come gli animali vengono
macellati.’
‘No, no, non me la sento.’
……………..………
Dalla parte opposta a
quella dove io mi trovavo, stavano facendo entrare un grosso bue, rosso
e grasso, due uomini lo trascinavano per le corna.
Il bue aveva appena varcato la soglia, che un macellaio lo colpì
alla nuca con un’ascia a manico lungo. Come se gli fossero state
tagliate tutte e quattro le gambe in un sol colpo, il bue cadde
pesantemente sul ventre, poi si girò su un fianco e si mise ad
agitare convulsamente le gambe e la parte posteriore del corpo.
Allora uno dei macellai si precipitò su di lui, badando a non
farsi colpire dagli zoccoli, lo prese per le corna e gli abbassò
con forza la testa contro il suolo, mentre un altro gli tagliava la
gola. Dalla larga ferita un sangue rosso bruno sgorgò a fiotti e
venne raccolto in un recipiente di metallo da un ragazzo, tutto intriso
di sangue.
Durante tutto questo tempo, il bue non aveva cessato di girare e
scuotere la testa e di agitare convulsamente le gambe nell’aria. Il
catino si riempiva rapidamente di sangue, ma il bue era ancora vivo,
respirava pesantemente e continuava a scalciare, tanto che i macellai
si tenevano a distanza.
Appena il catino fu pieno, il ragazzo se lo mise sulla testa e lo
portò via alla fabbrica dell’albumina; prese il suo posto un
secondo ragazzo con un altro recipiente e anche questo cominciò
a riempirsi, mentre il bue continuava ad alzare ed abbassare il ventre
nel respiro e a dibattersi disperatamente.
Appena il sangue cessò di sgorgare, il macellaio sollevò
la testa della bestia e si mise a scorticarla; l’animale si dibatteva
ancora. La testa venne messa a nudo, divenne rossa con le vene bianche
e prendeva le posizioni che le dava il macellaio; la pelle pendeva
dalle due parti. Il bue non cessava però di scalciare.
Un altro macellaio lo afferrò allora per una gamba, la
spezzò e gliela tagliò: sul ventre e sulle altre gambe
correvano ancora le convulsioni.
Poi gli furono tagliate le gambe rimaste e furono gettate nel mucchio
con le altre. Infine l’animale abbattuto fu trascinato verso la
carrucola e fu appeso.
Allora solamente la bestia non diede più segno di vita.
Così io vidi, restando sulla porta, ucciderne un secondo, un
terzo, un quarto. Per tutti lo stesso procedimento, in ciascuno gli
ultimi trasalimenti, in ciascuno la testa tagliata mostrava la lingua
perforata dai denti.
L’unica differenza che a volte il macellaio falliva il colpo che doveva
far stramazzare l’animale, e questi si impennava, muggiva e grondando
sangue tentava di fuggire. Allora lo si trascinava sotto la trave, dove
si scorticavano le bestie, lo si colpiva una seconda volta e finalmente
il bue cadeva.
Feci il giro e mi avvicinai alla porta opposta dalla quale entravano
gli animali, qui assistetti alla stessa operazione; solamente ero
più vicino, e potei osservarla più distintamente. Vidi
soprattutto ciò che non avevo potuto osservare dall’altra porta:
il mezzo con il quale si forzava la vittima ad entrare.
Ogni volta che prendevano un bue dal cortile e lo trascinavano con una
corda attaccata alle corna, il bue, sentendo l’odore di sangue,
muggiva, s’inarcava, indietreggiava. Due uomini non avrebbero potuto
trascinarlo a forza, perciò ogni volta uno dei macellai si
avvicinava, prendeva il bue per la coda e la rigirava verso l’alto,
spezzandola; l’animale allora avanzava.
Dopo che ebbero finito di abbattere i buoi di un proprietario,
ricominciarono con quelli di un altro. Il primo animale di questo nuovo
gruppo era un toro bellissimo, forte, nero chiazzato di bianco, le
gambe completamente bianche, una bestia giovane, muscolosa, piena di
energia.
Tirarono la corda, l’animale abbassò la testa e s’impuntò
con decisione, ma il macellaio che gli stava dietro, come un fabbro che
si impadronisce del manico di un mantice, afferrò la coda e la
rigirò fino a farla scricchiolare.
Il toro balzò in avanti, buttando a terra quelli che lo tenevano
per la corda, poi si fermò di nuovo, guardandosi intorno col suo
occhio nero pieno di fuoco; ma di nuovo la coda scricchiolò, il
toro si gettò in avanti e si fermò questa volta al posto
giusto.
L’abbattitore si avvicinò e vibrò un colpo mal riuscito.
Il toro diede un balzo e agitò con forza la testa mugghiando,
tutto insanguinato, si divincolò e indietreggiò.
Quelli che si trovavano vicino alla porta, si scansarono rapidamente,
ma i macellai, abituati a simili pericoli, afferrarono di nuovo le
corde, girarono ancora la coda e il toro si trovò di nuovo nella
stanza e fu trascinato con la testa sotto la trave, così che non
gli fu più possibile sfuggire.
L’abbattitore seppe trovare rapidamente il punto sulla nuca, dove il
pelo si divide a stella, benché fosse coperto di sangue, lo
colpì e la bella bestia piena di vita si abbatté
dibattendo la testa e le gambe, mentre la dissanguavano e la
scorticavano.
‘Ah, finalmente!’ brontolava il macellaio che gli toglieva la pelle
dalla testa ‘sembrava avesse il diavolo in corpo; non è neppure
caduto nel punto giusto!’.
Cinque minuti dopo, la testa nera era divenuta rossa senza pelle, con
gli occhi vitrei; quegli stessi occhi, che brillavano così pieni
di fuoco solo pochi minuti prima.
Poi mi recai al posto dove viene abbattuto il bestiame minuto: era uno
stanzone con il pavimento asfaltato e alcuni tavoli con spalliera, sui
quali si sgozzano montoni e vitellini.
Qui il lavoro era terminato e nella stanza, tutta impregnata di odore
di sangue, restavano solo due macellai. Uno soffiava nella gamba di un
agnello ucciso e ne sfregava con una mano il ventre già gonfio
d’aria; l’altro, un ragazzo col grembiule macchiato di sangue, fumava
una sigaretta.
Dopo di me entrò un uomo che sembrava un soldato in ritiro;
costui portava un agnellino appena nato, nero con un segno sul collo,
le gambe legate; lo poggiò su uno dei tavoli, come se lo
coricasse su un letto.
Il soldato, che evidentemente era familiare del posto, augurò il
buon giorno e cominciò a discorrere a proposito di un permesso,
da chiedere al padrone.
Il ragazzo della sigaretta si avvicinò col coltello in mano,
l’affilò sull’angolo del tavolo e rispose che davano vacanza
tutti i giorni festivi.
L’agnello vivo restava immobile sul bancone, come quello morto, colla
differenza che agitava vivamente la piccola coda e i suoi fianchi si
sollevavano nel respiro più rapidamente che di ordinario.
Il soldato appoggiò, senza alcuno sforzo, contro il tavolo la
testa, che la bestiola voleva sollevare; il giovane macellaio,
continuando a parlare, afferrò con la sinistra la testa
dell’agnello e gli tagliò la gola. L’agnello si contorse, la
piccola coda divenne rigida e cessò di muoversi.
Il ragazzo, mentre il sangue colava, si riaccese una sigaretta,
l’agnello sussultava ancora. Intanto la conversazione era continuata
senza un momento di interruzione.
E le galline? E i polli? A migliaia ogni giorno nelle cucine, con la
testa mozzata, inondati di sangue, corrono, sbattono le ali, con
spaventosa comicità.
Eppure la signora dal cuore tenero mangia questo cadavere di volatile
con l’assoluta sicurezza del suo buon diritto, sostenendo due tesi
contraddittorie: la prima, che lei è così delicata, come
le assicura il suo medico, che non potrebbe sopportare una
alimentazione esclusivamente vegetariana; la seconda, che lei è
così sensibile, che è incapace non solamente di far
soffrire un animale, ma neppure di sopportare la vista delle sue
sofferenze. In realtà la povera donna è debole proprio
perché l’hanno abituata a nutrirsi di alimenti non adatti
all’organismo umano; e non può non causare sofferenze agli
animali, dal momento che se ne nutre.
Non si può far finta di ignorare tutto questo.
…………………..
Se un uomo cerca
seriamente e sinceramente di progredire verso il bene, la prima cosa di
cui si priverà sarà l’alimentazione carnea.
Infatti, senza parlare dell’eccitamento delle passioni più basse
che questo cibo provoca, il suo uso è immorale, perché
comporta una azione contraria alla morale -l’assassinio- causata solo
da ingordigia e golosità.
………………….
‘Ma perché mai, se
l’illegittimità e l’immoralità dell’alimentazione
animale è conosciuta da tanto tempo, non si è ancora
arrivati fino ad oggi alla consapevolezza di questa legge?’ si
domanderanno coloro che giudicano piuttosto secondo l’opinione corrente
che secondo ragione.
La risposta sta nel fatto che i movimenti moralizzatori, alla base del
vero progresso, avanzarono sempre lentamente.
La prova però dell’autenticità di un movimento morale sta
nel suo carattere di continuità e costante accelerazione. Questi
caratteri si riscontrano nel progredire del vegetarismo e si
manifestano, con forza specifica e cosciente, nel movimento
vegetariano, che si sta diffondendo ogni giorno di più.
Ogni anno si stampano nuovi libri e riviste che si occupano di questo
argomento. Si incontrano sempre più spesso persone che hanno
rinunciato all’alimentazione carnea. Il numero degli alberghi e dei
ristoranti vegetariani - soprattutto in Germania, Inghilterra e Stati
Uniti – è in continuo aumento.
Questo progresso deve rallegrare in modo speciale coloro che cercano di
realizzare il Regno di Dio sulla terra; non solo perché il
vegetarismo, di per sé è un passo importante verso questo
Regno, ma perché è la prova che il cammino
dell’umanità verso la perfezione morale sta procedendo in modo
serio e autentico. Infatti, tale cammino implica una progressione
specifica e invariabile e questa ne è la prima tappa.
Dunque non si può che rallegrarsene.
Così come si rallegrerebbero quegli uomini che, volendo
raggiungere la sommità di un edificio, dopo aver tentato invano
e disordinatamente di scalarne da tutte le parti le mura, si accorgono
che l’unico modo per salire è passare dalla scalinata, e si
riuniscono, finalmente, davanti al suo primo gradino.”